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Cosa dice veramente la sentenza su Totò Riina che ha fatto incazzare tutti quanti

Tre le varie cose, ad esempio, la Corte di Cassazione non dice che il boss di Cosa Nostra deve essere scarcerato.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Se vi è capitato di leggere anche solo di sfuggita uno dei 412.124 titoli usciti sul caso, probabilmente avrete saputo che Totò Riina—che dal 1993 sta scontando decine di ergastoli al 41-bis—sarà scarcerato a breve e morirà circondato dall'affetto dei suoi cari.

A deciderlo è stata la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 27766 pubblicata il 5 giugno 2017, perché il "capo dei capi" di Cosa Nostra ha comunque "il diritto di morire dignitosamente". L'86enne Riina, recluso nel carcere di Parma, è da tempo malato. Per usare le parole della Cassazione, si tratta di "un soggetto ultraottantenne, affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa, […] non autonomo nell'assumere una posizione seduta, esposto, in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili". Tradotto: Riina potrebbe morire per cause naturali da un momento all'altro.

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La decisione giurisprudenziale ha scatenato un putiferio che procede ininterrotto da parecchie ore. Alcuni commenti paragonano il "caso Riina" a quello di Piergiorgio Welby o Elauna Englaro, che a differenza del boss non hanno avuto la stesso diritto; altri parlano di una specie di "resa" dello Stato; quelli più immaginifici tirano in ballo l'infinita trattativa Stato-Mafia.

Quello che si sono invece chiesti un po' tutti è: cosa diavolo è saltato in testa ai giudici della Cassazione? Perché si è deciso di mettere fuori uno stragista che è la personificazione del male e—ancora oggi—è in grado di "comandare con gli occhi"?

In realtà, come hanno rilevato alcune testate, il problema di questa immensa polemica è un altro. E cioè: le effettive motivazioni della Suprema Corte c'entrano poco con la slavina di commenti indignati che si è riversata sulle nostre bacheche.

Provo a fare un po' di ordine e partire dall'iter giudiziario. Il 20 maggio del 2016 il tribunale di sorveglianza di Bologna emette un'ordinanza con cui esclude sia il differimento della pena che gli arresti domiciliari per Riina, che i suoi avvocati avevano chiesto a fronte delle sue gravi condizioni di salute. Quest'ultime, secondo i giudici, non erano incompatibili con il carcere duro. In più, la richiesta andava rigettata anche per la "notevole pericolosità" di Riina e per "esigenze di sicurezza e incolumità pubblica."

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I legali del boss presentano così un ulteriore ricorso alla Corte di Cassazione, che—in qualità di giudice di legittimità—deve valutare se il provvedimento del tribunale di Bologna è corretto da un punto di vista formale. Dopo aver analizzato le motivazioni, la Cassazione le ritiene "carenti" e "contraddittorie" in alcuni punti.

Il primo è che l'ordinanza afferma la compatibilità della detenzione con lo stato di salute di Riina, ma allo stesso tempo "evidenzia espressamente le deficienze strutturali della Casa di reclusione di Parma." In particolare, la cella è troppo piccola per far entrare un "letto rialzabile" di cui ha bisogno il boss. Per i giudici di Cassazione non è una circostanza di poco conto, poiché è necessario "verificare, in concreto, se e quanto la mancanza" di quel letto "incida sul superamento o meno di quel livello di dignità dell'esistenza che anche in carcere deve essere assicurato."

Come scrive l'avvocato Fulvio Orlando, il ragionamento della Cassazione è il seguente: per far restare in carcere un detenuto malato bisogna avere "la certezza che possa essere curato anche lì, nello stesso modo e con le stesse attenzioni di qualsiasi altro malato." E non è "una questione di umanità o di pietas, ma di legalità della pena: se impedisci ad un detenuto di curarsi, la pena detentiva si trasforma in pena corporale (che è vietata) se non addittura in pena di morte (che il nostro ordinamento non contempla)."

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Il secondo punto contraddittorio rilevato nell'ordinanza, invece, ha a che fare con la pericolosità di Riina. La Cassazione, ovviamente, non la mette in dubbio; anzi, com'è ovvio riconosce in maniera cristallina "l'altissima pericolosità del detenuto" e il suo "indiscusso spessore criminale."

Quello che il tribunale di sorveglianza non ha chiarito—nell'ordinanza di cui si parla—è "come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale decadimento fisico dello stesso." Servono, dunque, "precisi argomenti di fatto rapportati all'attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad interagire il pericolo di recidivanza."

Ad un tribunale non basta dire che Riina è pericoloso perché, be', è Totò Riina. Quello, al massimo, lo si può fare nei commenti su Facebook.

Per i motivi appena esposti, la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio l'ordinanza impugnata. Il che non vuol dire che Riina uscirà domani dal carcere reggendo dei sacchi neri con i suoi vestiti. Significa che il tribunale di sorveglianza di Bologna dovrà verificare di nuovo la compatibilità del boss con il carcere, e dovrà motivarlo adeguatamente, seguendo i criteri indicati dalla Cassazione.

A tal proposito, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti ha dichiarato di non essere preoccupato dalla decisione, e che "basterà ovviare a queste carenze. […] Sono tranquillo, fiducioso che alla fine il Tribunale di Bologna ribadirà le nostre ragioni."

Per finire, dice sempre l'avvocato Orlando, la sentenza della Cassazione "non ha perorato la causa di Riina, ma la causa della giustizia, ed in particolare il principio secondo cui i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati."

È davvero tutto qui.

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