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Come imparare qualcosa sull'umanità frequentando i mezzi pubblici

O cosa mi hanno insegnato anni e anni da pendolare in una grande città.

Foto di Heath Brandan, via Flickr

Ho appena incontrato l’artista delle metro più talentuosa che abbia mai visto. Non stava facendo nulla di particolare—cantava pezzi pop e classici della Motown seguendo le tracce del karaoke. Ma la sua voce era incredibile. I soliti newyorkesi esausti si sono tolti le cuffie per ascoltarla. La gente in attesa sulla banchina le riservava applausi alla conclusione di ogni canzone. È una cosa che non accade tutti i giorni. Lo stereotipo dei newyorkesi ci vuole disinteressati alle interazioni umane, sempre troppo di corsa per apprezzare le piccole cose e piuttosto maleducati.

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Oggi New York mi ha insegnato qualcosa che va contro ogni mia esperienza avuta sui mezzi di trasporto pubblici. Solitamente, ogni momento degno di nota passato su una metropolitana può essere descritto in termini di massimo apice della tristezza umana.

La priva volta che l'ho capito ero solo un ragazzo del New Jersey a bordo di un PATH. Il PATH fa servizio tra il New Jersey  e il centro di Manhattan. Dato che nel New Jersey molti sono convinti che New York sia un incubo di criminalità in cui le automobili vengono costantemente manomesse, spesso i pendolari vanno in macchina fino alle stazioni del PATH e poi usano la metro.

Io di solito parcheggiavo a Harrison, un piccolo centro fra Jersey City e Newark. Una cosa che ho imparato fin da subito è che chiunque fosse su quella linea la sera tardi era qualcuno di cui non fidarsi. Si trattava di persone in cerca di guai o che non si sarebbero sorprese davanti a un problema, pronte a gettarsi nella mischia per affrontarlo.

Quando si parla del trasporto pubblico che espone la schifosità dell'umanità tutta, il PATH emerge quale luogo in cui ho assistito non a uno, ma a DUE diversi incidenti in cui malintenzionati cercavano di aggredire fisicamente ragazzi con evidenti difficoltà mentali. La prima volta un uomo che indossava una camicia di seta sbottonata con una fantasia di dollari e centesimi aveva cercato ripetutamente di svegliare un ragazzo con la sindrome di Down. Il ragazzo urlava spaventato, e l’uomo rideva, applaudiva e cercava di convincere il resto dei presenti a ridere con lui. Nessuno rise, ovviamente.

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La seconda volta era un fine settimana, su un treno che passava per Hoboken. Un uomo chiaramente in difficoltà era in piedi vicino alla sua bicicletta, e davanti a lui si era piazzato un tizio in giacca e cravatta. Se non conoscete l’archetipo dell'uomo d'affari di Hoboken, buon per voi. Somiglia molto agli altri cretini in giacca e cravatta, ma vivendo in una zona periferica è ancora più insicuro sul suo stupido ruolo di maschio alfa.

La bicicletta ondeggiava, come ondeggiano tutte le bici che stanno sulle carrozze che viaggiano ad alta velocità. Colpì il ginocchio dell'uomo in giacca e cravatta che, confuso dalla troppa coca, saltò in piedi e prese l'altro per la maglietta.

“Toccami ancora con quella bici,” ringhiò, “e ti smonto.”

Quello lo guardò, apaticamente, “SIGNORE, LE VOMITO ADDOSSO. Lo giuro. Le vomito addosso.”

Nessun altro disse o fece altro.

Le metropolitane di New York non sono come il PATH. Vengono usate talmente tanto che gli incidenti hanno un risalto minore—ma quando ne accade uno che esce dai soliti schemi, te ne ricordi per sempre. Me ne resi conto per la prima volta al college, quando non frequentavo da molto la metro, essendo un ragazzino del Jersey che avrebbe preferito percorrere 150 isolati piuttosto che ammettere di essere nervoso all’idea di prendere la metro e mostrare la propria debolezza. Un gruppo di adolescenti entrò in una carrozza e si mise a fare casino, saltando sui sedili, neanche fossimo stati in un film degli anni Ottanta.

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Uno dei ragazzini prese un pacchetto di fiammiferi e lo incastrò fra i lacci delle scarpe di un senzatetto addormentato.

“Ehi, fermo,” dissi.

