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Libia

L’Italia è in guerra in Libia ma ancora non lo sa

In pochi sembrano essersene accorti, ma l’Italia ha già cominciato la sua guerra libica. E come nel 2011, sono francesi, britannici e americani a condurre il gioco.
Foto di joepyrek/Flickr

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In pochi sembrano essersene accorti, ma l'Italia ha già cominciato la sua guerra libica.

Come nel 2011, quando le forze internazionali intervennero contro Gheddafi, anche oggi sono gli alleati - francesi, britannici, americani - a condurre il gioco, lasciando il nostro paese nella scomoda posizione di fornire supporto logistico a strategie decise da altri.

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Quella in atto, tuttavia, è una guerra profondamente diversa da quelle del passato.

La situazione sul terreno in Libia

Nel 2014, tre anni dopo la destituzione di Gheddafi, le fazioni rimaste sul territorio si sono suddivise il territorio — un po' come succede tra bande rivali nei film polizieschi. Gli anti-gheddafiani che avevano lavorato per Gheddafi si concentrarono ad est, mentre gli islamisti 'duri e puri' conquistarono Tripoli, distruggendone l'aeroporto internazionale.

Il paese ha oggi tre governi. A Tripoli siede una coalizione tra islamisti e milizie dell'ovest della Libia, non riconosciuta da nessun paese. A Tobruk c'è invece il governo degli anti-islamisti, la Camera dei Rappresentanti, riconosciuto dalla comunità internazionale. In Marocco infine si trova il Consiglio Presidenziale del primo ministro in pectore del Governo di Unità Nazionale, l'ex architetto Faiez Serraj.

Secondo gli accordi di pace firmati in Marocco il 17 dicembre scorso sotto l'egida delle Nazioni Unite, sostenuti anche dall'Italia, Serraj dovrebbe ricevere la fiducia dal parlamento di Tobruk e poi insediarsi a Tripoli, oggi controllata dagli acerrimi nemici di quello stesso parlamento.

Nove settimane dopo gli accordi, tuttavia, Serraj non solo non è diventato Primo Ministro — è riuscito a entrare in Libia solamente per due giorni. Questa settimana l'ex architetto tenterà nuovamente di ottenere la fiducia a Tobruk, dove il parlamento si riunisce per uno o due giorni alla settimana. Ma è possibile che non ci riesca, o che non si raggiunga il numero legale per procedere al voto. Come è successo finora.

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La guerra 'informale' contro IS

Come se la situazione non fosse già abbastanza complessa e instasbile, nell'estate del 2014 è subentrato un nuovo attore: l'autoproclamato Stato Islamico (IS).

Al suo interno ci sono libici che avevano combattuto in Siria, sostenitori del vecchio regime, scissionisti del gruppo jihadista locale Ansar al Sharia e molti, moltissimi stranieri — in primo luogo tunisini.

Finora IS ha conquistato incontrato una resistenza "occasionale" da parte delle milizie libiche, molto impegnate a combattersi a vicenda.

Contro i fondamentalisti è in atto una 'guerra informale' condotta da americani, britannici e francesi. Una guerra mai veramente annunciata, né discussa pubblicamente.

In teoria, Stati Uniti, Regno Unito e Francia hanno sottoscritto la risoluzione ONU 2259 del 23 dicembre che, al punto 12, sottopone ogni operazione anti-jihadista alla preventiva approvazione del governo libico. Il fatto è che, senza un governo, questo 'veto' risulta completamente inesistente.

Già da giugno gli americani conducono raid 'pubblici', come quello del 19 febbraio a Sabrata, mentre si susseguono diversi raid da parte di aerei non identificati. L'ultimo domenica, vicino alla città di Bani Walid.

A corredo di ciò, americani, francesi e britannici hanno truppe speciali sia a Misurata - la grande città più vicina alla zona controllata da IS - sia nell'est del Paese.

L'operazione militare della coalizione però non sembra avere l'ambizione e l'accortezza di affrontare i reali problemi della Libia, di cui IS stesso si nutre: i vasti spazi senza governo e l'abbondanza di armi.

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I droni e il ruolo italiano

Negli ultimi sette giorni, si è tornati a parlare del coinvolgimento italiano nelle operazioni di questa guerra 'informale', attraverso una missione militare di supporto su richiesta delle autorità libiche che coinvolgerebbe corpi militari speciali. Queste informazioni, però, vanno prese con le pinze.

Al momento le forze speciali italiane sono impegnate su altri fronti (per esempio garantire la sicurezza per il Giubileo), e non si capisce cosa possa guadagnare l'Italia da uno scenario che vedrebbe il paese spezzettarsi in microfeudi sempre più piccoli gestiti dalle diverse milizie in campo.

È possibile che queste voci, piuttosto, siano solo il sintomo dell'ansia del governo Renzi di essere lasciato fuori dalle operazioni militari.

Discorso diverso per quanto riguarda i droni, che svolgono un ruolo importante permettendo di sorvegliare il territorio, individuare gli obiettivi e proteggere le truppe speciali a terra. Secondo quanto detto da Matteo Renzi, l'Italia ha concesso l'autorizzazione agli USA per l'uso della base di Sigonella — un utilizzo che sarà valutato "caso per caso" qualora ci siano "delle evidenze che potenziali attentatori che si stanno preparando" ad attaccare. In quel caso, "l'Italia farà la sua parte come tutti gli altri."

