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Amedeo Guillet, il "comandante Diavolo" del colonialismo italiano in Africa

Quella del colonialismo fascista nel Corno d'Africa è una storia complessa, fatta di crimini di guerra e assimilazione culturale. Ma la storia del tenente Amedeo Guillet è interessante proprio perché si distacca dall'idea del colonizzatore italiano.

Qualche settimana fa stavo organizzando un possibile viaggio nel corno d'Africa. Oltre che guardare il prezzo dei voli e tenere d'occhio la situazione dal punto di vista della sicurezza, ho cercato di approfondire la mia conoscenza—fino ad allora piuttosto sommaria—di quei luoghi. Così mi sono letto un po' di cose sulla storia di Etiopia, Somalia ed Eritrea e inevitabilmente sono finito ad approfondirne il passato coloniale italiano.

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Il modo in cui viene insegnata a scuola la storia del colonialismo italiano nel corno d'Africa è a dir poco riduttivo, tanto da sembrare quasi involontariamente propagandistico. In realtà si tratta di una storia complessa, fatta di crimini di guerra rimossi dalla memoria collettiva—come i bombardamenti con l'iprite di Badoglio o quelli contro gli ospedali della Croce Rossa di Rodolfo Graziani—ma anche di tentativi di assimilazione culturale il cui massimo esempio è l'architettura razionalista di Asmara, capitale dell'Eritrea, considerata da molti la città più bella dell'Africa e in cui ancora oggi si possono vedere edifici come questo o questo.

È stato immergendomi in tutto questo che mi sono imbattuto nella storia del tenente Amedeo Guillet, a metà tra il poema epico e il romanzo picaresco. Guillet, pur muovendosi nel contesto del colonialismo fascista—e senza quindi poter essere giudicato indipendentemente da esso—rappresenta una specie di anomalia rispetto alla figura del colonizzatore italiano a cui siamo abituati a pensare. Ed è proprio in ragione di questa sua diversità che ho deciso di approfondire il personaggio.

Amedeo Guillet (a sinistra) al comando delle Bande Amhara. Tutte le foto per gentile concessione di Sebastian O'Kelly/AmedeoGuillet.com tranne dove diversamente specificato

Nato a Piacenza nel 1909 da una famiglia nobile e monarchica, Amedeo Guillet aveva frequentato l'Accademia militare dove fin da giovane si era fatto notare come cavallerizzo, tanto da essere incluso tra i cavalieri che avrebbero dovuto rappresentare l'Italia alle Olimpiadi di Berlino del 1939. Solo che poco prima dei giochi l'Italia aveva dichiarato guerra all'Etiopia e Guillet era stato mandato nel corno d'Africa alla guida di un plotone di 200 spahi, cavalieri mercenari libici. Qui, per comunicare meglio con i suoi soldati e per conquistarsi la loro fiducia e lealtà, Guillet si era messo a studiare l'arabo insieme ai bambini di una scuola coranica.

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Rientrato in Italia aveva deciso di partire volontario per la guerra di Spagna. Ha raccontato di non averlo fatto per adesione al fascismo—anche se, parlando di quell'esperienza, ha detto che "lo rifarebbe" per non lasciare la Spagna in mano a un governo comunista—ma semplicemente per ottenere sul campo il grado di tenente, grado che altrimenti non avrebbe potuto raggiungere senza sposarsi. Dopo essersi distinto durante la guerra civile spagnola, era stato inviato di nuovo in Etiopia.

Secondo Sebastian O'Kelly, autore di una biografia di Guillet, "Amedeo era un aristocratico. Era un monarchico. Era troppo conservatore per essere fascista." Tuttavia, è abbastanza difficile farsi un'idea di che tipo di persona doveva essere. Ad esempio, nell'unica intervista che si trova su internet—rilasciata pochi anni prima di morire—dice esplicitamente di non essere mai stato fascista, pur senza citare i crimini italiani in Etiopia e dando un giudizio nel complesso positivo del colonialismo italiano: "Arrivare ad Asmara [ nel 1939] è stato commovente: ho trovato una città che era diventata italiana e dove tutti gli eritrei erano affezionati agli italiani. Abbiamo agito bene."

