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Italia

Nel caos delle tutele pubbliche in Lombardia per chi soffre di disabilità acquisite

Nella regione, e a Milano, regna una confusione burocratica in cui il malato e la sua famiglia devono orientarsi a tentoni. Centri diurni e associazioni, però, stanno lavorando per colmare le lacune del sistema.
Foto di Luca Cerabona/Flickr

Gli incidenti, come le malattie degenerative, possono creare una persona nuova. Tuttavia quella delle disabilità acquisite è una realtà sommersa, nota solo ai servizi sociali e sanitari, e molto diversa da quella congenita perché, a differenza di questa, presuppone nettamente un prima e un dopo.

C'è una linea di demarcazione – la diagnosi, l'incidente – che rappresenta un radicale cambio di vita, di competenze e di aspettative per il futuro. E a doverci fare i conti sono spesso individui che in passato non hanno mai avuto grandi problemi di salute e che si trovano improvvisamente ad affrontare una diagnosi e una prognosi gravemente limitanti, del tutto persi nel labirinto dei servizi e della loro articolazione.

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I centri diurni e le associazioni di settore cercano di fare fronte – per quanto possibile – a questo spaesamento, e di offrire un po' di guida nel caos burocratico in cui a doversi orientare a tentoni non è solo il malato, ma anche la sua famiglia.

Ogni storia è diversa dall'altra, e l'espressione "disabilità acquisita" comprende al suo interno una vastissima gamma di casistiche: soggetti affetti da patologie degenerative, persone che hanno perso parte delle proprie competenze in seguito a ictus o infarti, vittime di incidenti sul lavoro o di traumi frontali.

Il Centro Diurno Ciak 2, in via Agrippa a Milano, copre quasi tutta questa gamma di casistiche. È un luogo confortevole, con una palestra per la riabilitazione, luoghi di socializzazione, uffici e un refettorio.

"La disabilità acquisita è un tema culturalmente recente," racconta a VICE News Severina Mozzon della Cooperativa I percorsi, responsabile del Centro. "La chirurgia ha fatto passi enormi e ora i traumatizzati cranici si salvano; inoltre lo studio delle malattie degenerative ha permesso di conoscerle meglio nelle loro specificità. Quello che manca ancora, però, è un inquadramento culturale, indispensabile per un riconoscimento di diritti adeguato."

Il Centro è pensato per 26 persone e al momento i posti sono tutti occupati. Gli ospiti sono adulti tra i 30 e i 60 anni: 17 possono frequentare il Centro grazie a una quota predisposta dall'ASL nel 2014, a cui si aggiunge, per 15 di loro, una quota sociale convenzionata con il Comune. "Tutti gli altri," spiega Mozzon, "accedono con finanziamenti strampalati."

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Il labirinto burocratico

Lo scopo del Centro diurno è fornire un supporto per la riabilitazione sociale: fare in modo che le persone tornino a essere il più possibile autonome e che recuperino le funzioni umane di base. Ma non è raro per il personale dare una mano a ospiti e parenti nelle pratiche di ordinaria burocrazia.

"Lo sforzo di comprensione della procedura di accesso ai sostegni del territorio è già di per sé complesso," spiega Mozzon. "Tre comuni limitrofi come Milano, Buccinasco e Rozzano, per esempio, si muovono in tre modi completamente diversi."

Anche nei casi in cui la normativa è chiara e condivisa – come la misura regionale B1 che regola i sostegni "per le persone affette da gravissime disabilità in dipendenza vitale" (difficoltà respiratorie ecc.) – non sempre il contenuto è esaustivo.

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La B1 infatti prevede,oltre a un voucher socio sanitario mensile, un buono di 1000 € per compensare le prestazioni di assistenza e monitoraggio assicurate dal care giver.

"Nel Caso di Ciak 2," spiega Severina, "quattro o cinque ospiti vorrebbero utilizzare questi fondi per frequentare il centro; ma non è possibile, perché i soldi possono essere usati solo per l'assistenza domiciliare. E questo non fa che incoraggiare la reclusione in casa del paziente, oltre che limitare il suo diritto di autodeterminazione."

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Una difficoltà molto banale può essere anche quella di certificare l'invalidità. "Per esempio," racconta Mozzon, "c'era questa donna di 40 anni, affetta da anossia cerebrale in seguito a un infarto, e nei colloqui per l'invalidità si comportava bene, era spigliata: raccontava di quanto fosse buono il tè che aveva bevuto qualche giorno prima in una pasticceria di Magenta."

