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Attualità

Il film Gli Sdraiati è ancora più brutto del libro Gli sdraiati

E non era missione facilissima.

Ci sono diversi aspetti della mia personalità che riconosco essere piuttosto particolari. Per esempio: sono lettrice—sì, nonostante ne riconosca gli scivoloni—di Michele Serra, tendo ad apprezzare libri brutti e a trovare conforto nelle commedie italiane banali e recitate male. Posso trovare spiegazioni razionali a tutte queste cose, ma non credo sia questa la sede.

Per adesso, questa premessa mi serve piuttosto a chiarire da che pulpito nasce quest’articolo. Ho letto il libro di Serra Gli Sdraiati poco dopo la sua uscita, e l’ho trovato di una bruttezza accettabile, quasi rassicurante, in linea con il Serra scrittore che poi avrei trovato anche nel suo libro successivo, Ognuno Potrebbe.

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Un paio di giorni fa sono poi andata a vedere Gli Sdraiati, il film tratto dallo stesso libro. Ho passato quasi tutta l’ora e quaranta della durata (avevo anche mangiato troppo a cena, era anche lo spettacolo delle 22:30 e c’erano anche zero gradi fuori) a imprecare—contro registi, attori, casa di produzione, Serra. Anche contro le altre persone in sala (quattro) che guardando il film non imprecavano.

In un colpo solo, il film Gli sdraiati è riuscito infatti a rendere ancora più brutto un libro brutto, a banalizzare temi estremamente complessi quali il rapporto padre-figlio e lo scontro generazionale e a unire tutti i cliché del cinema italiano. Ma perché, direte voi, rischiare così grosso?

A spingermi ad andarlo a vedere è stata forse la curiosità di capire come i temi attorno al quale ruotava il libro fossero stati adattati al grande schermo. Se, a distanza di diversi anni, gli adolescenti venissero sempre dipinti come delle anime in pena sociopatiche e alienate dai loro tablet. E anche se tutti questi discorsi sugli adulti che non sanno più crescere e sulla genitorialità orizzontale trovassero una loro rappresentazione in una commedia.

Alla regia c’è Francesca Archibugi—che ha lavorato a film come La pazza Gioia, Nel nome del figlio—che ha scritto la sceneggiatura insieme a Francesco Piccolo. Non c'è traccia invece di Michele Serra, ed effettivamente fin dai primi minuti appare chiaro che Gli Sdraiati in versione cinematografica ha ben poco in comune con il libro: si aggiungono molti fatti e personaggi, dal flusso di coscienza si passa all’azione esasperata, cambia il punto di vista dal quale la storia viene narrata. Cambia tutto, al punto che non ho potuto fare a meno di chiedermi da dove nascesse la scelta di mantenere lo stesso nome—se Serra avesse il copyright su tutte le storie padre-figlio, o se si è trattato di marketing.

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Qualunque sia la risposta, la trama del film è questa: Giorgio Selva (interpretato da Claudio Bisio, che aveva portato il libro in scena già con uno spettacolo a teatro) è un noto giornalista, presentatore di un programma Rai. Tito, il figlio 17enne, è un adolescente che vive a metà tra le case dei genitori, divorziati in seguito a un tradimento del padre. Giorgio è paranoico e moderato, incapace di gestire le relazioni con le donne e di dimenticare la ex moglie. Tito passa il tempo a fare quello che fanno gli adolescenti: non risponde alle chiamate del padre, si innamora di una sua compagna di classe, è distratto ed egoista.

Idealmente, il film vorrebbe mostrare il conflitto padre-figlio e come le vite dei due protagonisti siano accomunate dalle tante difficoltà quotidiane e dalla fatica nel gestirle. Il problema è che non riesce in nessuno di questi intenti.

La prima criticità è che nessuno dei temi che si prefigge di affrontare emerge in modo naturale. Al contrario, tutto è reso esplicito e viene introdotto in modo forzato con dialoghi spesso surreali, e un affollamento di personaggi e avvenimenti.

I tentativi di contatto del padre e le barriere che Tito erge di fronte a essi si traducono a ruota in reazioni esagerate di quest’ultimo e in una serie di situazioni nelle quali anche l’adolescente più stronzo difficilmente metterebbe il padre. Per assicurarsi che il tema dello scontro generazionale sia visibile, poi, Giorgio Selva si esibisce in un monologo nel quale racconta un suo sogno di una battaglia tra giovani e adulti, completamente avulso dal resto del film. Gli errori del padre e le ragioni del figlio sono resi espliciti anche in una seduta di gruppo con uno psicologo, nella quale Tito miracolosamente per la prima volta si apre.

Ma soprattutto, a rendere il film quasi fastidioso, sono i ruoli stereotipati che trasformano i personaggi in cartonati bidimensionali incapaci di suscitare alcuna empatia. Oltre ai già citati protagonisti, a cadere nello stereotipo ci sono il nonno giovanile e comprensivo, la madre intelligente e ferita, la donna delle pulizie con cui il marito l'ha tradita, il gruppo degli amici del figlio, ognuno dei quali è l’archetipo dei diversi personaggi che ci si aspetta di trovare in un gruppo di adolescenti. E via dicendo.

Anche se la regista ha dichiarato che “il film non è generazionale”, che non vuole generalizzare ma raccontare un rapporto in particolare, quello dei due protagonisti, in fondo il risultato è l’ennesima occasione sprecata. Nonché l’ennesima incarnazione di un altro stereotipo: il libro è sempre meglio del film.

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