“Fermo O COSA?” mi urlò contro uno di loro. L’amico con cui ero mise la sua mano sulla mia spalla e scosse la testa—non era il caso di immischiarsi.

Scendemmo alla fermata successiva e, mentre uscivamo, sentimmo urla e risate per ciò che posso solo immaginare fosse l’aumento della schifosità della vita di un senzatetto per via di un’ustione assolutamente non necessaria.

Due dei momenti più spaventosi che ho vissuto sulla metro risalgono al periodo in cui mi trasferii ad Astoria. La linea gialla serviva la zona e portava fino a piazza Queensboro. Vivevo al capolinea della metro, a Ditmars Boulevard, e fare il pendolare era una sofferenza. Il treno subiva continue cancellazioni, i passeggeri erano perennemente stressati ed evitavano tutto ciò che potesse causare l'arresto del treno.

Una volta presi il treno verso casa alle sette di sera, in una giornata estiva incredibilmente calda. La carrozza era piena di persone stanche e disidratate che tornavano dal lavoro. Ognuno sembrava più esausto del precedente, e tutti guardavano con estremo fastidio la famiglia che litigava al centro della carrozza.

Una mamma, una figlia adolescente e una bambina molto piccola occupavano il centro della carrozza, e la madre e la figlia teenager stavano avendo quel genere di litigio che solo un genitore e un adolescente possono avere. Iniziarono a voce piuttosto alta—ma era solo il principio. Alla ripresa del tratto in superficie la situazione si fece più pesante. “Non puoi essere così stupida,” fece la figlia alla madre, che a sua volta la minacciò di non farla uscire con gli amici, aggiungendo qualche vago riferimento a un tizio che la fissava nella maniera sbagliata.

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Si fecero strada verso l’uscita e continuarono a litigare mentre il treno si allontanava. Arrivammo alla fermata successiva e la bimba fece la cosa più logica da farsi quando ci si avvicina all’uscita, e uscì dalla carrozza.

Peccato non fosse la loro fermata. La madre e l’adolescente non si mossero. E dato che si stavano urlando contro, nemmeno si accorsero che la piccola era scesa dal treno.

La bimba, ormai sulla banchina, si voltò e guardò sua sorella e sua madre, leggermente confusa. Stava per aprire la bocca per dire qualcosa, ma le porte iniziarono a chiudersi.

La persona più vicina alla mamma e alla teenager saltò in piedi.

Uno disse, “Ehi, scusi, scusate! La bambina!”

Ma era troppo tardi. Le porte si chiusero completamente e madre e figlia smisero di litigare e si lanciarono contro i vetri.

“Mami!” urlò la bimba mentre il treno iniziava a muoversi.

“Stai ferma lì,” rispose la madre, “non muoverti!”

La bimba rincorse la carrozza.

“Mami!”

“Non muoverti, non parlare a nessuno, stai ferma lì!” disse di nuovo la madre. Poi, il treno superò la stazione.

Un silenzio inquietante riempì l’intera carrozza. Passammo dalle smorfie dovute alla famiglia urlante che stava rovinando il nostro viaggio collettivo a facce dagli occhi spalancati, scioccate e insicure su come reagire.

L’adolescente si voltò verso la madre. “Cosa…”

“Alla prossima scendiamo e torniamo indietro, pregando che nessuno la prenda prima che lo facciamo noi.”

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Tutti sulla carrozza sentimmo quella cupa frase. Nessuno sapeva cosa fare. Aspettammo fino a che il treno non arrivò alla stazione successiva, quando la mamma e la figlia corsero giù. Le porte si chiusero di nuovo e ci fu un ampio gruppo di persone che espirarono per la priva volta dopo diversi minuti.

Il giorno dopo controllai i giornali, ma non c’era notizia di rapimenti o scomparse.

Foto di Global Jet, via Flickr

E non fu nemmeno la cosa peggiore che vidi sulla linea N. In un altro viaggio verso casa, ero su una carrozza completamente piena—quando sei costretto a contatti fisici involontari con altri esseri umani. Questo è uno degli aspetti più schifosi del vivere un una grande città. Ci stringiamo in rettangoli d’acciaio e ci strofiniamo addosso sederi e ascelle ogni volta che il treno è particolarmente lento.

