Tecnologia

Mi sono infiltrato in un laboratorio cinese in cui si producono oppioidi sintetici

Il giornalista Ben Westhoff è stato il primo a indagare a fondo sull’epidemia di fentanyl che sta uccidendo una generazione di americani, e per farlo è arrivato fino alla periferia di Shanghai.
Giacomo Stefanini
traduzione di Giacomo Stefanini
Milan, IT
08_28_2019_HOW_I_INFILTRATED_A_CHINESE_DRUG_LAB_CV
Illustrazione di Cathryn Virginia.

Ben Westhoff è un giornalista che nel suo nuovo libro, Fentanyl Inc., ha ritratto la gigantesca industria della droga sintetica cinese. Westhoff ha ottenuto l’accesso ai laboratori fingendosi un potenziale acquirente. Abbiamo trovato affascinanti sia il libro che i sacrifici (forse spericolati) che ha fatto per scriverlo, così gli abbiamo chiesto di raccontarci come ci è riuscito.

All’inizio del 2017, quando ho cominciato a indagare sul ruolo della Cina nella crisi degli oppioidi, il fentanyl aveva iniziato a uccidere più americani ogni anno di qualunque altra droga nella storia e cannabinoidi sintetici come il K2 stavano rimpiazzando la marijuana, causando gravi problemi di overdose.

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Per capire bene cosa ci fosse dietro l’epidemia, dovevo andare in Cina, ma non parlavo cinese. I miei colleghi dicevano che mi serviva un “fixer”, ma non sapevo dove trovarlo. “La mia coinquilina all’università ha vissuto a Shanghai per alcuni anni con suo marito”, ricordo che mi disse il mio amico Dan, come se servisse a qualcosa. “Magari loro conoscono qualcuno”.

Capii che avrei dovuto passare per un potenziale compratore. Per iniziare ho semplicemente googlato “Comprare droghe in Cina”, che come risultato mi ha dato centinaia di pagine di siti di aziende farmaceutiche cinesi. Avevano l’aria professionale, erano scritti in cinese e inglese e contenevano foto stock di scienziati sorridenti, con i loro camici, in laboratori modernissimi e scintillanti. Offrivano migliaia di composti chimici, comprese nuove droghe legali a scopo ricreativo in Cina ma illegali negli USA.

Creai un’email fasulla e cominciai a scrivere messaggi a vari venditori. “Buongiorno, vorrei parlare dei vostri composti chimici,” scrivevo, aggiungendo che ero disponibile su Skype. “Grazie!”

Ricevetti alcune risposte e presto cominciai ad alzarmi alle 4 del mattino per parlare con venditori a fine turno in città come Shenzhen o Wuhan. Seduto davanti al mio laptop al buio con una tazza di Earl Grey che mi scaldava le mani, interpretavo “Johnny Webster,” un giovane un po’ tamarro con l’aria dell’appassionato di espansione della coscienza e un avatar perfettamente in linea con il personaggio.

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Chiedevo informazioni su sostanze e prezzario e loro rispondevano in ottimo inglese. “Che quantità le serve?,” mi chiese un venditore di nome Jackie Jiang che lavorava per un’azienda di Wuhan di nome Health222chem, dopo che gli avevo detto di essere interessato a una droga chiamata BUC-3. Si tratta di un oppioide poco conosciuto; l’azienda lo vendeva perché aveva effetti simili a quelli del fentanyl, ma era ancora legale in Cina. “100g di BUC-3 per 900 dollari. Accettiamo Bitcoin.”

Non comprai mai nulla, ma con alcuni venditori parlavo per ore, cercando di capire come si potesse finire nel business del traffico di droghe dannosissime su scala globale. Una neolaureata di 23 anni che aveva studiato “servizi aeroportuali” mi disse che apprezzava musica “allegra o jazz” e le piaceva uscire a bere con gli amici. Le chiesi se la preoccupava il pensiero che i suoi clienti usassero i precursori del fentanyl , che vendeva per fabbricare droghe che avrebbero ucciso della gente. “Molti dei miei clienti si rifiutano di dirmi il vero scopo del loro acquisto,” rispose. Molti venditori sostenevano di non sapere che cosa fosse il fentanyl, il che è plausibile dal momento che l’abuso di questo farmaco non è comune in Cina.