In Etiopia, Guillet aveva il compito di pacificare la regione e sedare le rivolte contro la dominazione italiana. Per fare questo, aveva un'unità di cavalleria multietnica che passerà alla storia con il nome di Bande Amhara, formata da spahi libici, ribelli etiopi, guerrieri delle tribù eritree e soldati yemeniti a dorso di cammello. Intrecciando rapporti con i vari capi tribali—la figlia di uno di questi, Khadija, sarà la sua compagna per praticamente tutto il tempo che passerà in Africa—Guillet era riuscito a ottenere il rispetto della popolazioni locale e a sconfiggere i ribelli. Invece di fucilare gli sconfitti, li aveva arruolati nella sua unità. "'Chi non vuol venire può non venire, chi vuol venire viene. Ma il primo che mi tradisce lo uccido,' ho detto così," ha raccontato.

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Una cartolina celebrativa del reparto guidato da Guillet. Immagine via Wikimedia Commons

Nel frattempo era scoppiata la seconda guerra mondiale e gli inglesi avevano spezzato il fronte italiano in Etiopia. La leggenda di Guillet, che verrà soprannominato dagli inglesi "il comandante Diavolo" era iniziata proprio in questo contesto, durante la battaglia di Cheru. Per coprire la ritirata del grosso dell'esercito italiano, Guillet aveva organizzato un'azione spericolata: una carica di cavalleria contro i carri armati, i blindati e l'artiglieria pesante inglese. Era stata la penultima carica di cavalleria mai lanciata dall'esercito italiano e l'ultima mai affrontata dall'esercito inglese—e anche se respinta nel sangue, era riuscita nell'intento di rallentare l'avanzata dell'esercito nemico.

"Quando la nostra batteria prese posizione, un gruppo di cavalleria indigena, guidata da un ufficiale su un cavallo bianco, la caricò dal Nord, piombando giù dalle colline," ha ricordato un ufficiale britannico presente descrivendo l'assalto. "Con coraggio eccezionale questi soldati galopparono fino a trenta metri dai nostri cannoni, sparando di sella e lanciando bombe a mano, mentre i nostri cannoni, voltati a 180 gradi sparavano a zero. […] Prima che quella carica di pazzi potesse essere fermata, i nostri dovettero ricorrere alle mitragliatrici."

Nonostante questo, però, nel 1941 gli inglesi avevano conquistato Asmara e tutta la colonia italiana d'Abissinia. L'esercito italiano si era arreso, e Guillet si era accorto di essere rimasto isolato e dimenticato dal nemico. Così, insieme a circa 100 soldati superstiti aveva deciso di darsi alla guerriglia. "Bisognava combattere il più possibile," ricorderà poi, "perché più combattevamo più gli inglesi sarebbero rimasti in Eritrea e non sarebbero andati a combattere i nostri in Libia. Quindi abbiamo deciso di combattere fino all'ultimo uomo, e abbiamo continuato a farlo per otto mesi."

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Durante quegli otto mesi Guillet aveva abbandonato la divisa, aveva preso a vestirsi alla maniera locale, si era convertito all'islam e aveva assunto l'identità di un cittadino yemenita rimasto bloccato in Africa dopo il crollo dell'Impero italiano, predendo il nome di Ahmed Abdallah al Redai. I capi tribali eritrei, che preferivano la dominazione italiana a quella etiope, lo rispettavano per il suo coraggio e gli fornivano protezione; gli inglesi invece gli avevano messo una taglia da 1000 sterline d'oro sulla testa, ma lui sarebbe sempre riuscito a sfuggire alla cattura.

