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Morire d'amianto: la 'strage' silenziosa di un paesino della provincia pavese

Broni, in provincia di Pavia, è nota per essere la città con il numero maggiore di morti da tumore per metro quadro: dal 1994 ad oggi sono morte circa 700 persone.
Foto di Luigi Rosa/Flickr

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Broni è un comune di circa 9500 abitanti in provincia di Pavia, noto per essere la città con il numero maggiore di morti da tumore per metro quadro. Dal 1994 ad oggi, infatti, qui sono morte circa 700 persone.

Conosciuto per la produzione vinicola e per avere dato i natali a Tiziano Sclavi, il creatore di Dylan Dog, Broni è anche la città della Fibronit, lo stabilimento di materiali per l'edilizia in amianto che ha fatto della località pavese - secondo uno studio di Pietro Comba, direttore del reparto di epidemologia ambientale del ministero della Salute - il posto con il più alto tasso di incidenza di mesotelioma in Italia (pari a 82 casi ogni 100mila abitanti), di poco superiore anche a quello di Casale Monferrato, sede dell'Eternit.

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Mentre in Europa gli stabilimenti che lavoravano l'amianto chiudevano, la Fibronit ha continuato ad operare restando aperta per otto anni dopo la chiusura dell'Eternit. È stata la legge - non le proteste - a costringere a chiuderla negli anni Novanta: la vicenda è finita in tribunale soltanto nel 2008, e alcuni processi sono ancora in corso.

Tabella tratta da "Mesothelioma mortality surveillance and asbestos exposure tracking in Italy" (2012)

La Fibronit è stata fondata nel 1919 e chiusa nel 1994. In origine semplice cementificio, nel 1932 introdusse la lavorazione del cemento-amianto (o fibrocemento) grazie a un brevetto di Alessandro Magnani, "un ingegnere di Casale Monferrato che aveva brevettato un sistema per lavorare l'amianto" — spiega Cesare Gasio, un ex impiegato della Fibronit che ha lavorato dentro la fabbrica per circa 30 anni.

A Broni si producevano materiali per l'edilizia come tettoie, tubi o giunti, e l'amianto era un materiale molto richiesto perché resistente ed economico. Per Broni, la presenza della Fibronit ha significato un piccolo boom economico e, di conseguenza, demografico.

"Era bello avere un lavoro sicuro"

Nel suo momento di massimo successo, la Fibronit aveva 9 linee di produzione e dava lavoro a circa 1300 persone, tanto che gli abitanti della cittadina passarono dai 7000 del 1951 ai 10mila del 1971.

"Molta gente scendeva dai paesi della collina per venire a lavorare in fabbrica, c'è stata gente che con gli stipendi si è costruita la casa nuova, solo che poi non ha potuto godersela," spiega Manuela Gasio, figlia di un ex operaio.

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Con l'ingrandirsi del paese, se prima la fabbrica era in aperta campagna, ora le case cominciavano quasi a toccare i cancelli dello stabilimento. "Era bello avere un lavoro sicuro e vicino a casa," ricorda Adriana Margarito, vedova di un operaio morto di tumore.

La sua storia è comune a quella di molti altri ex dipendenti della fabbrica: "A 23 anni ho conosciuto mio marito Graziano. Lavorava alla Fibronit, ci siamo sposati ed è arrivato nostro figlio. Quando rientrava dal lavoro, aveva sempre addosso un cattivo odore, come di fogna, e lavorava senza mascherina e guanti. Un giorno, a novembre 2009, è tornato a casa stanco e con una forte tosse. Abbiamo fatto gli esami: durante la prima visita si parlava di brutto raffreddore, durante la seconda hanno trovato un versamento pleurico."

Leggi il nostro reportage: Dentro al ghetto d'amianto dove vivono i 'dimenticati' del terremoto in Irpinia

Come Graziano, anche gli operai lavoravano praticamente senza misure di sicurezza. La polvere d'amianto era dappertutto, e i lavori più rischiosi erano destinati alle donne, come racconta a VICE News l'ex impiegato Gasio.

