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Libia

L'intervento militare in Libia è sempre più vicino — e stavolta toccherà anche all'Italia

La guerra allo Stato Islamico, la frammentazione politica, il ruolo italiano: cosa sta succedendo in Libia, e perché ci riguarda da vicino.
Foto di Magharebia/Flickr

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È possibile che nelle prossime settimane assisteremo a un intervento occidentale in Libia, e che questo veda anche una partecipazione italiana. La domanda non è tanto se, ma come e quando.

L'Italia ha deciso di svolgere un ruolo di primo piano nell'ex colonia: da ormai un anno è chiaro che Roma vorrebbe assicurare il grosso delle truppe per la stabilizzazione del paese, una volta raggiunto un accordo di pace. E sia gli americani che gli altri europei riconosco all'Italia un ruolo guida.

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Il problema è che da quando a febbraio dell'anno scorso il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha annunciato che potevamo mandare 5.000 soldati in Libia, la situazione è peggiorata: l'autoproclamato Stato Islamico (IS) è in continua espansione, mentre le diverse fazioni libiche si frammentano sempre di più, come percosse da un grande martello che le riduce in pezzi sempre più piccoli.

Il quadro libico e lo Stato Islamico

Ci sono però delle buone notizie. Il 17 dicembre, nella cittadina marocchina di Skhirat, rappresentanti di alcune fazioni libiche hanno firmato "l'Accordo Politico Libico," che prevede un governo di unità nazionale e la condivisione del potere tra il parlamento di Tobruk - scaturito dalle elezioni del giugno 2014 - e quello di Tripoli, resuscitato nel settembre dello stesso anno dalle milizie che hanno preso il controllo della capitale.

L'accordo è stato ufficialmente adottato con la risoluzione Onu 2259, approvata il 23 dicembre, che intima agli stati membri di relazionarsi solo con il governo di unità nazionale che scaturirà dal processo iniziato a Skhirat e, all'articolo 12, stabilisce che si può intervenire militarmente contro IS solo "previa richiesta del governo libico."

La strada per avere un vero governo di unità nazionale in Libia, però, è ancora lunga e per niente inevitabile.

Per ora c'è un primo ministro, l'ex architetto e 'signor nessuno' Faiez Serraj, circondato da un Consiglio Presidenziale di 9 membri che non opera in Libia - perché la capitale Tripoli, conquistata nell'estate del 2014, è ancora sotto il controllo del General National Congress - ma da un albergo di Tunisi.

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Questo Consiglio Presidenziale avrebbe già pronta una lista dei ministri, ma per entrare nel pieno dei poteri dovrebbe riuscire a ricevere la fiducia dal parlamento di Tobruk, che però ha smesso praticamente di funzionare dalla scorsa estate e dal 17 dicembre ha fatto finta di provare a riunirsi due volte alla settimana senza mai raggiungere il quorum.

Leggi anche: Perché IS vuole conquistare la Libia — e cosa possiamo fare per evitarlo

Sono questi, infatti, due dei problemi più immediati per far marciare il processo politico libico.

Da una parte, se non avrà "l'agibilità" a Tripoli, il governo di unità nazionale nascerà monco perché non avrà il controllo di tutta la macchina statale che è ancora nella capitale—a partire dai ministeri, e inclusa anche la Banca Centrale (che paga gli stipendi all'80 per cento della forza lavoro e ai miliziani di tutti i fronti) e la Societá del Petrolio, che firma e gestisce i contratti del settore energetico. In questo scenario, da novembre - per l'Onu - sta negoziando il generale italiano Paolo Serra, che media tra le milizie della capitale alla ricerca di un accordo sulla sicurezza che permetta al governo Serraj di operare in città.

'La strada per avere un vero governo di unità nazionale in Libia, però, è ancora lunga e per niente inevitabile.'

Il secondo problema è istituzionale, ma anche politico. La Camera dei Rappresentanti di Tobruk deve approvare il nuovo governo secondo l'accordo firmato in Marocco, e finché non arriverà questo voto non ci sarà pienezza dei poteri per il governo di unità nazionale. La Libia continuerà ad avere tre governi (quello di Serraj, e quelli di Tripoli e Tobruk che rappresentano le fazioni) ma nessuno si troverà effettivamente al governo del paese—nessuno, per esempio, che sia in grado di approvare un bilancio e farlo attuare dai ministeri.

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Il parlamento di Tobruk, e soprattutto il suo presidente Agila Saleh, è in realtà il braccio politico del generale Khalifa Heftar—l'ex generale dei tempi di Gheddafi che, sconfitto in Ciad, si ritirò poi in America e tornò in Libia per combattere il dittatore nel 2011.

Un paese spaccato

La figura di Heftar è il crocevia di due questioni che riguardano la Libia.