Riuscii a entrare in contatto anche con proprietari di aziende chimiche sul mercato nero e grigio, alcuni dei quali si dichiararono disposti a farmi visitare i laboratori. Cercai un traduttore e cominciai a pianificare il viaggio.

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Le cose cominciavano a farsi serie. Mi rassicurava pensare che le armi da fuoco sono poco diffuse in Cina e che queste operazioni non sono gestite da cartelli o da gang, ma da persone d’affari con l’unico obiettivo di fare soldi. “Non ti rapiranno né ti uccideranno, ma è comunque rischioso”, mi avvisò Mike Power, un giornalista inglese che aveva già passato anche lui alcune avventure nel mercato cinese della droga. Questo non significava che non fossi comunque molto agitato. Voglio dire, avevo 40 anni, avrei dovuto essere più prudente.

Ma questa indagine era più grande di me. La nuova epidemia di tossicodipendenza stava diventando globale, eppure ancora in pochi capivano il funzionamento di queste operazioni. Nessun giornalista era mai stato in un laboratorio di fentanyl cinese.

Così mi convinsi a farlo, nonostante le (molto comprensibili) preoccupazioni di mia moglie, che temeva che sarei stato arrestato e detenuto in un carcere cinese in un momento in cui le relazioni tra Cina e USA stavano peggiorando. ‘Fanculo, pensai. Andiamo.

Wuhan è una metropoli da 11 milioni di persone, un centro di produzione chimica della Cina centrale perlopiù sconosciuto in Occidente. Ci arrivai poche ore prima dell’inizio del 2018. La mia traduttrice Jada e sua madre mi vennero a prendere e io osservai l’architettura futuristica della città con i suoi infiniti ammassi di condomini altissimi filtrare spettrali tra lo smog.

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Mi lasciarono all’hotel, dove il receptionist fotocopiò il mio passaporto. Visto che la mia SIM americana non funzionava, fui costretto a noleggiare un telefono controllato dal governo. Sinceramente, avevo più paura di finire in carcere che di venire assassinato da un trafficante di droga. Sentivo la paranoia investirmi mentre chiudevo la porta della camera con il catenaccio. La mezzanotte del 31 dicembre non è un evento in Cina, ma molta gente stava festeggiando; qualcuno bussò alla porta, qualcun altro chiamò il telefono della stanza. Non risposi.

Il mattino dopo, dopo la miglior colazione della mia vita (fette di anguria, fagioli rossi, bok choy e una ciambella), la mamma di Jada ci portò alla periferia di Wuhan, dove incontrammo uno spacciatore adolescente e la sua ragazza. Lui vendeva surrogati di LSD chiamati N-Bomb e altre droghe su siti come Baidu. Mangiammo carne stufata; io rifiutai cortesemente il cervello di maiale. Spacciare droga in Cina è roba da duri, perché anche un reato minore può portare a una detenzione lunghissima o addirittura alla pena di morte. Ma vendere queste nuove droghe non lo preoccupava. “La polizia è troppo occupata a star dietro alle metanfetamine”, mi disse.

Al ritorno mandai un SMS a un distributore che si faceva chiamare Mike_Health205, che vendeva MDMA, finto ecstasy e analoghi del fentanyl. Gli dissi che volevo ordinare una cosa chiamata 4CL-PVP—un sostituto dell’ecstasy che era legale in Cina—ma prima volevo vedere il suo laboratorio “per assicurarmi di potermi fidare della vostra azienda e verificare i vostri standard di qualità”, scrissi. Non mi diede l’indirizzo, ma mi disse che il suo socio Du mi sarebbe venuto a prendere in un grande centro commerciale di Wuhan e mi ci avrebbe portato in macchina. Aspettai un’ora fuori da quel maledetto negozio Gucci, ma Du mi tirò il pacco. Forse fu un problema di comunicazione, ma sospetto che vedendomi Du avesse pensato che fossi una spia. Cosa che, in effetti, ero.

