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Perché ai giovani italiani non frega più un cazzo della politica?

Brexit, il voto spagnolo, la situazione italiana: perché la politica non ci interessa più? Ed è davvero così? Abbiamo cercato di capirlo.

All'alba dei primi risultati del referendum sulla Brexit, l'opinione pubblica mondiale - e in particolare quella italiana - si è concentrata sul tema dei giovani: a conti fatti, stando a una prima analisi del voto, sembrava che i giovani dai 18 ai 39 anni avessero votato per il remain, ma che la loro forza elettorale non fosse stata abbastanza determinante da sopravanzare quella degli anziani, tendenzialmente per il leave.

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Morale: i vecchi hanno deciso per i giovani, che adesso si trovano imbrigliati in un sistema che ignora le loro istanze.

Qualche giorno dopo, a una analisi più accurata, si è poi capito che la prospettiva emersa dal voto britannico era in realtà da ribaltare: non erano stati i più vecchi a trascinare le nuove generazioni e la Gran Bretagna fuori dall'Europa contro il loro volere, ma - viceversa - era stata l'astensione di questi ultimi - il 36 per cento tra i 18 e 24 anni, contro più dell'80 degli over 65, per esempio - a regalare agli anziani il peso elettorale decisivo, la wild card.

Risultato: le generazioni più anziane hanno deciso per gli altri, perché questi non hanno voluto decidere.

Lontano da Londra gli esempi - anche piuttosto recenti - non mancano. Secondo diverse analisi demoscopiche, infatti, il voto - o meglio, il non-voto - giovanile avrebbe per esempio sfavorito la lista elettorale di Podemos in Spagna, condizionando fortemente quello che a detta dello stesso leader Pablo Iglesias sarebbe da definire come un risultato deludente.

L'Italia non fa eccezione: alle ultime elezioni amministrative, la partecipazione è arrivata a coinvolgere solo il 62 per cento degli aventi diritto, in una tornata che è stata caratterizzata da picchi d'astensione molto importanti, come quello di Bologna e soprattutto di Napoli. Ma al di là della contingenza amministrativa, da tempo la ricerca accademica si è concentrata sull'abbandono delle urne da parte degli elettori italiani più giovani, evidenziando come - per esempio - solo il 4,2 e il 4,6 per cento dei giovani tra i 15 e i 24 anni, dichiarava di avere fiducia nei partiti e nel parlamento.

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Il tema del disinteresse dei giovani per la politica è in realtà Il Tema da qualche anno a questa parte, e periodicamente monta in modo ciclico nelle agende mediatiche e politiche nazionali, salvo poi scomparire con la stessa velocità. Tuttavia, il punto della questione non è solo il fatto che l'offerta dei partiti è evidentemente ritenuta inadeguata e non rappresentativa per i più giovani, ma che questo disinteresse rischia - come è stato, appunto, nel caso britannico - di essere decisivo per le sorti di una tornata elettorale o referendaria, e - a cascata - per cose di importanza capitale nelle nostre vite quotidiane.

Non c'è bisogno, peraltro, di confrontare il dato elettorale con una tendenza abbastanza acclarata: il disinteresse della nostra generazione per la politica è abbastanza palpabile. Lo si percepisce semplicemente parlando con altre persone, e io stesso - pur informandomi quotidianamente per motivi personali e professionali, seppur non volendo arrogarmi il ruolo di rappresentante di un'intera coorte generazionale - trovo quasi sempre l'informazione politica, sulla politica e sui partiti poco interessante, a tratti semplicemente noiosa. Il problema, però, è che non è sempre stato così.

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Spesso, anche parlando fra i componenti della nostra piccola redazione, ci troviamo a chiederci di cosa scrivere sulla politica, arrivando alla conclusione - molto spesso - che temiamo di non incontrare l'interesse di chi ci legge — cosa che spesso ci viene confermata anche dai dati: a prevalere sono altri temi, spesso anche di rilievo sociale, e quindi in qualche modo politico. Ma mai "la politica."