A ogni fermata scendeva qualcuno, e l’effetto era lo stesso di quando ti slacci i pantaloni alla fine del pranzo di Natale. Ogni volta che cinque o sei persone scendevano dal treno diretti verso casa, tutti sentivano di poter respirare un pochino di più. E le facce dei passeggeri che avevano raggiunto la loro fermata erano di pura soddisfazione—ci sono poche cose scomode come una carrozza troppo piena, e pochi momenti di pura gratificazione come uscirne.

Ma per l’orrore mio e dei presenti, esausti e finalmente capaci scioglierci un po’, senza i corpi di altri che ci oscuravano la vista, vedemmo ciò che nessuno vorrebbe mai vedere:

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Un cadavere.

Era un ragazzo di colore, di non più di 19 anni. Era steso sulla schiena, occupava tre posti, e la testa gli pendeva in una strana angolazione dalla barra di acciaio che segna il limite delle sedute. Il suo braccio sinistro era afflosciato sul pavimento, su uno skateboard che si era rovesciato una volta caduto dalla sua presa. Il cappuccio della felpa gli copriva la testa, fatto strano in una giornata così calda.

Quando lo vidi mi irrigidii e la mia faccia fu sopraffatta dalla paura. Ma quando osservai gli occhi delle persone vicine al corpo, notai uno sguardo simile in ognuno di loro. E grazie al codice non scritto di New York, ero in grado di dire quello che tutti stavano pensando.

Questo qui sarà morto sia che chiamiamo gli sbirri ora, sia che li chiamiamo arrivati a Ditmars. Non ha importanza. A nessuno venga in mente qualcosa di stupido e faccia fermare il treno per un’ora. Li chiameremo a Ditmars, così che potremo tutti uscire da questo cazzo di treno. Morto è morto, ora o dopo.

Era New York all’apice della freddezza.

Non chiamai la polizia. Nessuno lo fece. A ogni fermata, la carrozza diventava meno affollata e più persone capivano cosa stesse succedendo. Le anime più dure guardavano le altre, pragmatiche a un livello disumano. Esaminando le facce degli altri passeggeri catturai uno spettro di emozioni, con me e pochi altri all’opposto di coloro che stavano portando quel carico silenzioso.

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Iniziai a piangere; era uno di quei rari e terribili momenti della vita in cui sai che stai facendo una cosa sbagliata, ma rimani fermo, troppo confuso per agire nel modo giusto.

Dovevo chiamare la polizia, pensavo fra me e me. Perché non l'ho fatto prima?

La carrozza arrivò a Astoria Boulevard, a una fermata dal capolinea e da casa. Guardai in basso e continuai a piangere in silenzio. Fissai il ragazzo.

Eroina? Pensai. Probabilmente eroina.

Poi il treno oscillò nel vento, e il corpo rotolò dal sedile sul pavimento.

E si svegliò.

Le reazioni dei passeggeri furono varie e profonde. Alcuni scoppiarono a piangere. Altri sorrisero. Alcuni risero. Coloro che avevano dettato l’atmosfera del “non chiamare nessuno” guardavo in basso, pieni di vergogna.

Tutto tornava. Il ragazzo era completamente fatto. Tastò tristemente il pavimento in cerca del suo skate, grugnendo per il dolore e tenendo il braccio davanti agli occhi per proteggerli dalla luce. Scivolò sulla schiena grazie a uno slancio del treno, poi si alzò e si sedette a terra, fissando il suolo.

Era sballatissimo. Sembrava vivo quanto un cadavere. Magari era andato in overdose e ne era uscito. Forse per qualche istante era davvero morto.

I mezzi pubblici sono come una lente d’ingrandimento sull'umanità. Ho visto anche cose belle, in metro. Estranei che si danno conforto l’un l’altro. Vecchi amici che si ritrovano inaspettatamente. Innamorati che si baciano negli angoli.

Ma ci sono anche degli schifosi che si masturbano, maniaci violenti e anime turbate. Il brutto che vedi a New York è preoccupante, quando raggiunge il suo apice.

Eppure oggi questo discorso non vale. Sì, ogni tanto questa metropoli ti fa vedere bambini che finiscono in situazioni di pericolo, o coglioni che cercano di dar fuoco al piede di un uomo, o una carrozza intera che ignora la morte per la propria convenienza. Ma oggi si tratta di una ragazza che normalmente nessuno noterebbe, che canta canzoni bellissime mentre tutti si fermano ad ascoltarla.

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