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Italia

La credenza comune della "mafia che non uccide i bambini" è una cazzata

Da Giuseppe di Matteo, 13 anni, a Nicolò Campolongo, 3 anni, la lista di ragazzi e bambini assassinati dalla criminalità organizzata è molto lunga.
Foto di Markus Goller

Nel corso della storia si è cementato un mito: la mafia non uccide i bambini.

La recente vicenda di Nicolò Campolongo, il bambino ucciso e dato alle fiamme insieme al nonno e alla compagna del nonno a Cassano allo Ionio (CS), è la dimostrazione plastica che questo "codice d'onore" non è altro che una leggenda.

Per il triplice omicidio - di Giuseppe Iannicelli, 52 anni, della compagna marocchina Ibtissam Touss e di Nicolò, detto Cocò, 3 anni - lo scorso 12 ottobre sono sono state arrestate due persone: Cosimo Donato e Faustino Campilongo, già in carcere per una indagine per droga. Ai due uomini, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, i Carabinieri del Ros hanno notificato l'ordinanza di custodia cautelare.

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Le accuse sono di triplice omicidio e distruzione di cadavere. Il bersaglio dei presunti killer, ritenuti dagli investigatori vicini ai clan della Sibaritide, è il nonno Giuseppe Iannicelli, che si muoveva spesso in compagnia del nipote Cocò. A tre anni, il piccolo faceva la spola tra la casa dei parenti e il carcere in cui è detenuta la madre sempre per fatti di droga, settore in cui la famiglia Iannicelli è attiva da anni.

La dinamica è chiara: i tre sono stati prima freddati a colpi di pistola, compreso Cocò, e poi bruciati all'interno di una Fiat Punto ritrovata a Fiego, località del comune di Cassano allo Ionio il 19 gennaio del 2014. In alcuni articoli dell'epoca, si ipotizzò che Iannicelli portasse Cocò con sé come scudo, visti i conflitti con altri protagonisti dello spaccio di droga nella Sibaritide.

Questa possibilità è stata poi smentita dai famigliari, attraverso una lettera indirizzata ai giornali via fax. Nella lettera, la mamma di Nicolò scrive: "Ancora oggi dico come hanno potuto avere tutta questa cattiveria contro il mio piccolo Cocò. Una cosa chiedo agli assassini di mio figlio: come fanno a dormire la notte? Uno degli assassini è anche padre; come fa a guardare i suoi figli sapendo di aver ucciso un bambino innocente?."

La vicenda di Nicolò Campolongo, che avrà ulteriori sviluppi (gli investigatori stanno indagando su due complici), non è tuttavia la prima che coinvolge intenzionalmente o accidentalmente bambini in fatti di mafia.

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"D'altronde," dice a VICE News Federico Varese, criminologo dell'Università di Oxford e studioso delle organizzazioni criminali, "di miti sulla mafia nel corso della storia se ne sono costruiti tantissimi: dal fatto che Cosa Nostra non si occupasse di droga, alimentato da Il Padrino, alla leggenda che non si dovessero uccidere donne e bambini."

Anche i dati sfatano il mito: secondo i numeri raccolti dall'associazione Libera, che VICE News ha potuto visionare, 85 vittime della mafia sono minorenni—di questi, ben 50 hanno perso la vita prima di compiere i 14 anni.

La leggenda secondo cui la mafia non "toccherebbe" i minori ha le sue radici durante lo svolgimento del maxiprocesso di Palermo.

Il 7 ottobre del 1986, nel pieno del procedimento istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il figlio di un gestore del servizio di pulizia dell'aula bunker dell'Ucciardone viene ucciso con un colpo di pistola in fronte. È Claudio Domino, 11 anni: mentre gioca nel quartiere di San Lorenzo a Palermo, un uomo lo chiama per nome. Quando il bambino si volta, il killer gli spara.

La vicenda viene immediatamente ricondotta agli ambienti di cosa nostra. Claudio, infatti, sarebbe stato "testimone involontario" di un sequestro avvenuto nell'ambito di una guerra di mafia per il controllo dello stesso quartiere di San Lorenzo. Il giorno dopo l'omicidio, nell'aula bunker, prende la parola Giovanni Bontade, uno dei boss mafiosi coinvolti nell'indagine: "Non siamo stati noi ad uccidere Claudio. Noi condanniamo questo barbaro delitto, che provoca accuse infondate anche nei confronti di questo processo."