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Ma perché non ce ne frega più niente, in qualche modo? Di cosa, e come, dovremmo scrivere e leggere per poterci concentrare su certi temi? E davvero la situazione è questa, e fatalmente immodificabile?

"Beh sì, è vero: se penso alla politica tradizionale, e ai cosiddetti corpi intermedi, è evidentemente così" mi spiega Michele Sorice, docente di Democrazia deliberativa e nuove tecnologie e di Political Sociology al Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS "Guido Carli", e Honorary Professor alla University of Stirling, in Scozia.

"Non è poi tanto vero però rispetto ai temi sociali: da parte dell'universo giovanile c'è, in maniera non diversa da quella del passato, una buona percentuale di giovani che partecipa in modo attivo: la cittadinanza sociale e politica si è in qualche modo ristrutturata, e non possiamo più leggerla in base alle vecchie categorie che facevano riferimento solo ai partiti."

In pratica, mentre la politica filtrata dai partiti cominciava gradualmente quanto inesorabilmente ad allontanarsi nelle vite e negli interessi dei giovani, la partecipazione attiva - continua il professore - "non è diminuita, e anzi invece mi sembra ancora di buon livello, anche dal punto di vista quantitativo — basta vedere i numeri sul volontariato, che ci dicono che i giovani hanno ancora una partecipazione attenta."

"Il fatto è che se anche il 50enne non crede più nei partiti," specifica Sorice, "magari continua a pensare che votare sia importante. I giovani, per esempio, questo background storico non ce l'hanno: magari non votano, però si impegnano come e più di prima dal punto di vista civico."

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La tesi mi viene confermata anche dalla professoressa Marzia Antenore, che insegna all'Università La Sapienza di Roma presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale. "Quello della disaffezione giovanile è un po' un luogo comune, che ha però del fondamento. Mancano effettivamente dei ponti che facciano da tramite tra i giovani e la politica: un tempo c'erano partiti o semplicemente luoghi in cui i giovani si incontravano per parlare di politica."

"La partecipazione - come si evince dai dati - non manca, però certamente si sente l'assenza della forte componente partecipativa delle urne — che è comunque uno solo degli aspetti di partecipazione," continua. "Sui social network, per esempio, i cosiddetti giovani parlano di questioni in qualche modo politiche: ma questa sorta di chiacchiericcio poi comunque si trasforma in voto, in qualche modo — o qualcuno dovrebbe prodigarsi per renderla tale."

Foto di Pepe Pont/Flickr, distribuita su licenza Creative Commons.

Capire come si è arrivati a questo punto - il punto in cui chi viene delegato dal corpo elettorale non rappresenta più quasi per intero una generazione - è allo stesso tempo un esercizio banale quanto difficile.

"Ci sono diverse cause," avverte Sorice. "La prima è da imputare alla crisi dei partiti, che sono diventati delle oligarchie, delle macchine di carattere elettorale sostanzialmente autoriflessive, che servono soltanto a vincere le elezioni. Questi gruppi dirigenti inscalfibili impediscono l'accesso di chiunque volesse partecipare alle attività politiche — d'altra parte basta vedere i dati, seppur abbastanza incerti, che riguardano le iscrizioni ai partiti."

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"Poi c'è una responsabilità più generale della politica come istituzione," prosegue. "Mi spiego: la politica non riesce a dare, attraverso le istituzioni politiche, le risposte ai bisogni dei cittadini. E naturalmente i giovani sono quelli che più di tutti pagano questa fase di incertezza: non trovano lavoro, non trovano spazio, non hanno speranze per il futuro, non riescono ad avere una certezza, sono costretti a reinventarsi continuamente."

Tuttavia, si tratterebbe di "un trend globale, in particolare europeo, esasperato dalla crisi economica: accompagna un po' tutte le democrazie," ma a conferma di quanto detto finora, all'interno di queste "non cala la voglia di partecipazione, perché la gente vuole partecipare — penso ai movimenti Occupy negli USA, che sono stati un grande esempio di partecipazione, oppure - sempre negli Stati Uniti - alla grossa mobilitazione di giovani che ha seguito Bernie Sanders."

