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La gente è incazzata con FIFA 17 perché è costretta a giocare con un personaggio nero

L'ultima edizione del famoso video game include anche una nuova modalità immersiva, nella quale il giocatore interpreta una giovane promessa della Premier League. Solo che è di colore.
Paul Pogba in FIFA (immagine via EA Sports).

È ufficiale: il razzismo non è più una piaga del calcio.

O almeno è ciò che ha deciso la FIFA venerdì scorso, dopo aver annunciato la chiusura della sua task force anti-razzista dichiarandone il successo.

Ironico, a giudicare dalla realtà — che parla di cori razzisti contro calciatori di colore nella Scottish Cup, che li ha portati a richiedere di uscire dal terreno gioco. Per citare l'episodio più recente, non meno di qualche giorno fa.

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Con tempismo perfetto, un altro caso che coinvolge calcio e razzismo sta andando in scena in proprio queste ore, e riguarda uno dei videogame tra i più noti: FIFA 17.

Lanciato in questi giorni da EA Sports, il gioco quest'anno include una nuova feature: la modalità "The Journey", nella quale l'utente gioca nei panni di giovane alle prime armi nella Premier League inglese col nome di Alex Hunter.

Cominciato il livello, il giocatore ha una serie limitata di opzioni: può scegliere la squadra, può scegliere il ruolo, ma non può scegliere il colore. Ed è nero.

A qualcuno la cosa non è andata giù, per qualche ragione. E ancora prima del lancio del gioco, dopo la pubblicazione del trailer, si potevano leggere dei commenti di stampo razzista.

Sin da piccolo sono stato per anni l'unico e il solo nero dei campetti, quindi l'idea che ci sia qualcuno che mi somigli in un gioco sulla Premier League non mi dispiace per niente — anche se, ovviamente, il fatto di non essere un riccio azzurro superveloce non mi ha mai impedito di divertirmi giocando a Sonic, per dire.

Comunque: a quanto pare qualcuno sembra avere dei problemi nell'identificarsi con un ragazzo di colore. In un video gioco. Per qualche ora. Preso dalla curiosità, ho giocato a "The Journey" per un paio di giorni.

Cosa che ho notato subito: diversamente da NBA 2K16, non c'è niente che identifichi la storia come tipicamente black. Il protagonista - interpretato dall'attore Adetomiwa Edun - ha un background proletario, ma non si sofferma mai su particolari riferimenti di tipo etnico o razziale — peraltro Alex, il protagonista, è mezzo bianco da parte di padre.

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Anche il suo amico di quartiere, che diventerà poi suo rivale e che si chiama Gareth Walker, ha una storia simile. Ma è bianco.

In generale, tutta la serie sembra voler evitare accuratamente 'incidenti' razzisti. Certo, per renderlo tristemente reale avrebbero potuto inserire un po' di becero razzismo da stadio qua e là: sarebbe bastato prendere spunto dalla realtà — magari citando qualcuno dei 4mila tweet razzisti dedicati a Balotelli durante la sua ultima stagione al Liverpool, nel 2014-2015.

Insomma: non sarebbe stato così fuori luogo, se l'obiettivo fosse stato essere effettivamente vero.

È la realtà stessa a parlare: le minoranze etniche rappresentano solo il 25 per cento dei calciatori che calcano i terreni di gioco inglesi. In più, secondo un recente studio, solo 23 su 552 allenatori appartengono a minoranze. Altri report ritengono addirittura che i calciatori di colore vengano generalmente posizionati in ruoli offensivi perché reputati meno affidabili dal punto di vista tattico, e quindi non congeniali per ruoli come quello di playmaker.

EA non ha fornito - e probabilmente non fornirà - alcun tipo di discrimine statistico su chi compra il gioco. Non è difficile immaginare, però, che il pubblico sarà il più vario possibile — come già succede per gli spettatori globali della Premier League.

Tornando al gioco, la storia del protagonista si sviluppa attorno a concetti come famiglia, amicizia, tradimenti. Ma non si può personalizzare nulla, né nome né apparenze. Come mai?