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A Wuhan parlai anche con altri venditori, alcuni interessanti, ma nessuno disposto a mostrarmi il laboratorio. A questo punto, temevo che avrei dovuto lasciare la Cina senza aver osservato un laboratorio al lavoro, il motivo principale del viaggio.

Ma avevo un altro contatto promettente, così il giorno dopo Jada e io salimmo su un treno ad alta velocità diretto a Shanghai.

Dopo aver preso una stanza in un ostello della gioventù, arrivammo alla stazione di Nanchen Road a Shanghai sotto una pioggia battente. Era lì che il proprietario di un laboratorio, che chiamerò D, mi chiese di vederci. Da lì, ci saremmo recati al suo ufficio per parlare. Pensavo che saremmo andati a piedi, per cui Jada e il suo ombrello si piazzarono a poca distanza per tenermi d’occhio. Jada era al corrente del rischio che stavamo correndo, ma D credeva che fossi solo.

D arrivò in una piccola Chevrolet, quindi il nostro piano era da considerarsi fallito. Deglutii ed entrai. Al volante c’era un tizio piuttosto corpulento che D mi presentò come il suo autista; io pensai che fosse anche l’addetto alla sicurezza dell’operazione.

D è comproprietario di un’azienda chiamata Chemsky, che sul suo sito dice di produrre composti chimici “per grandi aziende farmaceutiche e biotecnologiche in tutto il mondo,” compresa la Johnson & Johnson, anche se il loro portavoce mi ha detto che non è assolutamente vero. In realtà, Chemsky è specializzata in cannabinoidi sintetici, analoghi del fentanyl, catinoni sintetici, nuove benzodiazepine e altre nuove droghe dai nomi impronunciabili come AB-CHFUPYCA. Lo sapevo perché, non tanto più tardi del nostro primo contatto via email nell’ottobre del 2017, D mi aveva mandato un foglio Excel con tutti i loro prodotti. Forse vendevano anche farmaci leciti, ma in maggioranza distribuivano le droghe preferite dagli Occidentali a scopo ricreativo che non erano ancora state vietate in Cina.

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Dopo alcuni scambi di email e chat su Skype nel corso di circa due mesi, D mi disse che sarebbe stato felice di mostrarmi il suo laboratorio. Aveva 38 anni, un viso rotondo, un comportamento amichevole, anche se sospettoso, e una buona padronanza dell’inglese. Quando non parlavamo di droghe, lui si lasciava andare a discorsi su ogni argomento, e io registravo tutto sul mio telefono nascosto in tasca. “Gli Stati Uniti e il Canada sono due grandi nazioni”, disse a un certo punto. “E la Germania anche. Il Giappone è un paese grandioso. Ma ci sono state delle guerre tra la Cina e il Giappone, quindi i cinesi non amano molto i giapponesi. La guerra di Corea è stato un errore. Il governo cinese non avrebbe dovuto aiutare la Corea del Nord. Il governo cinese non ha voluto ammettere l’errore”.

Il suo ufficio era anche il suo appartamento, scoprii, un elegante attico in cima a un palazzo di lusso in una gated community, un quartiere privato. Seduti nel suo ufficio, cominciammo a parlare dei vari composti chimici che vendeva. Mi chiese a cosa fossi interessato; io mugugnai qualcosa di vago sugli analoghi del fentanyl. A un certo punto mi guardò dritto negli occhi.

“Abbiamo paura che un giornalista venga nel nostro laboratorio, nel nostro paese, per scoprire perché sintetizziamo queste sostanze o perché le vendiamo al tuo paese”, mi disse. “Per far peggiorare la salute della tua gente. Per fare male al popolo del tuo paese. Per cui mi chiedo se sia una buona idea farti visitare il mio laboratorio.”

