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Ascesa e caduta dei Basilischi, la mafia italiana che voleva imitare la 'ndrangheta

Attiva i Basilicata nella seconda metà degli anni Novanta, la Famiglia Basilischi voleva diventare la "Quinta Mafia" italiana — ma durò poco.
Una statua raffigurante San Michele Arcangelo (Foto di Luca Terzaroli/Flickr)

Dalle rocce del Pollino si vede tutto: salendo dal lato che poi sprofonda nello Ionio si può capire quasi nitidamente dove comincia la Calabria, e dove la Basilicata diventa Puglia.

Attorno alla seconda metà degli anni Novanta, non era inusuale trovare un gruppo di uomini parlottare e compiere strani riti sulle montagne attorno a Policoro, a metà strada tra Taranto e Sibari, alla sorgente del fiume Sinni.

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Lì, scortato da "tre sentinelle d'omertà", il "novizio" avrebbe potuto incontrare gli "uomini d'onore" e il boss, e vedersi fare questa domanda: "Conoscete la Famiglia Basilischi?"

I "Basilischi," oltre a essere il titolo di un film del 1963 diretto da Lina Wertmüller, sono un'organizzazione di stampo mafioso riconosciuta ufficialmente solo nel 2007 grazie alla sentenza di un maxi-processo antimafia, poi confermata in appello nel 2012. Ma temporalmente, il loro operato come "Quinta Mafia italiana" - come verrà definita - si estende soltanto dal 1994 a 1999.

È in quell'anno infatti che - stando al racconto del collaboratore di giustizia Santo Bevilacqua - il boss del clan calabrese dei Morabito concede a Giovanni Luigi Cosentino, pregiudicato noto col nome di "faccia d'angelo", l'indipendenza del suo clan lucano.

L'incontro avviene nel carcere di San Gimignano, in Toscana; il luogo in cui sia il boss lucano, sia altri personaggi della malavita calabrese, scontavano le loro pene.

Lì, Giovanni Luigi Cosentino avrebbe "ricevuto dai calabresi l'investitura del Crimine, ovvero il capo di organizzazione mafiosa," ricorda ancora Bevilacqua. Ed è sempre dal carcere che "Faccia D'angelo" darà vita alla sua opera di proselitismo, a tessere le strategie finalizzate ad allargare la famiglia e i suoi interessi, fino a coprire l'intero territorio regionale.

Sarà la nascita della prima struttura mafiosa lucana 'propriamente detta', la picconata al mito della Lucania felix, regione ritenuta inspiegabilmente immune alle mafie malgrado sia geograficamente accerchiata dalla camorra campana, dalla Sacra Corona Unita pugliese, e dalla 'ndrangheta a sud.

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In realtà, sin dagli anni Ottanta - ossia subito dopo il terremoto dell'Irpinia - si ha conoscenza di gruppi criminali locali, pronti ad accaparrarsi e a gestire per altri gli investimenti e i fondi derivanti dalla ricostruzione post-sismica. Ma il processo di espansione delle strutture criminale locali verrà genericamente ignorato.

È solo negli anni Novanta però che - come affermerà il Procuratore Generale dell'epoca - la situazione viene definita "preoccupante," ma ancora limitata territorialmente, disunita. Ma soprattutto, legata a doppio filo ai clan calabresi.

Sarà proprio la 'ndrangheta ad "allenare" la criminalità locale, che a essa si ispirerà e che da essa sarà condizionata, da tutti i punti di vista. Si può dire che fino al 1995, in sostanza, la mafia lucana esisteva, in un qualche modo, ma non se ne avevano due riprove: quella giudiziaria, e il fatto che l'organizzazione fosse grosso modo autonoma.

Eppure, in qualche modo, la smania di emergere come "nuova mafia" non è mai mancata. La sua versione embrionale, la Nuova Famiglia Lucana - creata sul modello delle mafie calabresi e pugliesi - denunciò un proprio tentato omicidio telefonando all'agenzia ANSA di Potenza. Come a dire: siamo arrivati.

La stessa necessità di emergere anima la prima fase dei Basilischi, così bisognosi di affermarsi come nuovo crimine locale da uccidere un agente di polizia, Francesco Tammone — una delle tipologie d'omicidio più roboanti, la rappresaglia contro lo Stato.

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Secondo la Procura Nazionale Antimafia, le zone colpite dal fenomeno sarebbero state quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico, Melfi, soprattutto la Val d'Agri, dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione.

Alla Famiglia si affilieranno alcuni membri del clan della zona di Matera e del melfese, boss del salernitano, il gruppo di Potenza e ciò che restava del gruppo criminale antecedente ai Basilischi.

Il clan era specializzato nel traffico di droga, esplosivi e armi, rapine, usura, gioco d'azzardo, e l'estorsione sistematica nei confronti dei commercianti e delle imprese.

"I Basilischi," riporta la studiosa Anna Sergi nel documento La perduta Lucania Felix, "praticavano l'usura, ricettavano i titoli di credito di provenienza delittuosa, riciclavano i proventi sporchi e affermavano un controllo egemonico del territorio e al proprio interno, attraverso vincoli di comparaggio, rigide gerarchie e pagamento delle spese processuali per gli arrestati."

