Tecnologia

Il monopolio di Facebook sta crollando sotto i nostri occhi

Concorrenza, errori e la vigilanza dell’antitrust hanno distrutto i sogni di conquista di Mark Zuckerberg: i social, le criptovalute e il metaverso.
Giacomo Stefanini
traduzione di Giacomo Stefanini
Milan, IT
Facebook crisi monopolio
Chip Somodevilla / Staff via Getty

Ciò che sembrava impossibile soltanto uno o due anni fa—che Facebook diventasse un’azienda tech come tante altre—ora si configura come una possibilità reale.

Per anni, la definizione di successo per molti lavoratori del settore tecnologico coincideva con il lavorare in una compagnia del gruppo FAANG, acronimo che sta per Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google.

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Ma sta emergendo che Facebook—un tempo un monopolio giustamente incolpato di svariati mali della società—sarebbe sul punto di uscire da questo gruppo a causa di anni di cattiva gestione, di incapacità di innovare, di capitali bruciati all’inseguimento di un metaverso che nessuno sembra volere, di un modello di business vulnerabile che Apple sta esplicitamente prendendo di mira e di concorrenti emergenti come TikTok ai quali l’azienda sembra incapace di rispondere.

Ciò che sembrava impossibile soltanto uno o due anni fa—che Facebook diventasse un’azienda tech come tante altre, più o meno—ora si configura come una possibilità reale.

In poco più di un anno, la compagnia ha perso quasi 800 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato, la gran parte dei quali negli ultimi otto mesi. Sia chiaro, l’azienda è ancora una delle più grandi al mondo, miliardi di persone usano i suoi prodotti regolarmente e gli utenti sono in crescita, eppure, secondo la definizione di una proposta di legge antitrust, da mesi si trova al di sotto della capitalizzazione di mercato richiesta per un’azienda “Big Tech.”

Altri 9 miliardi e 400 milioni sono andati persi soltanto negli ultimi tre trimestri, portando le perdite operative di Reality Labs a superare i 31 miliardi.

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La svolta dell’azienda verso il metaverso, con tanto di cambio di nome (Meta Platforms Inc.) e un’infelice campagna pubblicitaria condotta dal pallido avatar digitale del CEO Mark Zuckerberg, ha avuto come risultato un’emorragia di capitale, mentre i suoi prodotti di base—Facebook, Instagram e WhatsApp—sembrano tutti mostrare gravi vulnerabilità. Reality Labs, la squadra di Facebook dedicata al metaverso, ha bruciato 4 miliardi e mezzo di dollari nel 2019, 6 miliardi e 620 milioni nel 2020 e 10 miliardi 190 milioni nel 2021 (in totale fa più di 21 miliardi).

Parlando della situazione economica in febbraio 2022, il direttore finanziario David Wehner ha dichiarato che queste perdite operative sarebbero “cresciute significativamente” quest’anno. E così è stato. Altri 9 miliardi e 400 milioni sono andati persi soltanto negli ultimi tre trimestri, portando le perdite operative di Reality Labs a superare i 31 miliardi. Divulgando la situazione economica del terzo trimestre, Wehner ha previsto che “le perdite operative di Reality Labs cresceranno significativamente di anno in anno.” Le azioni di Meta sono crollate di circa il 70 percento nel 2022.

Stando a ogni indicatore, il metaverso è una terra desolata senza anima viva. Nonostante il massimo contributo dato da Zuckerberg sia stato l’idea di aggiungere le gambe agli avatar, il creatore di Facebook giura che questo nuovo mondo che sta costruendo sarà pronto tra 10 o 15 anni.

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L’ossessione di Zuckerberg per il metaverso è un problema enorme, ma ci sono questioni fondamentali riguardanti il core business dell’azienda che fanno pensare che Meta non sarà in grado di mantenere per sempre senza sforzo le due riserve di soldi che sono Facebook e Instagram, e c’è anche motivo di preoccuparsi per il futuro di WhatsApp come app di messaggistica più usata al mondo.

Una lezione da un vero monopolio: Apple

Il core business pubblicitario di Facebook sta lanciando alcuni segnali di allarme grazie a un altro monopolio più consolidato, che ha lungamente rappresentato una spina nel suo fianco: Apple.

In un’assemblea interna a fine primo trimestre, Facebook aveva riferito che i cambiamenti applicati da Apple alle norme sulla privacy del sistema operativo iOS—che avrebbero reso più arduo raccogliere dati sugli utenti ad applicazioni terze come Facebook—sarebbero stati un “vento contrario piuttosto significativo per i nostri affari” fino a costare 10 miliardi in profitti dalla pubblicità in un anno.