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Negai di essere un giornalista, ma lui era palesemente scettico. Decise di indagare meglio su di me portandomi a pranzo. L’autista ci venne a prendere con la Chevrolet e ci portò in un ristorante vicino all’università di Shanghai. Senza farmi vedere, scrissi a Jada dove mi trovavo, per quanto avevo capito.

Lui mangiò carne di maiale, io uova strapazzate con zucchine trifolate. Mi chiese il motivo preciso per cui avessi voluto conoscerlo. Gli dissi che rappresentavo un amico statunitense che trafficava droga, che era interessato a comprare all’ingrosso analoghi del fentanyl e altri composti e mi aveva chiesto di dare un’occhiata al laboratorio di D. Se, secondo il mio rapporto, il laboratorio aveva degli standard qualitativi adeguati, il mio amico avrebbe fatto affari con lui.

“Perché non è venuto di persona?” D chiese.

“Perché io avevo già in programma di venire in Cina a trovare un amico,” dissi, improvvisando.

“Un amico? Dove?”

“A Wuhan”, risposi.

“Io sono di Wuhan! In che zona di Wuhan?”

Facendo finta di non capire che cosa mi stesse dicendo, chiesi permesso e mi ritirai al bagno. Quando tornai, cambiammo argomento e, non so come, alla fine del pranzo avevo passato il test.

Poco dopo ci trovammo di nuovo nella Chevrolet, viaggiando a tutta velocità lungo un’autostrada di Shanghai. Il laboratorio, disse D, si trovava “in campagna.” Il mio cuore cominciò a battere forte. L’auto non aveva cinture di sicurezza.

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Cercai di tenere traccia della strada che stavamo facendo, scrivendo di nascosto nomi di uscite e punti di riferimento a Jada, in caso qualcosa andasse storto. “Tunnel Shangzhong”, digitai, e “Autostrada Sanlu.” A un certo punto riuscii solo a scrivere “direzione Ovest presumo.” Ma in tutta onestà non avevo idea di dove fossimo. Il GPS del mio telefono non funzionava, i cartelli erano quasi tutti in cinese.

D cantò “Take Me Home, Country Roads” di John Denver mentre uscivamo dall’autostrada. Avevamo guidato per circa mezz’ora verso sud dal centro di Shanghai. La parola “campagna” non mi sembrava una descrizione adeguata; c’erano appezzamenti di terra abbandonati pieni di immondizia a fianco di colossali complessi residenziali.

Entrammo nel parcheggio di un parco di uffici circondato da edifici anonimi, rettangolari, alti pochi piani. Nel mezzo c’era una fontana. Da fuori, era impossibile sospettare che l’edificio in cui stavamo per entrare non ospitava un magazzino di posta o di prodotti da supermercato, ma un laboratorio per la produzione di farmaci.

“Il laboratorio è qui. Ci siamo, amico!” disse D, aggiungendo che non mi era permesso fare foto.

Uscimmo dall’auto; l’autista restò al suo posto. Lo smartphone nella tasca della mia giacca continuava a registrare e, dato che non potevo prendere appunti, recitavo le mie osservazioni a voce alta, dicendo cose tipo: “Questo edificio sembra di costruzione recente, le pareti interne sono blu e grigie e le scale odorano di cemento.” Non so se D non l’avesse notato o avesse pensato semplicemente che fossi un tipo strambo. Disse che si trovavano lì da cinque anni. Mi accompagnò su per due rampe di scale, entrando velocemente in una stanza per scambiare due parole con quelli che sembravano dei venditori. Il terzo piano conteneva il laboratorio—una serie di stanze piene di attrezzature per il trattamento di sostanze chimiche. Quasi tutte le finestre erano aperte, ma il vento freddo non bastava per dissipare l’acre odore delle sostanze.

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D mi presentò il suo socio, di cui non capii il nome. Mentre D sembrava un tipo che a scuola veniva considerato figo, il suo socio era il tipico scienziato nerd, con i denti grandi e i modi imbarazzati. Aveva 30 anni e, come D, portava gli occhiali.