Quello che gli esaminatori non sanno però, è che il tè bevuto a Magenta era stato il suo aneddoto anche il giorno precedente, e quello prima, e verosimilmente sarà anche quello di domani. "Ha grossi buchi di memoria e deficit enormi di pianificazione, cui si somma un'inerzia complessiva," spiega Mozzon. "Casi come questo dimostrano quanto sia importante una valutazione psichiatrica fatta come si deve."

Secondo Paola Betti dell'Associazione Italiana Sclerosi Multipla (AISM), i servizi sociali milanesi sono in fase di ristrutturazione: "Ci sono domande ferme addirittura al febbraio 2015. E la differenza la fanno più che altro gli operatori sociali come persone singole." Con tutta la discrezionalità che ne consegue.

Anche l'assistente sociale Emanuele Pagin è membro dell'AISM. Secondo lui "la famosa integrazione socio-sanitaria è ancora lontana," e nonostante negli ultimi tre anni la regione abbia iniziato a varare nuove normative, il piano sanitario (buono) e quello socio-assistenziale (ancora carente) rimangono poco omogenei.

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Secondo Pagin, un primo passo sarebbe estendere i percorsi mirati PDTA (Percorsi diagnostico terapeutici e assistenziali) - già attivi in regioni come il Veneto, la Sicilia, l'Emilia Romagna, il Lazio e la Toscana - a tutte le ragioni restanti.

La dimensione domestica

Da parte loro le associazioni fanno quello che possono per colmare quelli che riconoscono come buchi istituzionali. L'AISM per esempio si è concentrata, tra le altre cose, sul Progetto Famiglia, un progetto specifico per cercare di offrire strumenti di supporto e momenti di confronto ai nuclei familiari alle prese con la sclerosi multipla.

Qualcosa di simile è stato fatto anche dall'AIMA, l'Associazione italiana malattia di Alzheimer. Si chiama Vademecum Alzheimer, ed è una guida ai servizi per i familiari del malato. È stata pensata perché, come spiega la counselor Antonella Consonni, "dopo la diagnosi i parenti non ricevono nessuna informazione, e non hanno idea di come prendersi cura del malato."

"Il 90 per cento dei nostri utenti arriva da sé, perché i figli trovano la nostra associazione su Internet." Oltre alla scarsa informazione, secondo Consonni, un problema centrale è proprio la certificazione di invalidità e i test che misurano le funzioni cognitive: i test MMSE.

"Secondo la mia esperienza a Milano," racconta la counselor, "al primo test del paziente l'invalidità viene data solo parziale, oppure totale ma senza accompagnamento, che è un paradosso: se sono totalmente invalido come posso non avere bisogno di accompagnamento? Al secondo giro invece viene concessa, ma è tardi: si consideri che il punteggio massimo del test è 30/30. A 24/30 significa già che l'individuo non è autonomo. In media l'invalidità viene concessa al di sotto dei 14/30. E a 14/30 il familiare è già schiattato."

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A tutto ciò va aggiunto che in genere le famiglie si riducono a chiedere l'invalidità quando la situazione è già piuttosto grave. Molti non vogliono accettare l'impatto che la malattia avrà sulla loro vita, temono che pensare ai problemi presenti o potenziali possa farli sembrare più reali. Oppure hanno l'impressione che cercare aiuto all'esterno sia un'ammissione di inadeguatezza.

"Quando una famiglia alla fine decide, dopo molte fatiche, di ricorrere al ricovero," spiega Consonni, "bastano 10 metri quadri di casa perché il comune chieda di vendere la proprietà. Nel caso di due coniugi, ad esempio, il marito può essere costretto a vendere la nuda proprietà per pagare il ricovero alla moglie. E a lui cosa resta? Sono diverse le sentenze del Tar che si sono pronunciate in casi come questi, deliberando che spetta al comune prendersi carico del ricovero, ma restano episodi singoli che non dettano legge."

L'importanza di una formazione specifica

A Milano un servizio specifico di formazione all'autonomia sulle disabilità acquisite non esiste ancora. Eppure la disabilità adulta richiede una serie di competenze non trascurabili, perché coinvolgere persone abituate a ben altri tipi di performance e di qualità della vita non è certo facile.

Bisogna che le attività siano motivate e interessanti, lontane da modelli di infantilizzazione, altrimenti la persona finisce per rintanarsi tra le mura domestiche, rinunciando alla dimensione sociale: per ritrovare l'autonomia sono necessari percorsi specifici, esattamente come specifica è la competenza del fisioterapista.

