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I miei giorni in un'ex organizzazione terroristica

Per anni, sia in Europa che in America, i Mojahedin del Popolo Iraniano sono stati considerati un'organizzazione terroristica. Abbiamo parlato con un ex membro della sua esperienza e del "fascino" dell'estremismo.

Una cerimonia del MEK al Camp Ashraf in Iraq. La foto è stata scattata nel 2002 da un ex membro dell'organizzazione.

Nel 1979, Masoud Banisadr era uno studente di matematica alla Newcastle University che assisteva agli sconvolgimenti politici del suo paese, l’Iran, tramite il telegiornale della sera. Dopo la caduta dello Scià, desideroso di avere un ruolo nella nuova società, si unì ai Mujahedin-e-Khalq (MEK, Mojahedin del Popolo Iraniano), un’organizzazione marxista islamista rivoluzionaria.

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Qualche anno dopo la rivoluzione, però, il MEK iniziò a scontrarsi con il regime teocratico dell’ayatollah Khomeini e fu subito additato come nemico del nuovo Iran. Seguirono attentati suicidi e assassinii. Nel 1981 migliaia di membri del MEK lasciarono il paese, e nel 1986 diedero vita a un'organizzazione paramilitare con sede in Iraq, guidata da Massoud e Maryam Rajavi, marito e moglie.

Banisadr divenne il responsabile delle relazioni del MEK, e iniziò a spostarsi tra il Camp Ashraf—un campo profughi iracheno che ospitava esuli iraniani, per lo più membri e sostenitori dell'organizzazione—Ginevra e Washington nel tentativo di stabilire contatti coi politici occidentali. Nel 1996 Banisadr ha lasciato il gruppo, si è nascosto, e ora è tornato a vivere in Inghilterra.

Gli Stati Uniti hanno rimosso il MEK dalla lista di organizzazioni terroristiche nel 2012, ma secondo Banisadr quella sotto la leadership dei Rajavi rimane una setta di fanatici. Nella sua visione delle cose, ogni organizzazione terroristica è una setta, e quando non lo è, per sopravvivere, "non ha altra opzione che diventarlo.”

Ho parlato con Banisadr del potere delle sette e del "fascino" che Stato Islamico e altri gruppi estremisti esercitano su alcuni.

Masoud Banisadr

VICE: È stato uno dei membri di punta del MEK. Perché ora lo considera una setta?
Masoud Banisadr: C’era un leader carismatico, Rajavi. C’era un visione del mondo in cui era tutto o bianco o nero. I seguaci si allontanavano dalla famiglia. Perdevano la loro personalità. C'era una manipolazione della mente. A Camp Ashraf, in Iraq, le discussioni proseguivano per giorni interi. Mi ricordo che facevamo un esercizio in cui dovevamo descrivere la nostra vecchia personalità in una colonna della lavagna e la nuova personalità in un’altra colonna. Una volta uno dei partecipanti disse: “Mio fratello lavora all’ambasciata iraniana di Londra. Prima lo amavo come si ama un fratello, adesso lo odio come un nemico. Sono pronto a ucciderlo, se necessario.” E tutti si misero ad applaudire.

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Come giustificava la violenza?
Fortunatamente non sono mai stato coinvolto in atti di violenza. Ma nel gruppo tutti concepivano gli attentati e gli omicidi come atti rivoluzionari. È questo il lavaggio del cervello. Più tardi, quando ero rappresentante ufficiale, spiegavo e giustificavo questi atti come l’unico modo che avevamo per difenderci. Ero una brava persona, sapevo come ci si comporta in società, ero in grado di discutere con i politici in modo molto razionale. Ero un buon venditore.

Massoud Rajavi con la moglie Maryam

Perché i membri del MEK divorziavano dalle mogli?
Fu un ordine di Rajavi. Era il 1990, e all'epoca mia moglie aveva già lasciato il gruppo. I membri accettarono queste condizioni: la regola valeva per tutti, tranne per il leader e sua moglie Maryam. Qualcuno chiese, “E il sesso nell’aldilà?” e Rajavi risposte, “Ah, so dove vuoi arrivare… vuoi fantasticare sull’aldilà. E invece no, dovete essere pronti a dimenticarvi del sesso, delle mogli, dell’amore."

Niente sesso?
Nessun pensiero sessuale. Eravamo in guerra per riprenderci l’Iran, quindi non potevamo avere una famiglia, non fino a che la guerra non fosse stata vinta. Questa era la scusa ufficiale, ma in realtà a noi veniva continuamente detto che le mogli erano un ostacolo alla leadership. Ci ordinavano di offrire la nostra anima, il nostro cuore e la nostra mente a Rajavi e a sua moglie.