Nell’assemblea di fine secondo trimestre, Zuckerberg ha messo in guardia l’azienda su un “declino economico che avrà un vasto impatto sul settore della pubblicità digitale.” E infatti, negli ultimi quattro trimestri, i guadagni dal settore pubblicitario di Facebook sono diminuiti: 33,67 miliardi (Q4 ‘21), 26,998 miliardi (Q1 ‘22), 28,152 miliardi (Q2 ‘22) e 27,2 miliardi (Q3 ‘22). 

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Per gli investitori alla ricerca di profitti extra da realizzare tramite scambi e investimenti, tutto questo rende un quadro tetro e scoraggiante. I guadagni di Facebook sono andati diminuendo per due trimestri consecutivi, i costi e le spese sono in aumento, il margine di profitto è in caduta libera, i guadagni netti sono stati tagliati sostanzialmente e così gli investitori si sono trovati costretti ad abbandonare la nave, facendo scendere il prezzo delle azioni di quasi il 70 percento.

All’inizio del quarto trimestre, Apple ha annunciato un altro cambiamento che toccherà Facebook, e cioè che avrebbe iniziato a considerare l’acquisto di spazi pubblicitari all’interno della app Facebook come un “acquisto digitale” e quindi soggetto alla commissione del 30 percento a favore dell’App Store.

È ancora troppo presto per dire quali saranno le conseguenze per Facebook, ma di sicuro non saranno positive. Ciò è importante per diverse ragioni: Facebook guadagna più denaro per utente in Nord America che in ogni altra regione, e gli americani oggi usano più l’iPhone che i telefoni Android—e la sua fetta di mercato è in espansione in tutto il mondo. Gli utenti iPhone, inoltre, sono in media più ricchi e quindi può risultare più costoso acquistare spazi pubblicitari mirati a loro.

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L’ascesa dell’iPhone negli USA e nel mondo potrebbe, a un certo punto, rappresentare un problema per Facebook nel caso gli utenti WhatsApp cominciassero a migrare verso iMessage o altre app di messaggistica.

Una piattaforma pubblicitaria

Reels si è dimostrato un disastro, e gli utenti ci passano meno del 10 percento del tempo che passano su TikTok.

Ma a parte la schadenfreude, perché tu e ogni persona che conosci dovreste interessarvi al fatto che Zuckerberg abbia perso 100 miliardi di dollari del suo patrimonio personale?

Come fa notare Malcolm Harris in un ottimo articolo su New York Magazine, ci sono alcune persone che guardano questo scenario attraverso la lente del “tecnofeudalesimo,” che sostiene che le aziende capitaliste hanno trasformato i monopoli in estesi piani di estrazione di dati e di rendita.

Da questa prospettiva, la marcia di Facebook verso l’onnipotenza risulta inevitabile—ma esaminando questo punto di vista più da vicino, potremmo renderci conto che assomiglia molto ad una auto-mitizzazzione tipica della Silicon Valley molto lontana dalla realtà.

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"Facebook è assai più piccola di come la dipingono i tecnofeudalisti,” scrive Harris. “È una piattaforma che offre spazi pubblicitari spremendo centesimi dai momenti morti nell’attenzione degli utenti che altrimenti andrebbero sprecati, almeno dal punto di vista capitalista.”

Per molto tempo il cuore di Meta è stato Facebook, con la sua piattaforma pubblicitaria mascherata da social network. Le sue grandi manovre per aggiudicarsi il monopolio digitale al di fuori di Facebook si sono configurate come acquisizioni o cloni di prodotti dei concorrenti. Instagram è stata comprata per un miliardo di dollari nel 2012, Oculus VR per due miliardi nel 2014 e WhatsApp per 19 miliardi nel 2014.

Queste decine di acquisizioni non servivano soltanto a solidificare l’offerta di Meta, ma al contempo a eliminare la concorrenza e le possibilità di buyout—e quando comprare era fuori discussione, entrava in gioco l’opzione di creare un clone del servizio concorrente. Vale la pena ricordare Portal, il clone di Amazon Echo che è stato recentemente messo fuori commercio, e Reels dentro Instagram, un clone di TikTok che è stato recepito male tanto dagli utenti quanto dagli inserzionisti.

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Reels si è dimostrato un disastro, e gli utenti ci passano meno del 10 percento del tempo che passano su TikTok. Nessuno dei cloni di Facebook ha avuto particolare successo dalla nascita di Instagram Stories nel 2016. Molto semplicemente, secondo diversi parametri, Facebook sta prendendo una sonora legnata da TikTok.