Guillet passa in rassegna le Bande Amhara

Secondo la leggenda, più di una volta si sarebbe recato al comando inglese sotto mentite spoglie per fornire false informazioni su se stesso e intascare la ricompensa. In un'occasione, trovandosi in una casa circondata dai soldati inglesi, sarebbe riuscito a fuggire incamminandosi nel deserto e mettendosi a pregare in cima a una duna, ignorando gli avvertimenti dei soldati che lo tenevano sotto tiro e che vedendolo si erano convinti che non fosse la persona che cercavano.

Alla fine, ferito e braccato, si era deciso a sciogliere la sua banda e si era dato alla fuga. Aveva fatto lo scaricatore di porto a Massaua, era stato buttato a mare dai contrabbandieri che dovevano portarlo attraverso il golfo di Aden, era stato derubato da un gruppo di predoni ed era quasi morto di sete nel deserto eritreo, ma alla fine era riuscito ad arrivare in Yemen—dove era finito in carcere con l'accusa di essere una spia degli inglesi.

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"Potevo fare lo yemenita in Etiopia, ma non potevo di certo fare lo yemenita in Yemen," ha raccontato. Appena il governo inglese aveva appreso della sua cattura ne aveva chiesta l'estradizione. Insospettito, il sovrano yemenita, l'Imam Yahya, l'aveva invitato a corte, si era fatto raccontare la sua storia e aveva deciso di ospitarlo affidandogli il comando della sua guardia personale. Dopo un anno a corte, Guillet era riuscito a imbarcarsi con l'inganno su una nave della Croce Rossa diretta in Italia e nel giugno del 1943 è finalmente rientrato in patria.

Anche se gli storici, sopratutto quelli anglosassoni, hanno parlato di lui come di un "Lawrence d'Arabia italiano," secondo Vittorio Dan Segre—che durante la guerra gli aveva dato la caccia in Etiopia e che è poi diventato il suo biografo—Guillet è stato molto di più: "Lawrence D'Arabia aveva dietro di sé un impero che lo sosteneva e milioni di sterline d'oro con cui comprava la fedeltà. Amedeo Guillet non aveva il becco d'un quattrino, non aveva il sostegno di nessun impero e di nessuna forza politica."

Questa mancanza di risorse era compensata dall'apertura di Guillet alle contaminazioni culturali e religiose. Per sua stessa ammissione gli era indifferente pregare secondo il rito cattolico o islamico, e considerava Maometto "un uomo eccezionale" (per le sue scuderie aveva comprato un cavallo che si diceva discendesse da quello montato dal profeta). Le sue Bande Amhara erano formate da uomini di nazionalità, culture e religioni diverse uniti, oltre che dal carisma del loro comandante, dal rispetto di valori condivisi.

Guillet (a sinistra) con un capo tribù etiope a Semien, in Etiopia

Il resto della vita di Guillet è stato meno rocambolesco, anche se ha contenuto comunque più avventure di quante ne viva in media una persona normale. Dopo l'8 settembre ha attraversato le linee nemiche per arrivare a Brindisi, dove ha incontrato il re Vittorio Emanuele III, "l'unico che potesse sciogliermi dal mio giuramento di fedeltà e farmi tornare alla vita civile." Poi si è unito al SIM, il Servizio informazioni militare, e ha fatto la sua parte nella guerra di liberazione. Più tardi è stato ambasciatore in Egitto, Yemen, Giordania, Marocco e India. È sopravvissuto a due incidenti aerei e a due colpi di stato e poi si è ritirato in Irlanda, dove ha trascorso i suoi ultimi anni allevando cavalli.

Nel 2000 è tornato per l'ultima volta in Eritrea, dove gli sono stati tributati i massimi onori ed è stato celebrato pubblicamente come un patriota dell'indipendenza del paese. Nella sua ultima intervista, si è definito così: "Mi considero l'uomo più fortunato che abbia mai visto. Naturalmente ho sofferto, ma la fortuna si paga."

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