"D'estate vedevi la polvere di amianto in mezzo ai raggi del sole. Il lavoro peggiore era la produzione dei manicotti, dove si respirava letteralmente amianto. Un lavoro che all'inizio facevano solo le donne, a un certo punto l'azienda ha fornito loro delle mascherine ma erano di carta — quindi inutili perché si riempivano subito di polvere di amianto. Oggi le donne di quel reparto sono quasi tutte morte."

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Verso la metà degli anni Settanta l'azienda inizia a investire in cappe aspiranti per ridurre il numero di fibre presenti nell'aria della fabbrica e a sottoporre a periodiche visite mediche i suoi dipendenti. Le cappe però non sono sufficienti e anche le visite mediche si rilevano poco più di un contentino per tranquillizzare gli operai, a cui veniva prescritto al massimo uno sciroppo per la tosse o addirittura detto che non c'erano problemi, come spiega a VICE News l'ex dipendente Luigino Andreoli.

"Io ero un meccanico addetto alle manutenzioni delle macchine, che erano sempre sporche. Ogni tanto ci facevano dei controlli e ci dicevano che andava tutto bene. A un certo punto il mio medico mi ha mandato a fare una visita, ho fatto dei prelievi e una TAC, e hanno scoperto che ero malato di asbestosi da dieci anni."

Le fibre di amianto a Broni erano dappertutto: sulle tute degli operai, sui balconi e sui tendaggi delle case e persino nei freni delle auto. C'è chi si è ammalato senza aver mai lavorato l'amianto, come Orazio Bellini: "Io faccio il carrozziere, non ho lavorato alla Fibronit," spiega a VICE News. "Ero sempre a contatto con le polveri di amianto. Sono anche donatore di sangue, quindi ero costantemente sotto controllo medico. Il mio dottore mi ha mandato a fare una visita di controllo, così ho scoperto di avere delle placche pleuriche."

Una nevicata di amianto

Negli anni non mancano gli incidenti. Come quello del 6 marzo 1990, quando la rottura di un tubo causa la fuoriuscita di circa 8 chili di amianto in un'area di circa 20mila metri quadrati.

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Una nevicata che ha imbiancato l'area intorno allo stabilimento. Nel commentare la notizia - relegata a pagina 18 del quotidiano locale La Provincia Pavese - il direttore dello stabilimento Maurizio Modena dichiarava esplicitamente che: "Non c'è stato alcun pericolo per le persone." Secondo la procura di Voghera "la nevicata di amianto" ha causato almeno la morte di una persona che abitava vicino allo stabilimento. La polvere era arrivata anche sui binari della ferrovia.

Per colpa dell'amianto, Giuseppe Ghelfi ha perso il suocero e due zii. "Uno di loro fu mandato a gettare acqua sulla polvere d'amianto che era sui binari per evitare che si alzasse quando passavano i treni a 150 km orari," racconta di quell'evento.

Nonostante le morti e gli incidenti, e i divieti di produzione d'amianto approvati nelle altre nazioni europee, la Fibronit continua a lavorare a pieno regime fino al 1992, e ad ottenere diverse commesse per il mercato internazionale.

"Per circa 15 anni abbiamo evaso gli ordini dalla Francia e dalla Germania" dove nel frattempo era stata interdetta la lavorazione dell'amianto, ricorda Cesare Gasio.

"Non si è riusciti a trovare un collegamento Fibronit-Eternit ma il problema è lo stesso. Anche qui gli operai mangiavano letteralmente sull'asbesto, chi ha patito di più sono stati i lavoratori ma anche le loro famigliari, le mogli e le figlie che lavavano la tuta del marito sporca di amianto si sono ammalata a loro volta," spiega a VICE News Gianluigi Vecchi di Legambiente.

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"Le zone intorno a queste fabbriche erano tutte piene di amianto perché le lastre venute male erano vendute sotto costo o regalate. Io sono convinto che i padroni della fabbrica sapessero da tempo che la Fibronit dava dei problemi alla salute — magari non nelle dimensioni con cui poi si è manifestato. Per me i lavoratori invece non lo sapevano ma le misure di sicurezza erano assolutamente insufficienti."

