Interviste a un volontario dell'ESL e un medico di Aleppo

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A8N10: Il numero sulla Siria

Interviste a un volontario dell'ESL e un medico di Aleppo

Ultima parte del nostro reportage esclusivo dalla Siria, a firma del giornalista di guerra Robert King.

VICE ha contattato il fotoreporter e documentarista Robert King nel tentativo di comprendere fino in fondo la situazione siriana. Robert è un uomo dal cuore d’oro, con fegato da vendere e palle di lonsdaleite (un minerale rarissimo, con una durezza del 58 percento superiore al diamante). Da ormai più di 20 anni documenta le polveriere del mondo all’apice delle loro ondate di violenza, posti come l’Iraq, l’Albania, l’Afghanistan, il Kosovo e molti altri.

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Intervista ad Ahmed al-Hajji, coordinatore del media center dell’ESL ad Aleppo

26 settembre 2012: un ferito della brigata Tawhid di Aleppo

VICE: Che ruolo hai nella rivoluzione?
Ahmed al-Hajji: Sono il responsabile del media center. Filmiamo quello che accade: bombardamenti, caccia, e a volte le battaglie.

Cosa facevi prima della guerra?
Prima della guerra studiavo ingegneria meccanica. Ora sono ufficialmente ingegnere meccanico.

Quando è iniziata la rivoluzione, speravi che l’America e l’Europa vi avrebbero aiutati a rovesciare il regime di Assad?
Ci speravo. All’inizio della rivoluzione ci speravo, e pensavo che l’America e l’Europa ci avrebbero sostenuti e aiutati. Ma dopo un paio di mesi, mi sono accorto che è impossibile per qualsiasi altro Paese aiutarci.

Ci sono altri gruppi che vi aiutano?
Cosa intendi?

Ci sono gruppi islamici che vi aiutano a combattere per la rivoluzione?
Ci sono alcuni siriani che ci aiutano. Vivono fuori dal Paese. Ci aiutano fornendoci equipaggiamenti. Ci guidano. Ci danno alcune informazioni importanti.

Hilary Clinton, Segretario di Stato americano, e Barack Obama hanno detto di avere intenzione di dare all’ESL e allo staff del media center degli strumenti per aiutarli nella comunicazione. Hanno mantenuto le promesse fatte al popolo siriano?
Per ora no. Ma davvero, non stiamo aspettando che ci diano qualcosa. Sarebbe un grande aiuto. Ma sappiamo che non lo faranno.

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Quando la rivoluzione era appena iniziata, c’era chi sventolava le bandiere americane, sperando in un aiuto statunitense per la liberazione dei siriani oppressi?
No. All’inizio pensavano che l’America ci avrebbe dato una mano, lo stesso pensavamo per l’Europa—non perché portassimo alte le loro bandiere, ma perché pensavamo che avessero fede nella democrazia e nella salvaguardia dei diritti umani. Ora sappiamo che non gliene importa nulla. Pensano soltanto “Cosa me ne viene in tasca?”

Perché pensi che gli americani e il resto del mondo occidentale non abbiano offerto aiuto logistico o militare?
Perché la Siria è un Paese strategicamente importante, siamo al confine con Israele, l’Iraq, il Libano e la Turchia. È un posto molto importante, nella configurazione mondiale. Non ci vogliono forti. Non vogliono che l’ESL sia forte. Non vogliono che abbiamo armi pesanti o anche medie.

2 ottobre 2012: il corpo di un militante dell’ESL rimasto ucciso in uno scontro con l’esercito regolare viene trasportato a un ospedale di Aleppo.

Cos’è per te la libertà?
Gran bella domanda. La libertà non è solo proclamare “Vogliamo la libertà, vogliamo la libertà.” È un sacco di altre cose. La libertà significa la possibilità di essere umani. Quando non sei libero sei un animale. Sei uno schiavo. E com’è la vita da schiavo? Difficile da vivere.

Pensi che sotto il regime di Assad foste tutti schiavi?
No. Perché mia madre e mio padre mi hanno insegnato cos’è la libertà. Sono giovane, non sono vecchio. Quindi non ho vissuto l’esperienza dell’oppressione di questa società lungo il corso di tutta la vita. Ho vissuto prima la libertà. Ma se stai parlando della maggioranza delle persone, sì, erano schiavi, perché andavano al lavoro di mattina e ne uscivano di sera. Non avevano tempo per fare nulla. Non potevano dire nulla. Facevano quello che dovevano fare e nemmeno sapevano il perché. Non avevano nemmeno il tempo di pensare.

