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Come non parlare di donne e femminicidio in Italia

Questo articolo, relativo all'uccisione di una 29enne di Verbania da parte del compagno, è l'esempio perfetto di ciò che NON va fatto.
femminicidio

L’8 settembre 2019 – dopo due settimane di fuga nella provincia di Piacenza – è stato arrestato Massimo Sebastiani, autore dell’omicidio di Elisa Pomarelli. Anche in questo caso, diversi quotidiani hanno riproposto i triti cliché narrativi sui femminicidi: il “raptus” improvviso; l’apologia implicita dell’omicida, descritto come un “gigante buono” che piange e avrebbe ucciso per il “troppo amore” non corrisposto; e la vittimizzazione della donna, colpevole in qualche modo di aver “rifiutato” il suo carnefice.

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Per l’occasione, e visto che non sembra cambiare mai nulla, riproponiamo questo nostro articolo su come non si dovrebbe parlare di femminicidio.

Secondo il quarto rapporto Eures sul femmicidio, dal 2000 a oggi circa tremila donne sono state vittime di omicidio: nel 92 percento dei casi sono state uccise da un uomo; nel 77 da un familiare, un partner o un ex partner.

E sebbene negli ultimi 25 anni il numero di omicidi di uomini è diminuito drasticamente, riporta l'Istat, i femminicidi sono rimasti sostanzialmente stabili (da 0.6 a 0.4 per 100mila donne). A fronte degli ultimi dati disponibili—nel 2018 ci sarebbero stati 106 femminicidi, uno ogni 72 ore—anche in Italia è in crescita l'attenzione rivolta al problema del femminicidio.

Definito generalmente come l'omicidio di una donna in quanto donna, il femminicidio è l'espressione più estrema della violenza maschile, come ribadisce anche Chiara Capraro di Chayn Italia, piattaforma online dedicata alla lotta alla violenza di genere.

"È l'estrema conseguenza della violenza di genere, che è un problema strutturale nella nostra società," spiega. "Una società in cui ci sono dei ruoli di genere molto rigidi, molto stereotipati, per cui il rapporto di coppia viene visto come un rapporto d'appartenenza" in cui la donna che "esce dagli schemi precostituiti" può essere punita.

Punita con la morte, spesso premeditata, in molti casi anticipata da altre forme di abuso—psicologico, emotivo, fisico o sessuale—che la tradizionale retorica giornalistica del 'raptus' e del 'delitto passionale' nega o ignora completamente. "Sembra che questi femminicidi si rifacciano a questa narrativa del raptus, del gesto folle, del troppo amore, o dell'amore non corrisposto, che quindi porta gli uomini a fare violenza sulle donne fino a ucciderle. Questo è molto problematico," commenta Capraro.

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A questo proposito, negli ultimi giorni, ha fatto discutere un articolo sul caso di Verbania, dove Alessia Partesana, 29 anni, è stata uccisa con oltre 30 coltellate dal compagno e padre della figlia di 4 anni, la notte della Vigilia di Natale.

"Se ancora ci fosse qualche dubbio sul ruolo dei media nel raccontare i casi di violenza sulle donne, questo articolo è una specie di Bignami del come umanizzare il carnefice e colpevolizzare la vittima," si legge in questo commento di Claudia Torrisi ripreso da Chayn Italia.

Nel post, pubblicata anche sul blog della piattaforma, si evidenzia come il pezzo susciti—probabilmente in maniera inconsapevole—empatia nei confronti dell'assassino, descritto come un trentatreenne disoccupato, cresciuto senza un padre e terrorizzato dall'idea di perdere la figlia, in seguito a un'eventuale rottura con la compagna. L'analisi continua così: "[…] si va anche oltre: spunta un viaggio che la ragazza avrebbe fatto da sola, causa scatenante dell'ultimo 'litigio'. È qui che la giustificazione del carnefice raggiunge livelli più alti." La vacanza della giovane donna, infatti, sembra immediatamente diventare una colpa, un torto tale da giustificare e confermare, almeno in parte, i sospetti e le preoccupazioni dell'uomo.

"Questa narrazione è il paradigma base di ogni storia di violenza sulle donne: lui, seppur omicida e violento, sotto sotto ha un cuore, che lei ha in qualche modo ferito," osserva Torrisi. Che conclude: "L'operazione 'sì, l'ha uccisa ma…' è perfettamente riuscita."

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Eppure dovrebbe essere chiaro: non si uccide per gelosia, non si uccide per passione e meno che mai si uccide per amore. Si uccide perché ci si sente in diritto di dominare la vita di un'altra persona, e ricondurre tutto a un inspiegabile gesto folle e improvviso significa ignorare le complesse radici sociali e culturali su cui si fonda questo tipo di violenza.

"Questa narrativa del possesso, del qualcosa che si rompe… invece di guardare a una storia di soprusi, di violenze perpetuiamo questa narrativa tossica senza affrontare il problema per quello che è, ovvero un problema strutturale," afferma Capraro.

Sebbene quello di Verbania, come Capraro stessa ammette, sia un caso esemplare, non è di certo un esempio isolato. I primi di dicembre, al ritrovamento del cadavere di Gabriella Fabbiano nel laghetto di una cava vicino a Milano, i media avevano subito parlato di un possibile 'delitto passionale.'

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E a fine novembre, a Pescara, dopo la morte di Jennifer Sterlecchini, accoltellata dal fidanzato appena lasciato, alcuni giornalisti si erano cimentati in un'analisi delle foto postate sui social media dalla coppia, enfatizzando l'imprevedibilità dell'atto omicida.

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"[C'è un] accanimento sulla figura della donna, si vedono spesso foto sui media di queste coppie apparentemente felici, apparentemente normali, quando poi scatta qualcosa che rovina tutto," Capraro osserva. "Questa vittimizzazione del 'Cosa avrà mai fatto per scatenare tanta violenza?', ad esempio. Magari non è detto in maniera esplicita sempre, ma scavando e analizzando il linguaggio, [il messaggio] è quello."

Al contempo, molti di questi articoli sembrano spesso offrire delle attenuanti per la figura maschile che compie la violenza: era disoccupato, era depresso, era preoccupato, era innamorato.

Proprio a questo proposito, alcune settimane fa la rete di attiviste Rebel Network ha inviato una lettera al Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti per eliminare dal linguaggio di cronaca relativo ai casi di femminicidio "espressioni fuorvianti e sminuenti della gravità del reato quali 'delitto passionale', 'raptus', 'pista sentimentale', 'gelosia'." A metà dicembre, il Gruppo di lavoro Pari Opportunità dell'Ordine Nazionale dei Giornalisti ha risposto all'appello proponendo un Osservatorio permanente a cui poter anche segnalare e denunciare espressioni improprie.

Promuovere una corretta narrazione del femminicidio—e della violenza più in generale—è fondamentale, come spiega Capraro. "Le parole costruiscono le nostre idee, quindi se ci educhiamo e educhiamo le nuove generazioni a perpetuare questi stereotipi e queste narrative tossiche, accantoniamo il problema."

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