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Ma cosa succede se un'intera generazione supera, tutta quanta e a piedi pari, un modo di fare politica e di esprimere la propria rappresentanza che si è sedimentato da decenni, e che abbiamo ritenuto essere lo strumento migliore per tenere in piedi una democrazia propriamente detta? Cosa dobbiamo aspettarci da una generazione, come la nostra, che cresce in questa disillusione mentre s'appresta a diventare classe dirigente?

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"Intanto," mi ferma subito la professoressa Antenore, "sui giovani è necessario non generalizzare, perché sono sì una categoria anagrafica, ma poi a livello sociologico si tratta di persone molto diverse. Poi bisogna cominciare a pensare che un'intera generazione non diventerà mai 'classe dirigente', nel senso che lo sarà solamente una piccola parte privilegiata. Ma la politica - e qui sta la parte difficile - dovrebbe rivolgersi anche a persone che non diventeranno mai classe dirigente, spingerle a partecipare."

"È chiaro - spiega Sorice - che una società per essere governata ha bisogno di organizzazioni - che si chiamino partiti o meno - per svolgere una funzione di tramite tra cittadini e istituzioni. Io credo che, inevitabilmente, anche le generazioni più giovani dovranno prima o poi adattarsi: lo scenario che vedo - e voglio essere ottimista - è che i giovani potranno portare un modo nuovo di fare organizzazione politica, magari attraverso forme dal basso, partecipate, che riscoprano meccanismi di democrazie deliberativa e partecipativa. Magari l'esito non sarà così disastroso."

La partecipazione stessa è in qualche modo la soluzione per scardinare questo meccanismo inceppato. È per questo che, secondo entrambi i professori, sarebbe proprio quella la chiave per ridurre la distanza tra giovani e politica, tra partiti e cittadinanza attiva. "I partiti dovrebbero perdere il loro carattere oligarchico e cercare di coinvolgere i cittadini," spiega Sorice. "Ma non semplicemente chiamandoli a votare: dovrebbero aprirsi anche ai bisogni, alla domanda. Questo non l'hanno ancora capito, ma è qualcosa che potrebbe contribuire ad allargare la partecipazione democratica."

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Poi, cosa ancora più difficile quanto necessaria, "serve uno sforzo culturale," prosegue Sorice. "Provare a educare le giovani generazioni - i bambini di adesso - all'importanza del bene comune, della necessità del costruire insieme un futuro — anche perché, se pensiamo anche solo utilitaristicamente, un futuro costruito insieme è migliore di quello con uno scenario di conflitto."

"Non è facile - continua - ma bisogna che qualcuno sia assuma questa responsabilità quasi pedagogica, e mi sembra che oggi la politica non voglia farlo. Ecco, uno dei motivi per cui i giovani si sono allontanati: la politica non guida il cambiamento come dovrebbe."

"Bisogna produrre vicinanza," continua Antenore. "Però c'è anche da dire che questa 'vicinanza' è anche - e troppo spesso - evocata: pensiamo alla retorica della giovinezza, che da sempre è anche un espediente politico. 'I giovani sono il nostro futuro', si dice, però poi quando ci sono dei provvedimenti normativi o legislativi vengono sistematicamente ignorati — si pensi per esempio alla riforma universitaria."

O, aggiungo io, alla colonizzazione del linguaggio "giovanile" da parte della politica, tra una rottamazione e un nemico da asfaltare.

"È necessario disinnescare questo processo per cui c'è una retorica narrativa giovanilistica e poi dall'altra parte una strategia operativa conservativa che non trova consenso," conclude Antenore: "Insomma, i giovani sono giovani, ma non sono stupidi: capiscono di esser chiamati a votare come corpo elettorale, ma di non esser considerati come cittadini veri e propri."

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