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Politică

Come l'ossessione per il 'decoro urbano' è diventata una crociata contro il kebab in Italia

Da qualche anno quella dei Comuni contro il kebab è diventata una battaglia politica 'contro il degrado' che impatta nelle vite degli imprenditori stranieri.
Foto di Zákupák/Wikimedia Commons

"Gentilissimo signor sindaco, (…) credo sia opportuno fin da subito aprire una riflessione su quanto sta accadendo nella nostra città."

A Pisa è il 22 marzo, quando il consigliere comunale di Forza Italia Giovanni Garzella scrive al sindaco Filippeschi (Partito Democratico) per chiedere che venga impedita l'apertura di nuovi kebab in città.

"Ricordo ancora quando ero ragazzo - continua - e il massimo dell'aspirazione era la schiacciatina con la cecina e il quarto di pizza, cibi cotti al momento e sicuramente meno grassi di altri. (…) Non sono contro le alternative, ma quando queste diventano prevaricanti e soprattutto mettono in crisi le tradizioni allora dobbiamo ricorrere ai ripari."

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Uno di questi "ripari" dovrebbe essere - stando al consigliere - lo stralcio al Piano del Commercio cittadino, da "correggere" per porre un freno al "proliferare" di questi esercizi, che starebbero "soffocando quel poco che resta" delle più caratteristiche botteghe di quartiere — si stima che nell'area del centro storico pisano, i ristoranti a base di kebab siano almeno una sessantina.

"In questi ultimi tempi alcuni comuni italiani stanno tentando di arginare il problema o comunque di governarlo," conclude il consigliere di FI. "Qui a Pisa tutto tace."

Effettivamente, negli ultimi anni, il numero di comuni e di politici locali che si sono attivati per contrastare quella che considerano una 'espansione incontrollabile' è cresciuto incredibilmente.

L'ultimo, prima di Pisa, è stato il comune di Verona, dove il sindaco ex-leghista Flavio Tosi, a fine febbraio, ha presentato una delibera per vietare l'apertura di nuove attività artigianali "per la produzione e la vendita di cibi etnici" che possono "incidere sul decoro della città."

"Di fatto," spiegava l'assessore alle attività economiche Marco Ambrosini, nel centro storico cittadino "non sarà più possibile aprire attività d'asporto di cibi etnici, riferibili alla cultura orientale e medio orientale."

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I kebab, da qualche anno, stanno conquistando il mercato italiano della ristorazione da strada.

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Non è facile capire con precisione quale sia il giro d'affari, visto che il settore appare "frammentato in una miriade di aziende personali" — come spiegava a Wired Naser Ghazal, imprenditore palestinese che ha fondato uno dei primi franchising del kebab in Italia.

Si sa per certo, però, che i ritorni economici, a livello mondiale, sarebbero superiori al miliardo di euro, e che secondo l'Ufficio studi della Camera di Commercio di Vicenza - per esempio - il numero di kebab acquistati in provincia supererebbe quello delle pizze da asporto.

Con l'ingresso di questo nuovo attore nell'industria gastronomica, le città si sono trovate a ospitare punti vendita del tutto nuovi: se ristoranti asiatici, africani, americani e sud americani già occupavano le strade di grandi centri turistici e piccoli borghi, la quotidianità degli italiani ha cominciato ad aver a che fare con un nuovo tipo di cucina — portato nel loro paese da imprenditori di origine prettamente mediorientale. Con tutto ciò che ne consegue.

Il kebab se lo mangiassero gli arabi, viva il maiale — leonardo visco (@viskoleo)29 marzo 2016

La battaglia contro il kebab, in questi anni, è quindi diventata una specie di crociata contro il "degrado," ammantata dall'esigenza di favorire il commercio locale, o di proteggere le botteghe del posto dall'invasione straniera: una delle lotte politiche più facili da sollevare, facendo leva sulla paura nei confronti del diverso, sulla xenofobia e sul populismo. In sostanza, sono diventati il simbolo delle battaglie protezionistiche locali, contro i primi effetti dell"invasione islamica" nelle nostre città, spesso agitata da media e politici nazionali.

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È bastato quindi legare la crescente islamofobia degli ultimi anni, l'allarmismo sul contenuto della carne, e il diffondersi di vere o verosimili notizie di cronaca sulle zone attorno ai ristoranti, per far sì che una determinata parte politica - ma non solo quella - inquadrasse i kebab come il centro e la causa dell'imbarbarimento delle zone in cui venivano aperti — o addirittura uno dei centri in cui "si prepara il terrore in Italia," come riportato dal Foglio nel gennaio scorso.

La madre di tutte le battaglie contro il kebab sul territorio italiano si è combattuta - e si combatte ancora - a Padova, dove il sindaco Bitonci (Lega Nord) - non nuovo a provvedimenti singolari - nel 2011 ha firmato un'ordinanza per fermare quelli che, a suo dire, ''non sono certamente alimenti che fanno parte della nostra tradizione e della nostra identità, senza considerare che, nei luoghi dove se ne è permessa l'indiscriminata apertura, le amministrazioni comunali e i cittadini si sono pentiti amaramente''.

Se il Comune non fosse intervenuto con una regolamentazione - spiegava il sindaco - il centro storico sarebbe diventato "il ritrovo di gruppi di consumatori tipici di queste pietanze mediorientali, già molto diffuse a Padova."