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"Per la prima volta, pur di dissociarsi da quell'omicidio, cosa nostra ammette davanti a una corte di essere un 'Noi', quindi di essere una organizzazione. Senza dubbio quel passaggio ha contribuito alla costruzione della leggenda," spiega ancora Varese.

La storia giudiziaria dell'omicidio Domino non vira però verso gli ambienti di Cosa Nostra, e la pista iniziale sulla guerra al quartiere San Lorenzo svanisce. Il killer viene individuato in Gabriele Graffagnino, titolare di una rosticceria nel quartiere, e Domino - secondo gli atti della Corte d'Assise di Palermo - sarebbe stato ucciso perché avrebbe visto la mamma col suo amante. Graffagnino, appunto.

Graffagnino viene poi ucciso a sua volta, poco dopo, dal pentito Giovanbattista Ferrante. L'omicidio è stato commissionato da Totò Riina, che ai suoi uomini chiede di "scoprire gli assassini di Claudio Domino e scannarli." Per Giovanni Brusca, uno dei più importanti membri della mafia siciliana, quello di Gabriele Graffagnino è stato un "omicidio pedagogico."

Il "codice d'onore," insomma, è ribadito ancora una volta: non si uccide un uomo, meno che mai un bambino, senza l' autorizzazione del boss che controlla il territorio.

Il messaggio di Cosa Nostra passa. Eppure la stessa organizzazione, sette anni dopo, non esita a rapire e uccidere il tredicenne Giuseppe di Matteo, "reo" di essere figlio del pentito Santino di Matteo. Giuseppe diventa il bersaglio per mettere a tacere il padre: nel 1993 viene rapito, l'11 gennaio del 1996 viene strangolato e poi sciolto nell'acido.

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"Era ridotto a una larva umana," raccontò Giuseppe Monticciolo, uno dei carcerieri del piccolo. Il tredicenne Di Matteo fu rapito con l'inganno da alcuni "picciotti" che si finsero agenti della Direzione Investigativa Antimafia. Per l'omicidio sono stati condannati gli esecutori materiali: tra questi anche Giovanni Brusca insieme alla commissione, ovvero l'organo direttivo, di Cosa Nostra.

Per lo stesso omicidio, viene condannato anche il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.

Spatuzza chiede poi perdono ai genitori di Di Matteo—un perdono che la madre del bambino ucciso, Franca Castellese, non concede: "Non sono disposta a perdonare nessuno degli assassini di mio figlio, un bambino innocente che è stato sequestrato, torturato, oltraggiato anche dopo la sua morte. Come posso perdonare? Mi auguro che tutti coloro i quali hanno partecipato al sequestro e all'uccisione di mio figlio restino per sempre in carcere, a cominciare da quel 'mostro' di Giovanni Brusca."

Qualcuno dice che il codice d'onore delle cosche è cambiato, "ammettendo che mai sia esistito un codice in questo senso," puntualizza Varese a VICE News. Nella sola Calabria, si contano infatti sei vittime con meno di sedici anni, uccise - accidentalmente o meno - dalle organizzazioni criminali. Tra queste c'è Domenico "Dodò" Gabriele, undici anni, morto nel giugno del 2009 a causa delle ferite riportate durante una sparatoria avvenuta in un campo di calcetto a Crotone.

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Anche in Puglia si scoprono particolari raccapriccianti sulla morte di Paola Rizzelli e della figlia di lei, Angelica. La morte di Paola, ex fidanzata del boss della mafia pugliese Luigi Giannelli, sarebbe stata voluta da quest'ultimo a causa della gelosia della nuova compagna. Paola viene uccisa da un commando mentre tiene in braccio la bambina, anch'essa freddata dalle pistole dei killer: il corpo della madre viene gettato in una cisterna, quello della piccola Angelica seppellito.

Il 17 marzo del 2014, sempre in Puglia - questa volta a Taranto - quindici colpi d'arma da fuoco uccidono Cosimo Orlando, la compagna Carla Maria Fornari e il figlioletto di lei, Domenico, tre anni non ancora compiuti.