In primo luogo, è il simbolo della spaccatura del paese, avendo iniziato la battaglia contro gli islamisti che poi portò nell'estate del 2014 allo scoppio delle ostilità, alla fuga del governo legittimo da Tripoli a Tobruk, e alla divisione di fatto del paese—è difficile arrivare alla riconciliazione tra le due fazioni se rimarrà nella attuale posizione di comandante delle forze armate.

Dall'altra, Heftar è una figura di garanzia per l'Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, due paesi che sono molto coinvolti nelle vicende libichee, e ch si contrappongono ai nemici regionali della Turchia e del Qatar.

Tenere Heftar vuol dire tenere fuori dal governo le milizie e le forze politiche che controllano l'ovest della Libia, ma toglierlo vuol dire scontentare - per usare un eufemismo - i suoi sostenitori in Libia e nella regione.

Entro domenica, Serraj dovrebbe presentare la lista dei ministri al parlamento di Tobruk e farsi dare la fiducia. Ma questo - per le ragioni già dette - è difficile avvenga, così come è difficile che si installi presto a Tripoli.

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In questo vuoto politico, lo Stato Islamico in Libia ha lanciato dal 4 gennaio un'offensiva nella "mezzaluna petrolifera," la zona costiera del centro-est del paese dove si trovano alcuni dei terminal più importanti.

Queste strutture sono chiuse o funzionano a regime molto ridotto già da un anno a seguito di altri combattimenti, ma l'offensiva è riuscita comunque a creare l'allarme - nei media e nelle cancellerie occidentali - che il cosiddetto Stato Islamico stia per mettere le mani sull'oro nero libico—nella stessa settimana IS ha ucciso più di 50 giovani reclute della guardia costiera nella città di Zliten con un autobotte-bomba.

La coincidenza tra difficoltà del processo politico e urgenza della minaccia di IS sta spingendo molti paesi, a partire dalla Francia ed inclusa l'Italia, a prendere in considerazione l'ipotesi di un intervento occidentale contro IS anche senza il consenso del governo libico ancora in formazione. Ma per valutarne appieno il significato è opportuno dare un'occhiata al ruolo e agli interessi italiani nel paese.

Il ruolo italiano

L'Italia ha svolto un ruolo piuttosto importante in questo processo politico. Fin dai primi passi del negoziato Onu, era l'ambasciata italiana a Tripoli - una delle poche rimaste aperte fino quasi all'ultimo - a facilitare i colloqui dell'allora inviato speciale Onu Bernardino Leon.

In seguito, l'Italia si è fatta riconoscere sia dagli americani che dagli altri europei il ruolo di guida della missione militare che dovrebbe addestrare le nuove forze di sicurezza libiche: 5.000 italiani, mille britannici, 300 tedeschi e altri paesi che si aggiungeranno.

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Infine, il 13 dicembre c'è stata la spinta finale all'accordo, poi firmato in Marocco, con una conferenza internazionale a Roma che ha messo attorno allo stesso tavolo tutte le potenze mediorientali coinvolte - a partire da Egitto e Turchia -, i grandi paesi europei e i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu.

Il comunicato finale del summit impegnava tutti i paesi ad avere rapporti solo col nuovo governo di unità nazionale, e di fatto preparava il terreno all'accordo raggiunto 4 giorni dopo a Skhirat.

Nel frattempo il presidente del Consiglio Renzi si schierava contro le ipotesi di intervento armato contro IS in assenza di un quadro politico, arrivando quasi ad offendere il presidente francese Hollande in un'intervista al Corriere in cui gli ricordava come la Francia avesse già coinvolto una volta l'Italia in una missione militare sbagliata in Libia, nel 2011.

Guarda il nostro video: Le prigioni dei migranti in Libia: In fuga dall'inferno

All'Italia, d'altronde, conviene avere un processo politico che funzioni in Libia per poter tutelare i propri interessi: prima di tutto, serve un governo che governi per poter lavorare sull'immigrazione.

In secondo luogo, l'Italia condivide la preoccupazione per IS, ma anche quella per i rischi di un quadro politico inesistente—lo Stato fallito fa paura quasi quanto il sedicente Stato Islamico.

In terzo luogo, l'Italia ha bisogno di un governo per gestire i suoi interessi energetici ed economici.

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In altri paesi le dinamiche e gli interessi sono diversi dall'Italia, e si concentrano nella necessità di dimostrare - anche all'opinione pubblica interna - che si sta 'facendo qualcosa' contro IS: è un interesse francese, ovviamente, ma anche del Primo Ministro britannico Cameron, e lo stesso Dipartimento della Difesa USA ha inserito la Libia come seconda delle sue 5 priorità nella lotta al cosiddetto Stato Islamico.