Masoud insieme a diversi leader sindacali all'International Labour Conference di Ginevra, 1987 (tratto da una pubblicazione del MEK).

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Come è riuscito a uscire dall’organizzazione?
Quello che mi ha salvato è stato vedere mia figlia. Nel 1996 ero a Londa per organizzare alcuni incontri, e dopo anni rividi mia figlia. Mi ero completamente dimenticato di chi fosse suo padre, il Masoud di prima. Ormai conoscevo solo il Masoud membro del MEK. Il vecchio Masoud voleva abbracciarla, ma il membro del MEK—che viveva secondo regole molto rigide, in cui uomini e donne non interagivano mai—sapeva di non poterlo fare. Per fortuna fui colpito da un terribile mal di schiena, così ebbi la possibilità di andare in ospedale a riprendermi. E in quelle due settimane, circondato da persone ordinarie, lasciai riaffiorare i sentimenti che nutrivo per la mia famiglia. Così, alla fine, decisi di andarmene dal gruppo.

Come ha fatto?
Per un po' feci perdere le mie tracce. Rimasi nascosto in Gran Bretagna finché non smisero di cercarmi.

Una cerimonia del MEK al Camp Ashraf in Iraq, 2002 circa. 

Secondo lei, perché certi giovani subiscono il fascino delle cause estremiste?
Il terrorismo è come un virus. Ci attacca grazie alle nostre debolezze. Uccide la nostra personalità, la nostra individualità. Penso che ci siano tre stadi. Il primo è l’ingiustizia del mondo. I giovani musulmani vedono le ingiustizie, si indignano e vogliono reagire. Poi subentra una forte ideologia, e il wahhabismo offre una semplice visione bianco-o-nero e un’interpretazione molto chiusa del jihad, che si presenta come una soluzione. Ma queste due fasi insieme non bastano a formare un terrorista, una bomba umana o un combattente del califfato. È richiesto un terzo stadio: la manipolazione della mente, che ti priva della personalità, ti fa identificare completamente con il gruppo e ti separa dai genitori, dalla società.

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Quindi le idee radicali non bastano da sole per andare a combattere per, diciamo, lo Stato Islamico?
Se sei un giovane musulmano e credi di non valere nulla, sentirti dire che si può tornare al tempo del Profeta Maometto, che saremo di nuovo forti e orgogliosi di noi stessi ti incuriosisce. Questo può farti diventare radicale, addirittura violento. Ma non diventerai un combattente, né un martire, se non tagli i ponti con la tua famiglia e con i valori della società in cui sei cresciuto. Per questo c’è bisogno della manipolazione propria delle sette distruttive.

Combattenti dello Stato Islamico in Siria.

Secondo lei dove si colloca lo Stato Islamico in questo senso? Lo considera una setta?
I segni ci sono. Il leader, Abu Bakr Al-Baghdadi, appare carismatico e ha ambizioni illimitate. L'hanno presentato come il Califfo, il capo, la guida dei musulmani. I leader normali vogliono potere politico. I leader delle sette non vogliono solo governare città o nazioni, vogliono governare la storia. Vogliono cambiare la struttura dell’umanità.

Per un po’ si sono chiamati Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Volevano il controllo di [Iraq], Siria, Iraq, Libano, Giordania, Israele. Ora si chiamano Stato Islamico. Vogliono tutto quello che un tempo secondo loro faceva parte dell’impero islamico, e oltre. Non è normale leadership, è sempre più simile a una setta. Politicamente, non c’è limitazione.

Cosa direbbe ai genitori che hanno figli che combattono in Iraq e in Siria? 
È molto difficile, molto delicato. Se un genitore dice qualcosa di critico su un predicatore radicale o su un’organizzazione come lo Stato Islamico, scatta subito un meccanismo di difesa. È difficile discutere razionalmente. Per cui, se i genitori sono in contatto col figlio, meglio evitare di discutere di politica e religione. Dovrebbero mostrare solo gentilezza e amore. È questa la debolezza dei membri. I sentimenti non muoiono, anche se la personalità cambia. I genitori devono far sapere ai figli che ci saranno sempre, che li aspetteranno. Ci deve essere una strada per tornare alla vita e all’affetto della famiglia. Qualcosa di non ideologico. L’amore incondizionato è più forte della manipolazione della mente che è stata messa in atto.

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