“Andavamo a scuola insieme, ma non nello stessa classe, a Shanghai”, spiegò D. “Anche a lui piaceva il business dei cannabinoidi. Così ci siamo messi in società.”

Il suo socio sembrava sospettare di me, ma non fece resistenza mentre D mi mostrava i locali, circa una dozzina di stanze. La maggior parte erano laboratori, pieni di alambicchi e macchinari che chiunque abbia frequentato chimica alle superiori sarebbe in grado di riconoscere: becher, tubi, imbuti, bilance e macchine industriali la cui funzione non mi fu immediatamente comprensibile. Al centro delle stanze campeggiavano neri tavoli da laboratorio, varie cappe aspiranti erano piazzate lungo i muri. Una macchina, alta circa due metri, veniva usata per asciugare i composti, mi spiegò D. C’erano cartelli in cinese e inglese che avvisavano di indossare sempre guanti e occhiali protettivi.

Questa struttura probabilmente non avrebbe passato gli esami di sicurezza americani. Gran parte dell’attrezzatura era arrugginita, e parte degli oggetti di vetro era sporca o avvolta in carta stagnola ingiallita sul punto di staccarsi. “Abbiamo comprato varie macchine vecchie da altri chimici, perché costavano meno,” si giustificò D. Ciò detto, la struttura non sembrava particolarmente pericolosa. C’era una certa professionalità.

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“Oggi sintetizzo di rado, ma cinque anni fa sintetizzavo,” mi raccontò D, parlando del lavoro di manifattura chimica. “Facevo io le reazioni. Ma quando sintetizzi c’è cattivo odore.” Il suo socio, insieme ai quattro chimici che facevano parte dello staff, faceva il grosso del lavoro in quel momento. Non vidi nessuno intento a usare l’attrezzatura, ma alcune delle macchine erano in funzione. Nella prima stanza c’era un composto viscoso, giallo, simile a un impasto, che veniva mescolato da un braccio meccanico in una enorme beuta tondeggiante. A occhio mi parvero circa tra i 10 e i 15 litri di sostanza. Al suo fianco ronzava una macchina identica che mescolava un’identica sostanza.

“Questo è ‘BUF’”, disse D. Intendeva il benzoylfentanyl, un analogo del fentanyl poco conosciuto che la compagnia vendeva a 2400 dollari al chilogrammo. Non era mai stato venduto come farmaco, e veniva sintetizzato da Chemsky soltanto per scopo ricreativo. “Quando questo processo sarà finito, ne avremo un chilo. Ci chiediamo se i cinesi lo metteranno fuori legge, quindi non ne teniamo molto da parte. Quando diventerà illegale, dovremo disfarci delle riserve.”

In quel momento il BUF era un composto da tabella 1 negli Stati Uniti, ma legale in Cina. Come altri analoghi del fentanyl (da tempo illegale in Cina), il BUF aveva effetti simili, ma la sua struttura chimica era abbastanza diversa da renderne legale la vendita da parte di aziende come la Chemsky. Era un gioco di gatto e topo tra il governo cinese e i chimici: il primo vietava un analogo del fentanyl dopo l’altro, e i secondi modificavano la formula quanto bastava per crearne un altro legale. Ma il gioco si è finalmente interrotto il primo maggio 2019, quando la Cina ha imposto un divieto generale su tutti gli analoghi del fentanyl, compresi quelli che non sono ancora stati inventati.

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Entrando nella stanza successiva, rimasi completamente scioccato. D si coprì naso e bocca con la giacca per evitare di respirare i fumi che esalavano dalle pile di polvere gialla posate su uno dei banchi a isola del laboratorio.

Avete presente la scena di Scarface, verso la fine, in cui Tony Montana, interpretato da Al Pacino, siede alla scrivania davanti a un mucchio enorme di cocaina? In confronto a quello che avevo davanti, quella è roba da bambini. Quello che c’era su questo tavolo avrebbe potuto drogare una nazione. Le pile di composto erano appoggiate su fogli d’alluminio, forse ad asciugare; altre montagnette erano per terra, e c’erano delle piccole botti piene di buste sigillate contenenti un chilo di sostanza ciascuna.