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Com’era vivere sotto il regime di Assad?
Come stare in Iran. C’è tutto, ma non è per te. Intorno a te c’è qualsiasi cosa tu possa desiderare, ma non per te.

E per chi, allora?
Per la famiglia di Assad. Per la sua cerchia, la sua mafia.

Esci al mattino, filmi cadaveri, e poi li carichi su internet—il tuo lavoro è questo. Perché metti a repentaglio la tua vita per documentare tutto questo?
Lo faccio perché penso che non è così che dovrebbe essere vissuta la vita. Se vengo privato della mia libertà, meglio la morte. E i nostri figli meritano che noi diamo le nostre vite per questa terra, per la libertà. C’è un prezzo da pagare per la libertà. È un prezzo molto salato, ma dobbiamo pagarlo.

Prima della nostra intervista mi hai detto che sei stato dato per morto due volte. Puoi parlarmi di questo fatto?
Non so spiegarlo nemmeno a me stesso. Cinque giorni fa eravamo in un bruttissimo frangente, circondati da ogni lato dalle forze di Assad. Mi hanno dato per morto perché non c’era modo di uscire dall’assedio. E ci eravamo fermati. Ma grazie a Dio, siamo sopravvissuti. Quindi, quando sono tornato, tutti erano sorpresi. Pensavano fossi morto. Era stato pubblicato che ero morto.

Ci sono militanti stranieri che combattono con voi in Siria?
Sì.

Che gruppi, che tu sappia?
C’è qualche gruppo qui ad Aleppo. Fuori da Aleppo, non saprei dire. Ma ad Aleppo li abbiamo visti noi e li hanno visti tutti. Non sono tanti—100 o 200 al massimo. Li ringraziamo. Li ringraziamo perché sono venuti ad aiutare il popolo siriano. Li ringraziamo perché stanno dando le loro vite per la nostra libertà. Per noi è una cosa molto significativa.

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Pensi che al-Qaeda si sia infiltrata in Siria?
Ufficialmente? No. C’è un gruppetto che ha le stesse idee di al-Qaeda ma non è ufficialmente affiliata. Torniamo un attimo alla domanda sul perché l’America e l’Europa non vogliono aiutarci. Perché? È questo che vogliono. Vogliono che al-Qaeda arrivi qui. E quando ci arriverà, vogliono che qui tutti i suoi membri vengano uccisi.

A una protesta cui ho assistito venerdì c’erano un sacco di bandiere islamiche, del tipo qaedista. È una cosa nuova? E se lo è, cosa pensi che stia succedendo?
Due cose: Aleppo è diversa da molte altre città siriane. È piena di persone religiose. Ed è famosa per questo motivo. Gli abitanti indossano l’hijab e vanno alla moschea. Non è come Homs, non è come Damasco. La seconda cosa è che quando la vita si fa difficile, quando gli assassinii si avvicendano e il nemico miete sempre più vittime—ragazzini, ragazze, donne—ogni persona al mondo si rivolgerebbe al proprio Dio. Musulmani, cristiani, ebrei, induisti, buddisti. Molti intellettuali dicono che la religione è creata solo per essere di conforto nelle situazioni difficili. Perché nel pericolo l’uomo ha bisogno di sentire qualcosa di più potente sopra di lui, qualcuno che possa invocare perché lo aiuti. In ogni momento di crisi, qualsiasi gruppo di persone sarà più religioso. Anche in America, se Obama cominciasse a bombardare la sua gente, gli americani invocherebbero il loro Dio. Conosco un sacco di americani che non credono in Dio, non credono in nessun dio. Ma in un frangente simile, tornerebbero da Dio e andrebbero in chiesa e metterebbero la Bibbia in ogni angolo. Un simile atteggiamento li farebbe sentire come se passassero dalle tenebre al paradiso, darebbe loro quel barlume di speranza di cui tutti hanno bisogno in una simile situazione.