'All'Italia, d'altronde, conviene avere un processo politico che funzioni in Libia per poter tutelare i propri interessi'

D'altronde gli americani hanno già condotto dei raid isolati in Libia per eliminare singoli leader jihadisti, mentre i francesi hanno sorvolato spesso l'area controllata da IS. Se dovesse crescere l'escalation del cosiddetto Stato Islamico mentre il processo politico rimane bloccato, americani, francesi e britannici potrebbero decidere di passare all'azione, con o senza il consenso libico.

A quel punto non è da escludere che l'Italia vada a rimorchio con l'intenzione di condizionare la coalizione, così come riportato da Alberto Gentili sul Messaggero questa settimana.

La guerra a IS

E qui si ritorna al come e al quando dell'intervento militare.

L'intervento può contenere uno o più dei seguenti elementi: raid aerei isolati e mirati contro alcuni leader o alcune strutture di IS in Libia; una campagna aerea più strutturata, come quella in atto in Siria; un intervento di forze speciali sul terreno; una presenza di truppe a Tripoli con compiti formali di addestramento ma in realtà a protezione del nuovo governo di unità nazionale.

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Il primo elemento è il più possibile: permetterebbe ai leader europei e agli americani di vantare in patria l'estensione alla Libia della lotta attiva ad IS, ma non comporterebbe un impegno drammatico di forze militari.

Una parte fondamentale del "come" riguarda il ruolo del governo di unità nazionale libico. Gli occidentali potrebbero decidere di seguire la risoluzione Onu 2259 e chiedere il permesso al governo Serraj. Se questo dovesse arrivare nel quadro dell'attuale debolezza del governo, potrebbe confermare il sospetto e l'accusa di molti libici che tutto il processo politico serviva a creare un fantoccio occidentale.

Se invece il governo libico venisse aggirato, e le operazioni militari dovessero diventare sempre più pesanti, queste delegittimerebbero il governo, che apparirebbe irrilevante.

Il "quando" è il secondo elemento di peso. È chiaro che il processo politico avrà bisogno di molto più tempo dei 30 giorni indicati dalla risoluzione Onu. Gli occidentali potranno e sapranno aspettare prima di lanciare operazioni militari?

A riguardo, due scenari sembrano possibili.

Nel primo, c'è un qualche accordo politico libico, che potrebbe portare alla richiesta di aiuto straniero per combattere lo Stato Islamico—aiuto che sarebbe limitato, magari, alla condivisione di intelligence o al supporto aereo per alcune operazioni di terra.

Questo rafforzerebbe sia la lotta a IS - che si sostanzierebbe così di una componente libica a terra e un sostegno occidentale - che il percorso politico, poiché la minaccia di IS potrebbe contribuire a spingere verso un maggiore accordo tra alcune delle fazioni più importanti (le milizie della città di Misurata, le guardie petrolifere, i generali dell'esercito che combattono a Bengasi ma che non sono favorevoli a Heftar.)

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Nel secondo scenario non esiste un quadro politico libico a sostegno dell'accordo. I libici rimarrebbero per lo più passivi rispetto a un intervento occidentale che finirebbe per essere più limitato perché non avrebbe forze rilevanti a terra. La lotta sarebbe tra gli invasori stranieri di IS e le forze straniere anti-IS. Gli incentivi a sostenere l'unità libica da parte di molti paesi verrebbero meno, così come verrebbe meno l'elemento unificante per i libici dato dalla minaccia jihadista.

Le conseguenze di un intervento armato

Un intervento del genere avrebbe sullo Stato Islamico lo stesso impatto che può avere un'aspirina su un tumore, perché anche se i bombardamenti dall'aria o i droni dovessero scalzare i jihadisti, non si capisce chi ne prenderebbe il posto. Non sarebbe chiaro quanto potrebbe durare un intervento del genere, e proprio per la sua inefficacia - come negli interventi simili in Yemen, in passato - potrebbe alimentare il caos invece che la stabilizzazione.

Far parte di una coalizione con questo programma vorrebbe dire condividere la responsabilità del fallimento: nel 2011 si poteva dire che i francesi avevano approfittato del vuoto di potere post-Berlusconi per trascinarci in un intervento sbagliato in Libia, ora qualcuno a Palazzo Chigi c'è.

Cosa fare, quindi? L'opzione migliore sembra essere lavorare al primo scenario. Favorire un incontro di tutti i rappresentanti libici che sostengono l'accordo (parlamentari di Tobruk e Tripoli, sindaci, leader tribali, notabili, società civile), creare un appello unitario per la lotta a IS, e nel frattempo favorire - disinnescando la mina Heftar - una convergenza sul terreno tra le forze libiche che possono combattere lo Stato Islamico: i misuratini, le guardie petrolifere e l'esercito che combatte a Bengasi. Tre forze che il generale Heftar proprio non lo possono mandare giù.

Leggi anche: Come l'Occidente può concretamente sconfiggere lo Stato Islamico


Mattia Toaldo è analista presso lo European Council on Foreign Relations di Londra

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Foto di Magharebia via Flickr