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In più di dieci anni, non ho ancora imparato a convivere con l'epilessia

Sono epilettica. Solo dieci anni fa, ammetterlo mi avrebbe creato un certo imbarazzo. Immagino pensassi che a un certo punto, crescendo, sarebbe andata via—un po' come succede effettivamente ad alcuni.

Sono epilettica. Solo dieci anni fa, ammetterlo mi avrebbe creato un certo imbarazzo. Immagino pensassi che a un certo punto, crescendo, sarebbe andata via—un po' come succede effettivamente ad alcuni. Ora invece la vedo come un argomento di conversazione al pari di un altro. Di solito lo scambio comincia con un mio "Non guido" detto casualmente. "Perché?" mi chiederà il mio interlocutore, "non ti piace?" "No," rispondo. "Sono epilettica." A quel punto divento improvvisamente un po' più interessante. "Quanto spesso ti…

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succede

?"

Quello che intendono con "succede" è l'attacco epilettico. Perché per tutti è quella, l'epilessia. Io preferisco parlare di crisi, perché mi sembra meno medievale. Rispondo di non avere crisi così frequenti, e che quelle si possono comunque tenere sotto controllo coi medicinali. Di solito, sapere che alla ragazza che hanno appena conosciuto non succederà proprio lì sul pavimento li rassicura.

Ma l'epilessia non si manifesta soltanto attraverso le crisi. C'è anche la cosiddetta crisi parziale complessa, ovvero ciò che accade quando sembri cosciente ma non hai la minima contezza di cosa stai facendo. Una volta, al Museo di Arte Moderna di Dublino, mi sono messa a sedere a terra, mi sono tolta le scarpe e ho svuotato il contenuto della mia borsa. In quello stesso momento il mio ragazzo dell'epoca stava riprendendo la mostra e ha registrato quella strana scenetta.

Una scenetta della quale non ricordo assolutamente nulla.

A volte succedono cose ancora più strane. Qualche mese fa ho lavorato come insegnante dell'ESL, ed era il mio primo incarico a casa, nel Regno Unito, dopo un periodo in Spagna e un altro in Vietnam. Un giorno, davanti alla mia classe di ventenni, mi sono tolta le scarpe e ho sbottonato i primi due bottoni della camicia. Fortunatamente sotto avevo una canottiera. A lezione finita sono andata in sala insegnanti dicendo di aver perso le scarpe, e un collega mi ha dovuto riaccompagnare in classe. Le scarpe erano lì.

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Svuotare la borsa, togliersi le scarpe, sbottonare una camicia—sono attività che compiamo quotidianamente senza nemmeno pensarci, ma nella maggior parte dei casi le compiamo nel momento e nel luogo adatto. Quest'abilità di svolgere compiti normalissimi senza essere pienamente coscienti può essere affascinante. Ma quando ti riguarda direttamente, è anche preoccupante.

Di recente le crisi parziali complesse—o "assenze," come le chiamo io—sono aumentate in corrispondenza di un periodo non esattamente felice. Non ho più un lavoro—l'insegnamento non mi soddisfaceva, e stava diventando sempre più evidente. È un sollievo non essere più dietro una cattedra. Ma ora sono anche senza soldi e passo troppo tempo a casa, da sola.

Qualche giorno fa mia sorella è venuta a trovarmi. A quanto pare, di punto in bianco mi sono fatta travolgere dal panico. Continuavo a chiedere dove fossero finiti tutti. Mia sorella ha cercato di calmarmi spiegandomi che c'eravamo solo io e lei. Ma io ero inamovibile; ho cominciato a contare i cappotti appesi in ingresso. "Questo è mio, questo anche," dicevo senza rivolgermi a nessuno.

Tentando di rassicurarmi, mia sorella mi ha indicato uno schizzo che avevo fatto al corso di disegno poche ore prima. "È tuo?" mi ha chiesto. "Mai visto prima." Ogni volta che mi racconta cosa è successo quella sera, non riesce a capire come possa non preoccuparmi di diventare pazza. Fare la conta dei cappotti e immaginare altre persone in casa potrebbe essere interpretato come follia; al tempo stesso, però, potrebbe essere un sintomo estremamente razionale di un cervello talmente intasato da non lasciare spazio a pensieri come, "Oggi mi sento sola."

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Ai più piace sentire di avere il controllo delle proprie azioni. La consapevolezza della mia capacità di non avere il controllo si è tradotta in conseguenze negative sulle mie relazioni e la mia carriera, impedendomi di avere fiducia in me stessa e negli altri.

Soffro di epilessia mioclonica giovanile, e questo significa che non ho avuto crisi generalizzate—quelle in cui l'energia elettrica passa attraverso il cervello e causa le convulsioni—fino ai 16 anni. Prima di allora avevo avuto un solo episodio di "assenza." Poi sono andata al college convinta di essere fuori pericolo, e poco prima del secondo anno, mentre cercavo casa in un'impresa dell'ultimo minuto, ho avuto due crisi nel corso di un solo fine settimana. È successo davanti ai miei nuovi amici del college, che all'epoca conoscevo a malapena. Ero imbarazzatissima, perché pensavo che chiunque da allora mi avrebbe presa per pazza.

Ho iniziato a fumare erba, di fatto peggiorando le mie paranoie. Ho iniziato a prendere anche un farmaco epilettico, il Tegretol Retard, adatto a persone con crisi quotidiane. Mi faceva sentire sedata. Ora prendo il Levetiracetam, pensato esplicitamente per il mio tipo di epilessia. Non ho crisi vere e proprie da un anno. Non dovrei bere né fare uso di droga, ma a volte, consapevole dei rischi, cedo alla tentazione.

Non ho ancora imparato a convivere con la mia epilessia. Ancora oggi la mia penna indugia sulla casella "Disabile" dei questionari. In parte è così perché è una disabilità nascosta. Ma in fondo, di che disabilità parliamo? L'epilessia sembra occupare quel terreno comune tra un handicap fisico e mentale.

La salute mentale e l'epilessia sono collegate—può trasmettermi sensazioni estremamente acute di paura o panico. Una volta ero in autobus, diretta verso il lavoro che avevo iniziato un mese prima, quando mi è presa una paura enorme. Ho chiamato mia sorella e le ho chiesto, "Sai perché sono su un autobus per Northenden?" Io non me lo ricordavo. Il panico si faceva sempre più pressante. "Lavori in zona," mi ha risposto. "Perché non scendi e ti siedi un attimo?"

Soffrire di un qualcosa che mi fa fare cose insensate e inappropriate crea una certa distanza tra me e la cosiddetta "gente normale." Ma più passa il tempo meno mi importa dell'opinione altrui. L'epilessia non se ne andrà prima o poi. Accettare questo fatto e vederlo come una parte di me mi fa sentire meno in difficoltà. Mi ci è voluto moltissimo per considerarla, in termini estremamente diretti e pratici, come qualcosa che mi succede ma che non mi definisce.

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