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Ti piace lavorare con il mondo mediatico estero?
Mi piace perché voglio che la gente di tutto il mondo veda cosa sta succedendo qui. Combatteremo, non è solo l’ESL che combatte le forze di Assad. Noi dei media center dobbiamo combattere la propaganda dei canali di Assad. I suoi media non si rivolgono al popolo siriano, perché Assad sa che loro sanno che lui mente. Quindi anche noi dobbiamo lavorare con i giornalisti stranieri, portarli nei luoghi dei bombardamenti e nei luoghi dove sono ammassati i cadaveri, e nelle lande devastate. Per esempio, oggi ho portato te alla Città Vecchia, a vedere l’incendio; le forze di Assad hanno dato fuoco al nostro centro storico.

30 settembre 2012: civili, bambini e combattenti dell’ESL feriti ricevono soccorso in un ospedale di Aleppo.

Intervista al dottor Osman, medico in un ospedale di Aleppo.

VICE: Da quanto tempo fai il medico? 
Dottor Osman: Dal 2005.

Il vostro ospedale è stato colpito numerose volte dalle forze di Assad, vero?
Sì, è stato colpito cinque volte e più di 15 volte sono cadute bombe intorno all’ospedale.

Consideri tali azioni crimini di guerra?
Ovviamente sono crimini di guerra, ma il regime siriano considera gli staff medici e i medici stessi bersagli militari.

Secondo te per quale motivo?
Perché uccidere un solo dottore è molto più “utile” che uccidere 1000 combattenti.

La tua vita è in pericolo?
Certo, da molto tempo, ma mi preoccupo per la mia famiglia e mia madre e mio padre, perché il regime mi catturerà e questo creerà problemi a tutti quelli che conosco qui.

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Ma accetti questo rischio. Perché?
Non sono un uomo che viene meno al proprio dovere: questo è il mio dovere, questa è la mia vita, questo è il messaggio che devo portare. I medici salvano le vite.

Hai pronunciato il Giuramento di Ippocrate quando hai finito gli studi, giurando che avresti salvato vite umane e non avresti fatto male a nessuno finché il tuo mandato fosse durato?
Certo, come fanno tutti i medici.

Assad ha studiato medicina, anche lui deve aver giurato.
Assad è un dottore sulla carta, ma nel sangue è un dittatore.

Quindi dici che non fa onore al suo giuramento?
No, e ha fatto uccidere molti medici. Tre miei amici sono stati catturati dai servizi segreti. Hanno catturato e ucciso degli studenti di medicina e un loro amico.

I medici sono considerati eroi in questa rivoluzione. Ti consideri un eroe?
No, sono una persona normale. Faccio il mio dovere, nient’altro. Lavoriamo dall’inizio delle proteste e della rivoluzione. Sono stato arrestato due volte; sono rimasto in prigione per cinque mesi. Molte persone sono state arrestate e hanno avuto brutti problemi.

Perché sei stato arrestato?
Sono stato arrestato perché ho curato una persona che ne aveva bisogno, essendo rimasta ferita in una protesta.

Quanto a lungo tenete i degenti in ospedale?
Non è una zona sicura—gli ospedali non sono sicuri. Non possiamo tenere a lungo i pazienti qui, quindi se hanno bisogno di cure più prolungate li mandiamo in un luogo meno a rischio.

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Il vostro ospedale è carente di tutto il necessario?
Ce la caviamo, ma non abbastanza. Abbiamo un po’ di strumenti e un po’ di scorte. Il problema critico è il materiale chirurgico. Molti pazienti sono morti perché non sempre ci sono abbastanza strumenti specifici, né anestesie.

In media, quanti pazienti seguite?
Tra i 100 e i 150 alla settimana. La maggior parte civili. Alcuni sono dell’ESL.

Vi arrivano aiuti dai Paesi occidentali?
Sì, all’ospedale abbiamo medici inglesi, e molti altri ci sostengono. Ma il maggior sostegno ci viene dai fratelli egiziani.

È dura per te dormire di notte?
Ogni notte faccio incubi in cui ci sono bambini con arti amputati e ogni giorno penso di andarmene dalla Siria e iniziare una vita normale altrove. Ma se me ne vado io, chi si prenderà cura dei pazienti? Spero che la guerra finisca presto e che il problema si risolva, e spero di non fare più brutti sogni.

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