"La barbarie dei mafiosi non conosce confini," ha detto nel 2014 il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti durante una delle giornate dedicate alle vittime innocenti della mafia. "Purtroppo abbiamo visto tanti piccoli uccisi dalla camorra, dalla 'ndrangheta e da cosa nostra. Spesso erano bambini che accompagnavano le vittime designate, trovatisi nella traiettoria di un conflitto a fuoco fra bande."

"Sono tanti i nomi che mi vengono in mente," ha spiegato Roberti. "È una barbarie che si ripete nel tempo: l'etica mafiosa non esiste affatto. Che la mafia non uccida i bambini è soltanto una diceria. I fatti degli ultimi vent'anni dimostrano il contrario."

Tesi dimostrata anche dalla morte di Valentina Terraciano, avvenuta a Napoli nel novembre del 2000. La bambina, dieci anni, cade sotto i colpi delle armi da fuoco indirizzati allo zio e al padre. Così anche le morti di Nunzio Pandolfi, due anni, e Fabio de Pandi, undici, finiti in mezzo ai regolamenti di conti tra i clan campani. Senza dimenticare il caso di Simonetta Lamberti, uccisa a Cava de' Tirreni il 29 maggio del 1982, mentre si trovava in auto con il padre, il giudice Alfonso Lamberti.

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Rapimenti e uccisioni non riguardano certo solo il Sud Italia. Nell'elenco delle vittime risultano i casi di Paolo Giorgetti, Emanuele Riboli e Luca Cottarelli. Il primo rapito e ucciso durante la stagione dei sequestri dei clan calabresi in Lombardia negli anni '70, per la sola "colpa" di essere figlio di un noto imprenditore della Brianza in grado di pagare un riscatto; il secondo sequestrato, ucciso e dato in pasto ai maiali nel 1974; il terzo ucciso nella strage di Urago Mella, che ancora cerca giustizia nelle aule dei tribunali milanesi.

Il mito però continua: in tanti sono convinti che quel codice d'onore esista davvero. "Sono miti," conclude Federico Varese, "in parte prodotti dalle stesse organizzazioni criminali che cercano di creare consenso e rispettabilità. Dall'altra parte c'è invece la cultura popolare di cinema e letteratura, che la stessa mafia ha saputo cavalcare."

"Sui mafiosi - spiega il criminologo di Oxford - ci sono sempre stati due tipi di produzioni letterarie o cinematografiche: quelle che rendono la mafia ridicola, disgustosa, violenta e cercano di demitizzarla," oppure quelle come Il Padrino, "che ritraggono il mafioso buono e allo stesso tempo minaccioso, estremamente amate dalle organizzazioni criminali."

In quest'ottica, puntualizza Varese, "Puzo o Francis Ford Coppola non volevano di certo fare un favore alla mafia. Sta nella società saper metabolizzare e scindere esempi che arrivano dalla letteratura e dalla cinematografia, che rimangono grandi fonti per la costruzione dei miti riguardanti le organizzazioni criminali."

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Contro gli stereotipi culturali, a contribuire al crollo delle dicerie c'è la realtà di questi giorni. Anche quando la mafia non uccide, infatti, si serve dei più piccoli per spaventare i propri bersagli.

Nel tentativo di intimidire l'imprenditore siciliano Gianluca Maria Calì, che ha denunciato più volte le minacce dei clan, due uomini hanno avvicinato la tata che si occupa dei due bambini - sei e sette anni - all'uscita dalla scuola elementare a Milano.

Gli uomini, a bordo di una Mercedes nera con i vetri oscurati, si sono avvicinati alla donna chiedendole se i piccoli fossero "i figli di Calì." Insospettita dall'atteggiamento, dalla strana richiesta e dalla voce del navigatore dell'auto secondo cui la vettura era "arrivata a destinazione", la tata ha negato, spiegando che si trattava dei suoi figli.

Tanto è bastato per convincere i due presunti mafiosi ad accelerare e andarsene, scomparendo rapidamente nelle vie di Milano. I falsi miti, però, sembrerebbero destinati a durare molto più a lungo.

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Foto in apertura diBindalfrodo con licenza Creative Commons CC BY SA 2.0