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Perché la nostra reazione agli attentati di Bruxelles è stata così diversa rispetto a Parigi

Dopo gli attentati a Parigi dello scorso 13 novembre era sembrato che il mondo avesse smesso di girare di colpo. Ma con gli attacchi a Bruxelles di pochi giorni fa, la percezione è che sia successo qualcosa di diverso.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Manifestazione spontanea in piazza della Borsa a Bruxelles, il 22 marzo 2016. Tutte le foto di Bertrand Vandeloise

Dopo gli attentati a Parigi dello scorso 13 novembre era sembrato che il mondo avesse smesso di girare di colpo, e che la quotidianità di noi cittadini europei non fosse mai apparsa così insulsa e fuori scala rispetto all'orrore delle azioni e alle implicazioni di una tragedia di tale portata.

Con gli attacchi a Bruxelles di pochi giorni fa, tuttavia, la percezione è che sia successo qualcosa di diverso—lo choc iniziale, infatti, è rientrato abbastanza in fretta, e l'attenzione generale è calata già a partire dal tardo pomeriggio del 22 marzo.

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Certo, i giornali e le televisioni hanno continuato a coprire l'evento da qualsiasi angolatura, cercando—tra le altre cose—di individuare le " Molenbeek italiane"; le destre (e non solo) hanno invocato bombardamenti a tappeto; e gli editorialisti hanno provato a entrare nella testa dei terroristi, cercando di afferrarne i motivi più oscuri e reconditi. A questo proposito, qualcuno è arrivato a scrivere che "gli aeroporti non sono cammelli," e che dunque "non essendo previsti dal Corano, sono innovazione, 'bida', eresia" da colpire e distruggere.

Ma al netto di questo, appunto, ho avuto la sensazione che sugli attentati a Bruxelles sia scattata una forma di fatalismo, quasi di rassegnazione, come se si trattasse di un evento tutto sommato normale. Questa volta pochi sono "diventati Charlie," e non c'è stata un'oceanica marche républicaine.

Probabilmente c'entra molto il fatto che gli attacchi siano avvenuti in luoghi come l'aeroporto e la metro di Bruxelles, e che siano stati percepiti quasi come un'appendice di quelli di Parigi—anche perché sono arrivati a pochi giorni di distanza dall'arresto di Salah Abdeslam. Il governo belga, inoltre, ha tenuto un atteggiamento decisamente meno muscolare di quello dell'esecutivo francese: non è stato proclamato lo stato d'emergenza, né approvato alcun provvedimento speciale.

E anche la reazione della società civile belga—in un paese diviso che da tempo attraversa una profonda crisi d'identità—è stata tutto sommato contenuta. "Noi belgi non ci avvolgiamo nella nostra bandiera," ha detto al New York Times un 19enne presente al memoriale spontaneo in piazza della Borsa. "Semplicemente, non facciamo così."

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Memoriale in piazza della Borsa.

In questi giorni, molti osservatori—come ha notato Lorenzo Declich su VICE News—se la sono presa con le falle e l'apparato di sicurezza belga, variamente descritto come uno dei peggiori d'Europa nonché il sintomo più evidente delle disfunzionalità di uno stato sostanzialmente fallito.

Certo, prendersela con il Belgio è molto facile—e in un certo senso è anche rassicurante, perché confina il rischio a un solo paese e ne circoscrive le responsabilità. Dopotutto, scrive il giornalista Jason Burke sul Guardian, questo tipo di attentati sono generalmente "compiuti da persone del posto che hanno attaccato obiettivi locali con materiali e armi ottenuti localmente," e questo nonostante "la visione globale degli ideologi estremisti e la dimensione internazionale attribuita a gruppi come lo Stato islamico o Al Qaeda."

A fronte della resilienza delle reti jihadiste e la crescente sofisticazione degli attacchi (e a questo proposito è impressionante leggere il rapporto della polizia francese su Parigi), è chiaro però che—dice l' Economist in un articolo significativamente intitolato The new normal—"le grandi città in Europa e in America dovranno abituarsi a una lunga campagna di terrore in cui tutti sono potenziali bersagli."

Il concetto di "nuova normalità," del resto, è stato evocato a più riprese da novembre a oggi. All'inizio di gennaio Rik Coolsaet—professore dell'università di Gent ed esperto di terrorismo— diceva al Guardian che nei "mesi a venire" ci saremmo dovuti confrontare con una "nuova ordinarietà" fatta di "più minacce, più eventi cancellati, più perquisizioni e più arresti," destinata a durare fino a quando "l'entità del gruppo [ il cosiddetto Stato Islamico ] e le sue intenzioni" non saranno pienamente "arginabili" dalle forze dell'ordine.

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Questa nuova normalità è ormai visibile a occhio nudo nelle nostre città, sempre più pattugliate e militarizzate. A Roma, la città in cui vivo, ogni volta che prendo la metro o vado in posti centrali e affollati passo accanto a soldati con armi spianate e ben in vista. E questo, naturalmente, non impedisce che si verifichino situazioni paradossali— come il caso dell'uomo che aveva involontariamente seminato il panico a Termini con un fucile giocattolo, che alla fine era un regalo per il figlio.

Un soldato davanti al Parlamento Europeo.

Sotto la superficie, comunque, c'è sempre un dilemma lacerante: come si può coniugare la sicurezza con le libertà civili? Per ora, anche a giudicare dal dibattito che c'è stato in Francia, è evidente che la bilancia penda quasi esclusivamente da una parte. "Dopo Charlie, le persone erano preoccupate che il governo si stesse spingendo troppo in là sulla sicurezza," ha dichiarato di recente Mourad Benchellali, un francese che è stato detenuto a Guantanamo e che ora si dedica alla prevenzione della radicalizzazione. "Dopo novembre, tutto quello che chiedono è più sicurezza."

A questo proposito, mi è rimasta particolarmente impressa un'intervista del Washington Post a Simon Perry, un professore israeliano di criminologia. "Israele ci ha messo parecchi anni per mettere in piedi un buon sistema di sicurezza, e abbiamo dovuto spargere molto sangue prima della sua creazione," dice Perry. "L'Europa deve investire delle risorse in questo settore, e anche la popolazione deve essere coinvolta nel procedimento."

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In seguito, l'articolo spiega brevemente in cosa consista questo sistema iper-securitario—in cui sono previste "ispezioni agli ingressi di centri commerciali e posti pubblici," nonché uno "strato aggiuntivo di controlli negli aeroporti"—e sostiene che si tratta di "un prezzo molto alto da pagare per chiunque voglia mantenere la propria privacy."

Ora, non è detto che si arrivi a tanto anche in Europa. Di certo c'è che non si tratta più di un'ipotesi né così tanto remota, né impensabile come poteva esserlo fino a poco tempo fa.

Per quanto sia difficile da ammettere, bisogna dire che dal 13 novembre 2015 le nostre vite sono cambiate in vari modi. In un certo senso, dunque, la nostra reazione agli attentati di Bruxelles ne è la conferma; e lo è anche del fatto che l'Europa intera stia lentamente, ma inesorabilmente, "assorbendo" questo tipo di terrorismo—con tutte le enormi, terrificanti conseguenze del caso sulla politica e sulla società di ogni singolo paese dell'Unione.

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