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L'ho chiesto a Matthew Prior, direttore creativo di EA Sports. "Ci abbiamo pensato. Ma c'è più di un motivo per cui non l'abbiamo fatto: volevamo prendere la trama parecchio sul serio, che fosse più immersiva possibile. Se cambi il nome, per esempio, il telecronista non ti cita in cronaca, i dialoghi diventano più generici, eccetera."

Quando gli parlo delle critiche mosse contro la scelta 'razziale' del protagonista, mi dice di essere già a conoscenza della cosa. "Sì, sentito," mi spiega, aggiungendo che voleva che somigliasse il più possibile a una storia da Premier League del giorno d'oggi — basta pensare a calciatori come Marcus Rashford e Dele Alli, che EA Sports ha consultato durante lo sviluppo del gioco. Quando giocheranno, continua, le critiche spariranno.

"Come fai a introdurre personaggi come tua madre o tuo padre, nel gioco, se il protagonista l'hai modificato a modo tuo? L'abbiamo pensato come un film, e la cosa avrebbe rovinato tutta la storia."

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La coerenza narrativa è stata un problema per la serie NBA 2K. L'anno scorso, la modalità 'Storia' creata da Spike Lee è stata per lungo tempo al centro delle critiche: permetteva di cambiare il personaggio a proprio piacimento, ma calandolo comunque in un background domestico costruito sullo stereotipo di una comunità nera.

In pratica, per assecondare lo svolgimento più naturale dello storytelling pensato per il gioco, il protagonista avrebbe dovuto esser nero. Ma si poteva cambiare, producendo risultati come questo:

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Nell'edizione di quest'anno, NBA 2K17 ha 'risolto' la cosa rimuovendo la famiglia del protagonista dalla storia: adesso il setting è il dormitorio del college, e si apprende da subito che tuo padre è morto quando eri piccolo. Tua madre non si vede mai in faccia, e interagisce con te solo al telefono.

Quando mandi messaggi, invii solo emoji gialle: la storia più neutrale che potessero pensare.

Ma non è bastato ad allontanare le critiche: dopo aver annunciato la possibilità di poter giocare in modalità 'Storia', su Facebook è cominciato lo shitstorm razzista.

Un utente, nei commenti, lamentava il fatto che pur potendo modificare il personaggio, la voce restava sempre un po' troppo "black". "Un giorno magari capiranno che anche i bianchi giocano in NBA," commentava un altro.

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Dopo la chiusura del board anti-razzismo della FIFA, Paul Mortime - ex calciatore professionista inglese - è sembrato tra i più preoccupati.

Da giocatore di colore, ha avuto a che fare con episodi di razzismo sia in campo che fuori, e dal 2001 - anno del suo ritiro dal calcio giocato - ha cominciato a spendersi in cause anti-razziste.

Oggi lavora con il gruppo anti-razzista Kick It Out (Calcialo via), che chiede da anni trasparenza alla task-force della FIFA e collabora anche con vari gruppi di gamer.

Secondo Mortimer, la mossa di EA sul personaggio di colore è stata "molto coraggiosa."

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Non ha ancora provato il gioco, mi ha detto, ma sa che ci sono state controversie, e spera che la cosa possa rilanciare un dibattito proficuo.

Magari è il massimo che possiamo aspettarci da un simulatore di calcio digitale. Prior non ha voluto parlarmi delle implicazioni sociali derivanti da una scelta del genere. Mi ha spiegato, invece, quanto il gioco in Inghilterra sia popolare. "Solo l'album di Adele ha venduto più di noi, l'anno scorso," mi dice ridacchiando.

Gli ultimi episodi di razzismo nel calcio risalgono a pochi giorni fa. Se FIFA 17 può minimamente dare un contributo alla discussione pubblica - insistendo sul fatto che la storia di un ragazzo di colore possa diventare un'esperienza di gioco per milioni di gamer d'ogni razza -, in fin dei conti, che ben venga.


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