Una valutazione che il Tar, a luglio, ha in qualche modo fatto sua respingendo ricorso di alcuni esercenti dell'area della stazione cittadina, che si erano opposti all'ordinanza del sindaco sulle chiusure anticipate, e riconoscendo come "oggettivo" il dato secondo il quale "la presenza di esercizi aperti sino a tarda favorisca lo stazionamento di persone di dubbia moralità, inclini a delinquere, comunque fonte di turbamento della sicurezza urbana della zona" — si legge sul Mattino di Padova.

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Negli ultimi tempi, tuttavia, all'esplosione delle ordinanze antikebab, è corrisposta anche la replica dell'ordinamento giudiziario, che ha molto spesso fermato queste iniziative bollandole come discriminatorie o contrarie al libero mercato — malgrado l'espressa intenzione di preservare il "decoro cittadino," il made in del centro in questione, o l'abuso di alcool nelle strade notturne.

In ottobre, per esempio, lo stesso Tar veneto aveva annullato l'ordinanza con la quale lo scorso in settembre il sindaco aveva disposto la chiusura anticipata di un ristorante in piazza delle Erbe, a causa di una violenta lite avvenuta tra due spacciatori nordafricani nei pressi - ma non all'interno - dell'esercizio.

L'episodio padovano, in qualche modo, è però l'esempio di come una forma di propaganda rischia di entrare a piedi uniti nel vissuto quotidiano delle persone, influenzandolo fortemente.

Bollati come "luogo di aggregazione di soggetti irregolari" che favorirebbero "l'organizzazione di attività illecite, prime tra tutte lo spaccio di sostanze stupefacenti e psicotrope," il kebab padovano di Kalim era infatti stato costretto ad anticipare la chiusura dell'esercizio alle 14 — una decisione che il gestore aveva definito "un'ingiustizia: da noi vengono a prendere il kebab molte persone, specialmente studenti italiani ma anche stranieri."

"Come faccio a sapere se uno di loro è uno spacciatore o una persona che vuole commettere un reato? (…) Io vendo kebab e non c'entro con quello che fanno gli spacciatori, che danneggiano anche a me," aveva spiegato all'Huffington Post.

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"Gli altri commercianti mi chiedono come farò a pagare l'affitto del negozio tenendo aperto soltanto due ore. Sarà impossibile."

Il caso limite arriva da Spirano, in provincia di Bergamo, dove i titolari di una piccola pizzeria e kebab hanno dovuto chiudere il locale nel giorno stesso dell'inaugurazione, per via di un'ordinanza comunale notificata dalla polizia locale. "Toglieremo il kebab dai volantini per riuscire ad aprire il locale," erano arrivati a dire i gestori, preoccupati dall'impatto economico che questa decisione avrebbe avuto sulla loro vita.

A Saluzzo (Cuneo), nel 2011, il proprietario del "Nilo Kebab" Zizo aveva infatti spiegato che l'ordinanza del Comune, che gli imponeva di abbassare la serranda in largo anticipo, gli sarebbe costata circa 2mila euro — e quindi la chiusura quasi certa dell'esercizio, e la difficoltosa ricerca di un nuovo lavoro: "pago 600 euro d'affitto per il locale, lo stipendio del commesso, i contribuiti del commesso, luce, acqua, gas, commercialista ed avvocato se ci sono dei problemi."

In direzione opposta, dal punto di vista politico, va invece il caso recente di Torino, città che ha una delle più antiche e solide tradizioni in fatto di ristorazione mediorientale, e nella quale a giugno si voterà per le elezioni comunali.

Nel capoluogo piemontese, per alcune settimane, è rimasta in piedi la candidatura di Bibi, gestore di uno dei più noti negozi di kebab della città - Horas - e a capo di una lista civica che avrebbe dovuto sostenere la riconferma di Piero Fassino a sindaco di Torino.

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Alla fine, Bibi - "re del kebab di San Salvario" famoso per il suo impegno civile sia in città che in Egitto - ha fatto però marcia indietro. "Sono orgoglioso di dare una mano nella campagna elettorale ma preferisco non presentarmi," ha spiegato.

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Se spesso sono politici locali di destra a lanciare proposte antikebab, la "battaglia al degrado" - di cui il doner dovrebbe essere portatore - si muove però anche nelle stanze delle amministrazioni di centrosinistra.

L'equazione "fast food etnico = incuria" trova forse la sua fotografia più esemplare nel caso di Genova, città amministrata dal centrosinistra, nella quale la giunta del sindaco Doria (eletto con una lista indipendente ma appoggiato da SEL) era intenzionata a 'ripulire' le zone di via Pre da negozi come i kebab.

Esercizi del genere, secondo quanto si legge nel Patto d'Area siglato da Comune e altri enti locali, contribuirebbero al "degrado del territorio e che con il loro proliferare producono l'espulsione dal tessuto di botteghe storiche tipiche."

"È giusto selezionare le attività," si era difeso Simone Leoncini, presidente del municipio: "vogliamo un'imprenditoria sana e non di bassa qualità, che non rispetta le regole e tende a vivere in una dimensione di degrado e illegalità."

A Brescia, in questi giorni, è in corso una raccolta firme contro l'apertura di un ristorante indiano nell'ex sede di una farmacia storica. La campagna ha finora raggiunto più di 130 firme, e intende tutelare un immobile che "rappresenta uno dei pochi esercizi antichi che ha mantenuto le storiche facciate e insegne."

"Il nuovo affittuario ha chiaramente espresso l'intenzione di voler stravolgere l'attuale negozio per realizzare un bar con servizio di fast food a base di kebab," si legge nella petizione. La farmacia in questione ha riaperto in una nuova sede, pochi metri più avanti.


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Foto di Zákupák via Wikimedia Commons, rilasciata su licenza Creative Commons