Leggi anche: Stupri, esecuzioni, torture: la Libia al collasso è diventata la tomba dei diritti umani

È proprio questa la giustificazione, anche legale, della "guerra informale": la prevenzione di atti terroristici organizzati da un'organizzazione situata all'estero. I raid americani, infatti, si basano su un'interpretazione larga dell'articolo 51 della carta Onu — quello sul diritto all'autodifesa.

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Secondo il ministero della Difesa si tratterebbe di un sostegno logistico ad operazioni difensive. I droni che svolgono anche ruoli 'difensivi', saranno però al servizio delle forze speciali sul terreno, le quali svolgono funzioni offensive contro Daesh.

Il fatto che l'autorizzazione all'uso della base sia dato dall'Italia "caso per caso" offre a Renzi qualche potere contrattuale, che comunque resta tutto da verificare: se il Pentagono già osserva molto poco le indicazioni della Casa Bianca, figuriamoci quale peso possano avere eventuali rimostranze di Palazzo Chigi.

Da quasi un anno, l'Italia si prepara per un altro tipo di intervento armato: la Libya International Assistance Mission (LIAM) doveva essere una grande operazione di addestramento delle nuove forze di sicurezza libiche sotto il comando del nascituro governo di unità nazionale – quello, per intenderci, guidato dal 'fuorisede' Serraj.

Solo che quel governo non si è mai concretizzato e la LIAM è rimasta in standby - gli alleati ci avevano promesso un ruolo guida nella coalizione, come il Ministro Pinotti ripete spesso - e alla fine siano rimasti alla guida di una vettura ferma, mentre cerchiamo di frenare la macchina della guerra informale.

La fine della soluzione politica?

La finzione sostenuta dai nostri alleati è che questa guerra informale non danneggi - ma anzi sostenga - il processo politico che dovrebbe portare alla nascita di un governo di unità nazionale.

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Così per esempio è stato presentato da più parti il raid americano su Sabrata del 19 febbraio, negli stessi giorni in cui il parlamento di Tobruk doveva votare la fiducia al governo unitario. Voto che non c'è stato, anche a causa delle violenze denunciate da molti deputati.

Il problema è che questa guerra informale, dal punto di vista politico, è tutt'altro che neutrale, e scatena invece la gara tra alcune fazioni per diventare i "curdi di Libia" - definizione di un alto funzionario USA - e cioè ottenere lo stesso 'trattamento' promesso ai curdi iracheni: in cambio della lotta a IS, armi e garanzie sull'indipendenza della creazione di un proprio mini-stato.

Dopo il raid di Sabrata, infatti, diversi gruppi hanno presentato la loro "candidatura" per diventare "curdi di Libia". L'esempio più lampante è quello del generale Khalifa Heftar, emule libico del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi e uomo forte di Tobruk.

Con l'aiuto di forze speciali francesi e con nuove armi - arrivate chissà da quale parte del mondo arabo -, nell'ultima settimana Heftar ha conquistato diversi quartieri di Bengasi.

Attorno alla figura di Heftar è bloccato il processo politico: per chi sta a Tobruk, il generale dovrà restare al comando anche con l'esecutivo di unità nazionale mentre chi siede a Tripoli o a Misurata non accetta assolutamente questo principio.

Il parlamento di Tobruk ha già bocciato una volta la lista presentata da Serraj perché includeva un Ministro della difesa sgradito al Generale. L'offensiva su Bengasi e il possibile ruolo di "curdo di Libia" potrebbero essere l'assicurazione sulla vita per Heftar.

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Per risolvere questo rebus, Renzi ha chiesto aiuto all'Egitto, grande sponsor di Heftar e grande alleato del nostro presidente del Consiglio. Ma Sisi in Libia ha due obiettivi: tenere fuori dal governo gli islamisti (e invece col governo Serraj accadrebbe il contrario) e creare una zona cuscinetto tra l'Egitto e lo Stato Islamico.

Per questo scopo, la Bengasi "liberata" da Heftar sarebbe quasi perfetta. Nell'assenza di un governo di unità nazionale, la comunità internazionale continuerà a rapportarsi proprio col parlamento di Tobruk che ha dimostrato più volte di essere fedele al Generale. Ma all'Italia e a gran parte dei libici questo governo non serve a nulla.

Nell'ipotesi remota in cui Renzi volesse sganciarsi da Sisi, potrebbe trovare una soluzione per sbloccare il processo politico. Si tratterebbe di sostenere, che gli egiziani e Heftar lo vogliano o meno, un governo veramente in grado di installarsi a Tripoli, presieduto da Serraj o da un altro personaggio più carismatico.

Nel frattempo, usare il ruolo geografico dell'Italia - Sigonella, ma non solo - per far pesare la propria voce con gli alleati ed evitare un'escalation militare priva di una strategia politica.

Molto difficile, perché si tratta di tener testa a chi dice che contro Daesh in Libia bisogna fare in fretta — ed evita di precisare che spesso sono le proprio le guerre iniziate in fretta a durare più a lungo e a concludersi male.

Leggi anche: L'intervento militare in Libia è sempre più vicino — e stavolta toccherà anche all'Italia


Mattia Toaldo è Senior Policy Fellow presso lo European Council on Foreign Relations

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Foto di joepyrek.jpg) via Flickr, rilasciata su licenza Creative Commons