Intanto nel 1986 chiude - anche sotto la pressione dell'opinione pubblica - lo stabilimento Eternit di Casale Monferrato. La Fibronit di Broni al contrario non solo continua a produrre ma, spiega Gasio, "nel 1986 abbiamo aumentato massicciamente la produzione perché Eternit Austria ci passava le commesse che prima andavano a Casale."

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A Broni non c'è nessuna pressione dell'opinione pubblica per far smettere la produzione di amianto alla Fibronit. Quando l'azienda chiude nel 1994, per effetto della legge del 1992 che vieta la produzione e la commercializzazione di amianto in Italia, i cittadini non sembravano contenti.

"La Fibronit era Broni, per cui la legge che vietata la produzione e la commercializzazione dell'amianto non fu vissuta benissimo. Il conflitto fra lavoro e salute vedeva gli stessi lavoratori schierati per il lavoro e la salute era sacrificata," dice Gianluigi Vecchi.

Nel 1997 parte degli impianti della Fibronit passano all'Ecored, produttrice di Fibrocemento ma senza amianto. Tuttavia l'area è piena di polvere e incrostazioni di amianto, ed è impossibile lavorarci dentro, tanto da essere chiusa nel 2000.

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Mentre nell'altro stabilimento Fibronit di Bari si parla di morti da amianto dal 1995, a Broni cala il silenzio. Eppure già nel 1992 l'USL di Voghera aveva trovato una concentrazione di polveri di amianto ben superiore alla quota consentita per legge (0.7 fibre per unità di volume contro lo 0.5 previsto dalle normative.)

Parlare del male della cementifera significava forse rischiare di passare per il "paese dell'amianto." "Probabilmente c'era la paura di perdere le nostre risorse e il valore delle nostre case, noi siamo conosciuti come la città del vino," spiega Silvio Mingrino, il presidente dell'associazione AVANI (Associazione Vittime Amianto Nazionale) che da anni si batte per i diritti delle vittime della Fibronit.

La sua storia inizia con la morte di una persona cara: "Mio padre è morto nel 1999, come molti ci siamo rassegnati. 8 anni dopo muore anche la mia mamma. Ma se in una famiglia muoiono entrambi i genitori per lo stesso motivo allora c'è un problema. Io ho cercato di capire cosa c'era sotto."

La caduta del muro del silenzio

Il momento della svolta per Broni è la fine del 2007, quando durante un'assemblea pubblica crolla il 'muro di silenzio' intorno ai morti della Fibronit.

"Invitammo tutti i cittadini, ma in particolar modo chi aveva avuto vittime o parenti malati dall'amianto. È lì che scattò tutto, perché per la prima volta la gente di Broni smise di nascondere il problema. I cittadini iniziarono a raccontare e venne fuori con chiarezza il dramma di quella città," racconta Gianluigi Vecchi.

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"Allora - spiega Vecchi - la fabbrica aveva l'Eternit ancora presente e i materiali lasciati in abbandono. Noi chiedemmo la bonifica integrale del sito, scrivemmo al presidente Napolitano dicendogli 'qui è successo qualcosa di grave'. Napolitano interessò i ministri perché una bonifica di amianto è molto costosa, si parla di 25 milioni di euro solo per la bonifica del sito, esclusi i tetti e i privati."

"A Broni il sito industriale fu dichiarato sito di interesse nazionale nel 2001, ma il Comune negli anni successivi è stato in grado di fare solo piccole operazioni di bonifica" dice Luigi Paroni, sindaco di Broni dal 2006.

"È stata ultimata la messa in sicurezza dell'area ex Fibronit-Ecored, mentre la vecchia scuola elementare Paolo Baffi, costruita con pannelli di amianto, è stata definitivamente dismessa lo scorso settembre, e i lavori effettuati nel complesso dell'ex cementificio garantiscono che nessuna fibra possa dal sito disperdersi nell'aria — che è comunque costantemente monitorata dall'ASL."