Monopolizzare il metaverso o scomparire nell’irrilevanza

Mentre Facebook, pur essendo ancora estremamente popolare in tutto il mondo, comincia a puzzare di vecchio e viene sempre più usato da persone di età avanzata (è dimostrato che i teenager americani non lo usano per nulla), Instagram è regolarmente considerato una piattaforma meno disastrosa, seppure i suoi utenti più famosi e seguiti siano esplicitamente in rivolta contro di essa. Nel mezzo di tutto ciò, Facebook si lancia sull’ultima acquisizione alla disperata ricerca di costruire un monopolio: la realtà virtuale, che però si sta rivelando un pozzo divora-soldi senza fondo.

Si tratta di uno sbalorditivo cambio di rotta per un’azienda che in passato ha potuto ambire a colonizzare la vita degli utenti anche al di fuori della sua app. Esiste un lungo elenco di progetti in cui Facebook ha investito le sue apparentemente infinite risorse nel tentativo di consolidare un monopolio. Facebook ha cercato di cambiare radicalmente alcuni aspetti delle nostre vite facendo operare alcune piattaforme in un certo modo proprio perché ha trasformato il potere economico in altre forme di potere.

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Gli esempi vanno dall’inoffensivo al mostruoso: il “passaggio al video” che ha trasformato intere redazioni ed era basata su dati falsi, il taglio dei contributi agli editori americani per concentrare le forze sui creator, un tentativo fallito di introdurre lo shopping su Instagram, una app di dating che sembra essere tornata nel dimenticatoio silenziosamente come era arrivata, droni e satelliti che dovevano portare internet dappertutto e invece erano ferrivecchi e un sistema di moderazione contenuti che ha radicalizzato gli utenti e incoraggiato un genocidio.

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A un certo punto, Facebook ha addirittura cercato di monopolizzare il sistema monetario globale con Libra, una criptovaluta globale basata su un paniere di valute e beni (ad es. una stablecoin) e Calibra, un portafogli digitali per suddetta stablecoin.

Fin da subito, gli enti di controllo di tutto il mondo hanno espresso la preoccupazione che Libra entrasse in competizione con le valute nazionali e ne minasse l’autorità in fatto di politiche monetarie. Parte della proposta di Facebook al riguardo si basava sul fatto che fosse “too big to fail” (troppo potente per non andare a buon fine o venire disgregata) nel contesto di una battaglia geopolitica contro la Cina e le sue aziende tecnologiche.

La promessa di Facebook era che Libra avrebbe esteso il potere del dollaro americano e, pur di non perderla, l’azienda di Zuckerberg ha addirittura ridimensionato i piani fino a trasformarla in una stablecoin, Diem, sostenuta dagli USA, con un portafogli più piccolo (Novi). Ciononostante, il piano è stato messo fortemente in discussione dal Congresso, ucciso silenziosamente dalle autorità finanziarie e finalmente svenduto a una banca mentre il suo direttore sgattaiolava fuori dal retro.

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Qual era il modo giusto per comprendere Libra? Un tecnofeudalista avrebbe potuto vederla come un altro passo nella marcia verso l’onnipotenza. Il progetto era stato annunciato con una coalizione di decine di corporation e organizzazioni no-profit, era spinto da un direttore esecutivo con un’influenza considerevole su Washington e Wall Street e da un’azienda con miliardi di utenti. Eppure è nato morto lo stesso.

Evgeny Morozov—fondatore di The Syllabus e uno dei principali critici del modello tecnofeudale—ha postulato un’ipotesi molto più semplice per spiegare il motivo per cui l’azienda ha cercato in ogni modo di conquistare monopoli inoppugnabili mentre il suo prodotto di base restava indietro: Facebook stava cercando di creare un nuovo core business.

Si interessava alla finanza perché i giganti tech cinesi avevano dimostrato che pagamenti e sistemi di comunicazione vanno bene a braccetto; per competere in mercati stranieri con ditte cinesi ben avviate avrebbe dovuto offrire un suo sistema pagamento-comunicazione; aggredendo direttamente i concorrenti cinesi avrebbe potuto aggirare gli ostacoli burocratici posizionandosi come risorsa strategica in una Guerra Fredda tecnologica con la Cina. Morozov ha scritto che Libra avrebbe anche aumentato considerevolmente il profitto del social network.

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“Certo, Facebook avrebbe dovuto pagare qualcosa ai suoi utenti—ma, in cambio, avrebbe potuto fargli pagare il servizio,” ha scritto. “Finché tutte queste transazioni avvengono in una valuta sotto il suo controllo implicito—e se Facebook riesce a convincere gli utenti che i loro dati, da soli, valgono meno del servizio che alimentano—non si tratterebbe di un cattivo risultato per l’azienda.”

Insomma, Facebook stava prima di tutto seguendo una strategia di diversificazione del suo business cercando allo stesso tempo di tenerlo al riparo dallo scrutinio dell’antitrust. Questa opportunità gli è stata negata, ma il bisogno di un cambio di rotta è ancora ben presente—specialmente visto che i controlli antitrust sono aumentati rispetto ai tempi di Libra.