“5F-ADB,” disse D, identificando il composto giallognolo, un cannabinoide sintetico che vendevano a 1000 dollari al chilo. Questa droga andava molto forte nei Paesi Bassi, ci tenne a farmi sapere. Si presume che i compratori—o qualcun altro lungo la filiera—avrebbero sciolto questo composto in una soluzione da spruzzare su materiale vegetale essiccato per fumarla.

Nella stanza accanto mi mostrò l’attrezzatura usata per fabbricare il cannabinoide: enormi pentoloni di vetro sospesi nell’aria, ognuno contenente circa 75 litri. Mi indicò uno scatolone pieno di sacchetti di un composto diverso, bianco con un alone arancione. “Questo è 5F-MDMB-2201. È famoso in Russia. Piace ai clienti russi”. Non aveva funzionato granché più a ovest, tuttavia, e molti commentatori curiosi su Internet lamentavano mancanza di informazioni al riguardo. “È molto potente, attivo già da dosaggi inferiori al milligrammo”, ha scritto qualcuno su Drugs-Forum.com. “A quanto pare può essere molto intenso e a volte difficile e spaventoso per i novizi o anche per chi è più esperto di cannabinoidi”.

Quando la visita fu conclusa, ci sedemmo a un tavolo in una sala riunioni piccola e spoglia. Entrò un altro uomo con una borsa di plastica piena di bottiglie d’acqua e lattine di Nescafé, queste ultime, per la gioia di D, tiepide. L’uomo uscì e chiuse la porta. D, il suo socio e io aprimmo le lattine di caffè zuccherato e continuammo a parlare del più e del meno. Finalmente, D cominciò a parlare di affari.

“Troveremo delle sostanze, nuove o vecchie, che vadano bene per gli USA. Il lavoro sarà fatto da te e dal tuo collega,” disse, traducendo ogni frase per il suo socio. “Quantità?”

“Magari dieci chili per alcune cose, un chilo per altre”, risposi, improvvisando di nuovo.

Sembravano dubbiosi. In quel momento mi sovvenne che, con alcuni di questi composti, a una persona sarebbe bastato meno di un chicco di riso per ottenere l’effetto desiderato. “Dieci chili al mese significa molto lavoro,” disse D.

“Parlerò col mio socio,” dissi io, “e poi mi rimetterò in contatto.”

Questo sembrò bastargli. “Allora, ci sono domande? Se non hai domande, abbiamo finito.”

Uscimmo nel corridoio e aspettammo l’ascensore. Dopo alcuni minuti era ancora bloccato al piano -1, così prendemmo le scale. L’autista era pronto al volante della Chevrolet. Mentre ci riportava a Shanghai, sul sedile posteriore scrissi alcuni appunti sulla visita e me li mandai via email. Rientrammo nel dedalo di strade del centro, finché non mi lasciarono al Bund Hotel. Io alloggiavo all’ostello, ma a loro avevo detto di portarmi lì per sicurezza.

Prima di salutarci, D mi consigliò alcuni luoghi da visitare. Stava ancora piovendo, e lui insistette che prendessi il suo ombrello. Guardai la Chevrolet ripartire, feci un respiro profondo e mandai un messaggio a Jada per dirle che stavo bene. Tornato all’ostello, comprai un biglietto per il primo treno per Pechino. Le possibilità che D si accorgesse che ero un giornalista e mi venisse a cercare erano poche, probabilmente, ma non volevo correre rischi.

Presto smisi di contattarlo, e lui non mi sollecitò mai riguardo all’ordine di cui avevamo parlato. Erano passati mesi dal mio viaggio quando, il giorno del mio compleanno, mi mandò un messaggio su Skype: l’emoji di una torta.

Ben Westhoff è l’autore di Fentanyl, Inc.: How Rogue Chemists Are Creating the Deadliest Wave of the Opioid Epidemic.