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Roma

Perché la chiusura del San Calisto è una grandissima stronzata

Per lo storico bar di Trastevere si è parlato, tra le altre cose, di "ritrovo di persone pregiudicate o pericolose."
Il bar San Calisto. Foto di Federico Tribbioli.

Per tre giorni le serrande del San Calisto di Roma rimarranno abbassate, dopo che il 28 giugno lo storico bar e ritrovo di quartiere ha ricevuto un provvedimento di sospensione provvisoria della licenza.

Una misura solo temporanea, quindi, che però ha immediatamente scatenato polemiche di natura giuridica e soprattutto sociale, in una città che sembra sempre più avere un problema serio con il divertimento e con la cultura in spazi pubblici.

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Lo so, posto così sembra l’inizio di un melodramma, ma pensate un attimo a quanti locali e attività culturali e/o commerciali sono stati chiusi o sottoposti a provvedimenti della Questura negli ultimi anni a Roma (spoiler: tantissimi).

Il casus belli per la chiusura del San Calisto—a Roma tutti lo chiamiamo Callisto con due L, ma basta leggere l’insegna e il nome della piazza omonima per ravvedersi e continuare a pronunciarlo come si è sempre fatto—pare risalire alla notte del 3 giugno, quando nelle vicinanze del bar un furgoncino noleggiato via car-sharing e con un impianto di amplificazione a bordo ha dato il via a una festa non autorizzata protrattasi nelle ore notturne, scatenando l’ira del vicinato.

A propria difesa, il proprietario del bar ha escluso ogni responsabilità su quello che molti quotidiani hanno già definito “rave-party abusivo” (sic!), rapidi nel ripescare la tiritera sulla movida selvaggia e sulle notti brave di Trastevere—con tanto di titoli che dipingono il San Calisto come un luogo losco e dalle cattive frequentazioni. Al culmine del "rave", inoltre, il bar aveva già chiuso.

Ciò che desta più sorpresa in questa vicenda, però, è l’ennesimo ricorso della Questura all’art.100 del T.U.L.P.S. (Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza), che recita: “[…] il questore può sospendere la licenza di un esercizio nel quale siano avvenuti tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l'ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini.”

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Promulgato da Vittorio Emanuele III nel 1931, in pieno ventennio fascista, il Regio Decreto viene ancora applicato nel nostro ordinamento. Non che ci sia da stupirsi: anche i nostri codici civile e penale, opportunamente aggiornati nel corso dei decenni repubblicani, risalgono a quel periodo storico.

Se già di per sé fa ribrezzo leggere una norma che parla di “persone pregiudicate o pericolose” relative alla clientela di un esercizio commerciale o che rimanda ai concetti giuridici di buon costume e moralità pubblica, spaventa ancor di più il frequentissimo uso che se ne è fatto in questi anni a Roma, in barba alle interpretazioni giudiziali dei TAR.

Un altro esempio? Sempre ex art.100 del TULPS fu disposta la chiusura del compianto DalVerme al Pigneto, ma basterebbe farsi un giro tra i locali per scoprire quante volte sia stata sospesa la licenza con la scusa della presenza di “persone pregiudicate e pericolose” o del buon costume. Rido per non piangere all’idea del barista del San Calisto che rilascia lo scontrino solo dopo aver visionato la fedina penale di ogni cliente.

Se vi state chiedendo perché in queste ore si sia creato tanto clamore intorno alla chiusura del bar di Trastevere, probabilmente è perché non vi è mai capitato di passare per quella piazza e osservarne la fauna. Giovani, vecchi, artisti, pregiudicati (sì, ci stanno), forze dell’ordine, turisti, residenti, fuorisede, la Love Gang. In pratica, tutta Roma.

Forse è esagerato dire che il San Calisto e Trastevere sono sinonimi, ma di certo del quartiere rappresenta uno degli ultimi baluardi di personalità, prezzi bassi ed eterogeneità, come testimoniano persino i cimeli romanisti e laziali quasi democristianamente posti sulle pareti del bar. Addirittura Sorrentino nella Grande Bellezza ha usato il bar come set, rendendo oniriche a suo modo le casse di Peroni e la porta del bagno.

Tra nuovi ristoranti tutti uguali e il pub-crawl dei turisti, San Calisto è un pezzo di storia che non ha mai guardato in faccia a nessuno, accogliendo tutti senza giudicare.

Al di là del provvedimento in sé e per sé, quindi, ciò che fa paura oggi è perdere l’ennesimo spazio di socialità onnicomprensiva in un quartiere sempre più ridotto ad acquario per turisti, e in una Capitale sempre più indolente e rassegnata a un destino grigio.

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