La dedizione di Facebook al progetto del metaverso, nonostante la sua irrealizzabilità e il declino delle entrate pubblicitarie, fa pensare a una deriva più che a un’ambizione. Stiamo assistendo alla riformulazione di una mossa tanto necessaria quanto disperata da parte di un’azienda che cerca di conservare un ruolo chiave nell’economia digitale, con o senza gli inserzionisti. La finanza è stato il primo tentativo, un deprimente simulacro digitale del mondo reale è il secondo.

Facebook non è ancora caduto

Facebook resta una forza gigantesca che ha diffuso una quantità sconfinata di disinformazione e menzogne in tutto il mondo

Ogni volta che Zuckerberg è stato trascinato a parlare davanti al Congresso, ha sostenuto con forza che Facebook non sia un monopolio e come sia invece in lotta contro una nutrita concorrenza su Internet. Era difficile da immaginare, in quel momento, che Zuckerberg sarebbe passato dall’essere uno stramboide ossessionato dal dominare il panorama dei social media all’essere uno stramboide ossessionato a dare fondo a ogni ultimo centesimo, per diventare il primo posto dove si può giocare a ping pong virtuale con un pesante monitor attaccato alla faccia. Era anche difficile prevedere che questa ossessione avrebbe mandato a fondo la sua azienda.

Ma il fatto che Facebook sembri essere nei guai, per la prima volta nella sua storia, non significa che questo lento declino sia inevitabile, né significa che possiamo lasciarci alle spalle e perdonare i suoi comportamenti e le sue imprese monopolistiche. Facebook resta una forza gigantesca che ha diffuso una quantità sconfinata di disinformazione e menzogne in tutto il mondo, una piattaforma enormemente importante e un’azienda monopolista; il fatto che sia anche un’azienda ormai esageratamente incompetente non giustifica nulla. 

Forse l’impresa più monopolista di tutte è stata Free Basics, un programma che doveva fornire l’accesso a internet “gratuito” per gli abitanti di paesi in via di sviluppo—gratis, a patto che l’internet in questione fosse Facebook. L’eredità di Free Basics e il semplice fatto che ampie fasce della popolazione globale interagiscono tuttora con Facebook o con piattaforme di sua proprietà come unico accesso a “internet” possibile è profondamente preoccupante e resta un pericolo.

All’interno di questa visione di Facebook, però, c’è un motivo per fermarsi ed essere contenti. Nonostante sia ancora un leviatano che può usare e userà il suo potere con gravi conseguenze per noi, è anche un leviatano fragile che sta appassendo e deve convincere investitori che non hanno alcun interesse verso i prossimi tre piani quinquennali di Zuckerberg per fronteggiare la Cina e costruire una vena di profitto indipendente dalla pubblicità.

C’è una possibilità, se non è già una realtà, che nel prossimo futuro Meta diventi soltanto un’azienda tra tante invece di un monolite in grado di cambiare i connotati al mondo, perché sarà superata in furbizia e successo da monoliti più competenti, schiacciata dalla hybris del suo stesso amministratore delegato.

In secondo luogo, gli enti regolatori sembrano aver capito bene il suo piano, almeno in parte: la Federal Trade Commission ha già portato avanti mozioni per impedire a Facebook di acquisire aziende che potrebbero contribuire al metaverso di cui a questo punto ha disperatamente bisogno per funzionare.

Infine, la disfatta di Meta è un’altra opportunità per spronare le persone a riflettere sulle alternative tecnologiche che ci vengono offerte e a incoraggiarne di nuove, per impedire a Facebook di rinforzare la sua morsa sulla cultura e impedire a nuove aziende di ricreare la stessa situazione. Che tipo di piattaforme per la comunicazione, i pagamenti e i social media vogliamo davvero—specialmente se non le disegniamo con in mente al primo posto i soldi degli inserzionisti? Quali tecnologie dovrebbero avere la libertà di espandersi e quali andrebbero limitate?

L’errore di calcolo di Facebook riguardo la sua abilità di buttarsi nella finanza come nuovo ramo d’attività, sommata all’errore di calcolo sulla pazienza degli investitori riguardo al metaverso come nuovo ramo d’attività, sommata alla destrezza di Apple nell’usare il suo monopolio per danneggiare il core business di Facebook hanno trascinato Facebook, nel mercato e negli occhi dell’opinione pubblica, fino al punto più basso dalla sua fondazione.

Se le istituzioni o la concorrenza (o noi, il pubblico) saranno in grado di approfittare di questo momento di debolezza, tuttavia, è tutta un’altra storia.