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crisi dei migranti

Ecco perché l'Italia vorrebbe affidare la gestione delle sue frontiere in “outsourcing”

L'esternalizzazione dei confini è un'idea vecchia di trent'anni: se ne parlerà a novembre a Malta, dove potrebbe concretizzarsi un potenziale “grande affare” anche per le casse dei regimi africani.
Foto di L(Phot) JJ Massey/Royal Navy

Quattordicimila e cinquecento profughi stanno attraversando la Slovenia, diretti verso il Nord Europa. Lubiana ha chiesto l'aiuto di forze militari europee (400 in tutto) per gestire una situazione mai vista in un Paese che fino allo scorso anno ha accolto soltanto 320 persone tra richiedenti asilo e rifugiati.

Il flusso migratorio che picchia sull'Europa sta mostrando il ventre molle dell'Unione—conflitti interni per le responsabilità della gestione, nessun coordinamento, soluzioni estemporanee che permettono facili consensi politici, come "l'apertura" di Angela Merkel per 800.000 richiedenti asilo in Germania.

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Per i siriani, la "novità" degli ultimi anni, una soluzione si trova. Per eritrei e somali, migranti da sempre verso le coste dell'Europa, no.

Fino a oggi si è sempre scelta la via dello scaricabarile di responsabilità: i paesi del Nord riempivano di fondi per i rifugiati quelli del Sud, a patto che gestissero la materia senza ripercussioni sugli altri.

Oggi il metodo, molto simile, è quello della flessibilità economica promessa da Jean Claude Juncker a chi si occupa dei migranti. La differenza, ora, è che i paesi del Sud stanno cercando di subappaltare la gestione dei flussi di accesso a chi è fuori dai confini Ue.

Così, durante il suo semestre di Presidenza della Commissione europea, nel novembre del 2014, l'Italia ha rispolverato un'idea vecchia di 30 anni: l'esternalizzazione delle frontiere.

In sostanza, esternalizzare le frontiere significa chiedere ad un'autorità non europea di gestire le frontiere dell'Ue, facendo in modo che impedisca ai migranti di raggiungerle.

Una gestione in "outsourcing"—un po' come avviene quando un grande operatore telefonico italiano apre un call center in Albania per garantirsi lo stesso servizio a un prezzo inferiore. Soltanto che in questo caso il "servizio" è la gestione dei migranti, e il risparmio sta nel non dover pattugliare le frontiere in prima persona.

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La "scusa" affinché questo processo sia avviato è la lotta ai trafficanti di uomini: in cambio di centri di transito, Bruxelles offre fondi per la cooperazione internazionale e l'addestramento delle forze militari locali.

L'ultimo tentativo si chiama Processo di Khartoum, che tra l'11 e 12 novembre entrerà nel vivo a La Valletta. Nella capitale maltese si terrà infatti un meeting tra funzionari dell'Unione europea e alcuni dei Paesi di frontiera (sicuramente Eritrea, Etiopia, Sud Sudan e Sudan). Parteciperanno anche agenzie internazionali, come l'Unhcr e l'Oim.

Sulla carta, il Processo di Khartoum appare una soluzione interessante, ma la storia insegna che nei fatti queste operazioni sono finora servite spesso come finanziamento - indiretto - ai regimi dei peggiori dittatori dell'Africa. Un modo per conservare lo status quo, a patto che il problema sia arginato.

Isaias Afework è presidente dell'Eritrea dal 1993, anno dell'indipendenza. Ha imposto il servizio militare obbligatorio per alimentare una guerra senza senso con l'Etiopia, ha introdotto nuove tasse per le famiglie con membri emigrati. Per queste regioni, in migliaia fuggono dal suo Paese.

Ed è proprio lui che l'allora viceministro degli Esteri Lapo Pistelli (oggi all'Eni) incontrò nel luglio del 2014: "Sono venuto ad attivare un cammino di cooperazione su tutti i settori di reciproco interesse, nella consapevolezza che in questa parte della regione originano molti dei problemi di sicurezza e migratori che si manifestano poi da noi. E per farlo ho voluto chiarire personalmente anche al presidente Isaias qui ad Asmara che l'Italia è pronta a mostrare una disponibilità nuova, che saprà certamente attivare quella fiducia reciproca che è mancata tra di noi da tanti, troppi decenni ormai." L'inizio ufficioso del processo di Khartoum.

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Dopo La Valletta si chiariranno anche gli strumenti finanziari per sostenere i progetti di cooperazione nei Paesi coinvolti. Finora sul piatto c'è l'Emergency Trust Fund for Stability, un fondo fiduciario di cui si fa garante l'Europa e che dovrebbe arrivare a disporre di 1,8 miliardi di euro.

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A questo si aggiungono altri fondi che i Paesi membri investono nella cooperazione con i Paesi d'origine. Per far vedere che l'Italia crede nel Processo di Khartoum, in ottobre il Consiglio dei ministri ha messo a disposizione 38,5 milioni di euro per "iniziative di cooperazione" e per la "ricostruzione" di Sudan, Sud Sudan, Libia, Repubblica Centrafricana, Somalia, Mali e Niger. In più, l'Italia ha aggiunto sei milioni per la crisi dei rifugiati dal Sud Sudan al Sudan.

Quello di La Valletta "è un passaggio importante, ma non si devono commettere gli errori del passato. Per il piano di azione sono ancora in corso i negoziati pre summit, il Processo finora è andato a rilento, ma La Valletta sarà un incontro chiave," spiega a VICE News Eugenio Ambrosi, direttore regionale europeo dell'Organizzazione internazionale delle migrazioni.

Il pericolo "è sviluppare la politica di aiuto che serve all'Europa e non ai Paesi africani coinvolti," aggiunge Ambrosi, finché questo non accada.

Ancora una volta, la storia recente si porta appresso brutti ricordi. Tra il 2009 e il 2010 ci si è ritrovati pressoché senza barconi: i dati in Italia parlano di 9.573 sbarchi nel 2009 e 4.406 nel 2010. Il "merito" è dei respingimenti sistematici, per cui siamo stati condannati dalla Corte di giustizia europea a un risarcimento di 15 mila euro per 22 vittime del sistema italiano.

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L'Italia aveva allora un accordo con la Libia, Paese nei cui centri di detenzione per migranti non esisteva più alcuna tutela dei diritti. La scelta politica era targata Silvio Berlusconi e Roberto Maroni, allora ministro dell'Interno.

L'accordo, in quel caso, andava molto oltre il blocco dei migranti: fu un grande affare per Finmeccanica. La controllata Selex costruì infatti il sistema di controllo delle frontiere libiche (una commessa da 300 milioni di euro divisa, fifty-fifty, tra Italia ed Europa) e si legò poi alla Lybian investment authority per costruire una joint venture con un giro d'affari stimato in 15 miliardi di euro.

Il rischio connesso all'Emergency Trust Fund è che anche questo scenario si ripeta: a mettere soldi per la gestione delle frontiere saranno di certo paesi che pretenderanno qualcosa in cambio, al di là della questione sicurezza. Se non per loro stessi, almeno per le grandi controllate di Stato.

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Foto di apertura via Wikimedia Commons