Ora, continua il sindaco Paroni, "dopo due anni a mezzo il progetto del secondo lotto è stato approvato. Si tratta del più importante perché, dopo la gara d'appalto europea e l'assegnazione dei lavori che dureranno 24 mesi, tutto l'amianto presente verrà asportato e smaltito."

Nonostante i passi in avanti la situazione non è ancora risolta definitivamente. "Molte case private hanno ancora tetti di amianto e per i proprietari sostituirli è un costo notevole."

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Il prossimo allarme sarà però quello sulle coperture: i tetti in media durano 20-22 anni poi iniziano a deteriorarsi, e il sindaco non può fare niente se non emettere un'ordinanza.

"Per eliminare il problema alla fonte servono incentivi," continua Silvio Mingrino, secondo cui "la strada è ancora lunga e ci saranno altre morti e - anche se ci sarà - una lieve flessione non sarà raggiunto prima del 2030. Oggi mediamente si ammalano 50 persone l'anno — non solo a Broni, che è l'epicentro della malattia, ma anche a Stradella. Il decesso di solito arriva dopo 8-15 mesi, raramente si dura di più."

Nessun colpevole

Ad ammalarsi non sono solo i lavoratori, che hanno avuto a che fare - direttamente o indirettamente - con l'amianto, ma anche i loro figli. Come Mara Gasio, figlia di un operaio della Fibronit, morta a soli 52 anni nel settembre scorso.

"Mi ricordo mio padre con questa tuta blu completamente bianca di amianto e mia madre che la scuoteva vicino a noi bambine," ricorda la sorella Manuela.

"Nel 2014 mia sorella iniziò ad avere difficoltà respiratorie. Le analisi le trovarono del liquido nei polmoni e le diagnosticarono un mesotelioma. Prima conoscevo amici e parenti che hanno perso familiari per l'amianto, ma non ero mai stata toccata in maniera così diretta."

Ora, conclude Manuela, "vivo nel terrore ogni volta che tossisco perché penso alle persone care che ho perso."

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Nonostante tutto, però, la "strage" di Broni rischia di rimanere senza veri colpevoli, anche per colpa degli anni passati. I proprietari dello stabilimento sono morti da tempo e a essere imputati sono solo gli ex dirigenti.

"A Casale le responsabilità erano bene individuate e avevi delle persone fisiche, gli svizzeri, su cui rivalerti. A Broni invece c'è un curatore fallimentare perché i manager sono quasi tutti morti. Il processo non è intentato ai proprietari ma ai vari consigli di amministrazione che si sono succeduti negli anni. E di questi sono rimasti pochi, tutti molto anziani."

Oggi le uniche condanne (per le quali si è proceduto con rito abbreviato) sono quelle date agli ex componenti del consiglio d'amministrazione, Claudio del Pozzo e Giovanni Boccini, accusati di disastro doloso e condannati in primo grado a 4 anni per il più lieve disastro colposo.

Gli imputati sono stati anche condannati a risarcire gli abitanti di Broni che si sono costituiti parte civile, ma essendosi dichiarati nullatenenti non è stato possibile risarcirli. Dei restanti 8 imputati sono rimasti a processo solo in 3, perché gli altri 5 sono morti o dichiarati incapaci di intendere o di volere.

La vicenda della Fibronit è soprattutto una storia di silenzi. Quello di una comunità che non ha avuto il coraggio di denunciare cosa stava accadendo, e -soprattutto - quello dei dirigenti dello stabilimento — che non hanno mai avvisato i lavoratori della pericolosità delle fibre di amianto, e che quando i rischi erano oramai noti accettavano nuove commesse.

"Da noi arrivavano tutti i tipi di amianto, da quelli canadesi e russo fino a quello italiano proveniente da Balanino, il più schifoso. Oggi la mia situazione non è fra le peggiori ma sono pieno di placche pleuriche. Quando durante il processo l'ho detto a Dino Stringa, uno degli azionisti della Fibronit, mi ha risposto: in fondo vi ho sempre pagato."

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Foto di Luigi Rosa via Flickr