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Le strutture stesse sono pensate spesso per persone molto anziane, e questo non giova. Anche per quanto riguarda i servizi sanitari di base, è importante che ci sia del personale sanitario in grado di fronteggiare pazienti un po' atipici.

"Per esempio, se serve un dentista," racconta Antonella Consonni, "è importante che sia un dentista in grado di accogliere e dialogare con queste persone. All'ospedale Sacco per esempio c'è un reparto dentistico in grado di gestire i malati di Alzheimer. E reparti di questo tipo sono molto utili."

Infine, è importante anche che comuni e regione salvaguardino i propri poli di ricerca specializzati, in particolare facendo orientamento con i pazienti, indirizzandoli al giusto centro, come nel caso di Ciak 2, che pur occupandosi di disabilità acquisite in generale, è specializzato nella malattia di Huntington e su questa malattia rara intende portare avanti la propria ricerca.

La dimensione sociale

Incidenti e malattie degenerative producono una frattura nella narrativa individuale. Per questo, secondo Severina Mozzon, la prima cosa da fare è raccontare la propria storia, nominare quello che è successo.

Se infatti è certamente buono per il paziente restare nel proprio ambiente domestico, è altrettanto importante che la dimensione sociale e – se possibile – lavorativa non sparisca dalla sua vita.

"Si tratta di imbastire un nuovo racconto, e in questo è importante il ruolo che giocano gli altri."

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I gruppi di mutuo aiuto tra pari in questo sono fondamentali, anche perché permettono, attraverso le testimonianze di chi ci è passato prima ed è più avanti nel percorso, di sdoganare gli ausili (come può essere un condom per incontinenza), spesso interpretati come piccole ferite all'orgoglio, e che invece sono importati per riacquistare autonomia.

Il discorso professionale invece varia molto di caso in caso. Nel caso di una malattia come la sclerosi multipla, che ha una scarsa influenza sull'aspettativa di vita e la cui diagnosi avviene di solito tra i 20 e i 40 anni – in anni cioè di piena attività – è importante che la vita lavorativa sia salvaguardata, magari riducendo il carico o cambiando mansione. Va da sé che tutto dipende dall'attività di partenza, e che nel caso di lavori manuali la ricollocazione è più difficile e bisogna ricorrere al collocamento mirato e alle fasce protette.

Sdoganare la fragilità

Claudio Mustacchi è il presidente dell'AICH, associazione italiana Còrea di Huntington: "Noi però preferiamo solo Huntington, contro il cinismo dei medici che la paragonarono a una danza." Al momento è impegnato nell'organizzazione degli Huntington Days, che l'AICH promuoverà a Milano dal 1 al 10 giugno. "È una malattia ancora tabù," spiega, "ma è più diffusa di quanto si pensi."

Anche per lui l'aspetto collettivo è cruciale: al di là dei bisogni pratici, "si tratta di imbastire un nuovo racconto, e in questo è importante il ruolo che giocano gli altri."

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Tanto di ciò che c'è da fare, secondo Mustacchi, è già contenuto nella Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità: "La società deve riconoscere il disabile come parte di sé e non come un corpo estraneo, e deve riconoscere che dipendenza non vuol dire mancanza di autodeterminazione."

Secondo lui il lavoro delle associazioni è cruciale anche per far riconoscere queste persone non solo come malati, ma come portatori di disabilità. "Accettare di essere malati è più facile," dice a VICE News. "Ma se non si accetta la disabilità, tanti diritti e risorse non sono prese in considerazione."

Tendenzialmente, infatti, la nostra società è costruita su immagini di benessere, efficienza, progettualità e fiducia nel domani. Ciò che invece servirebbe, secondo Claudio Mustacchi, è una sensibilità più ampia nel legittimare la fragilità.

"La nostra società è impostata su una narrazione spesso illusoria del vincente. Personaggi come Giusy Versace o Marco Sessa vanno benissimo," sostiene il presidente di AICH, "ma che dire di chi non corre la maratona? Non si deve essere per forza eroi per affermarsi. E questo naturalmente vale anche per i portatori di disabilità. Bisogna fare attenzione agli eroismi!"

Per buona parte della nostra vita dipendiamo dagli altri. Nell'infanzia siamo accuditi, e almeno in parte, se siamo fortunati, anche durante la vecchiaia. Il messaggio di Claudio Mustacchi è tenere sempre presente questa fragilità di fondo e iniziare a vedere la malattia come parte della vita – non come il suo contrario.

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Foto di apertura di Luca Cerabona via Flickr in Creative Commons