Il cambio di passo arriva con l'operazione scoperta dall'inchiesta Iena 2, in cui finiscono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza - la cui posizione verrà poi archiviata - per quello che il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro definirà un "cambio di assetto": la famiglia riesce a mettere le mani sull'appalto di costruzione dell'Ospedale San Carlo, dimostrando quanto fosse ormai capace di lavorare ad alti livelli, e di trattare alla pari con le altre mafie — essendo coinvolto, nell'appalto, anche l'interesse della malavita campana.

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Ma erano proprio i calabresi, secondo quanto riportato da inchieste, racconti di pentiti e cronache, a rifornire la famiglia lucana di armi e droga. Un legame a doppio filo dal quale Cosentino ha cercato di liberarsi col loro benestare, in un rapporto che sempre Anna Sergi definisce esperimento di "outsourcing," l'esternalizzazione da parte dei calabresi delle risorse da lasciar controllare ai clan locali della Basilicata, per goderne i vantaggi col minimo sforzo.

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Proprio questa necessità di sentirsi effettivamente mafia il prima possibile, e di trovare un'amalgama identitaria dapprima inesistente, li porta a dare grossissima importanza alla tematica dei rituali mafiosi, alcuni dei quali si ritiene siano stati in un certo modo "spiegati" in carcere dai calabresi allo stesso Cosentino.

Per rinsaldare un gruppo ancora privo di collante, questi riti puntavano spesso a sottolineare il senso di appartenenza alla Famiglia, con giuramenti simili a quelli dei clan della Calabria, dalle venature esoteriche e massoniche.

Una delle liturgie prevedeva la recitazione dei una formula per diventare "uomo d'onore".

"Sul monte Pollino, sapevo che il mio cuore freddo avrebbe potuto essere curato," recitava una di queste frasi.

"Conoscete la Famiglia Basilischi?"

"Certo che la conosco," rispondeva l'aspirante affiliato. "La tengo nel cuore, la servo e mi servo."

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"Qual è il tuo desiderio?", gli veniva replicato.

"La stima, l'orgoglio della mia terra e una lunga fratellanza."

I luoghi in cui avvenivano questi rituali non sono per nulla casuali. Il monte Pollino è la sommità "da dove tutto si vede e non si è visti," il fiume Sinni - tra i cuori d'acqua della regione - è ciò che accoglierà il corpo freddo dell'adepto in caso di tradimento."

E poi tagli sulle braccia, incisioni, carte da gioco napoletane, tatuaggi e il particolare del santo protettore, San Michele Arcangelo, contemporaneamente protettore della 'ndrangheta e della polizia — mentre per questi ultimi, però, il santo è raffigurato con la bilancia della giustizia, per i clan calabresi reca una catena in mano.

Il capo società, infine, abbracciava il nuovo adepto, che gli rispondeva "Sono felice di abbracciare un altro fratello, che sapevo di avere ma non conoscevo."

La struttura interna, insieme ai rituali, ricalcava la stessa 'ndrangheta. Sono stati proprio i calabresi rinchiusi a San Gimignano a spiegare a "faccia d'angelo" come doveva essere organizzata la cosca, secondo la classica divisione calabrese in crimine, 'ndrine e locale.

Parlando da collaboratore di giustizia ai pubblici ministeri, è Cosentino a spiegare che la stessa struttura a "albero," tipica della mafia, era la stessa sulla quale si reggeva quella dei Basilischi: le cinque parti della pianta rappresentavano il "capobastone" (il tronco), i "mastri di giornata" e i "camorristi di sangue, di sgarro e di seta" (i rami), i "picciotti" (ramoscelli) e i "giovani d'onore" (i fiori), le giovani leve. Il tutto, percorso e tenuto in vita dalla "linfa" dell'omertà e del silenzio. Sotto l'albero, il fango di traditori e polizia.

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Alla fine il "fango" prevarrà sulla "linfa": nell'aprile del 1999 una maxioperazione porterà all'arresto di praticamente tutti i capi dell'organizzazione. Da allora, secondo varie indagini, il territorio sarebbe finito sotto il controllo delle famiglie di Rosarno, che attorno al 2003 avrebbero diviso il territorio in sei o sette 'ndrine comandate direttamente dai calabresi.

Dopo il pentimento del cognato, però, "faccia d'angelo" perse credibilità, e venne estromesso da un accordo fra gli altri boss e le mafie limitrofe. Il nuovo boss Antonio Cossidente, nominato dallo stesso Cosentino una volta uscito dal carcere, non riuscì tuttavia a tenere unito il gruppo, che nel 2004 si frantumò in frazioni autonome e che in buona parte venne cannibalizzato da organizzazioni più potenti.

Sarà questa la morte sostanziale della Famiglia Basilischi, sebbene nella Relazione annuale del 2011 della Direzione Nazionale Antimafia si parli di "seconda linea di forze emergenti, di nuovi candidati," che starebbero cercando di emergere in un contesto privo di leader.

A confermarlo è lo stesso Cossidente, ormai collaboratore di giustizia, nel 2013. "Sono già sulla buona strada, cioè la cattiva."


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Foto di Luca Terzaroli via Flickr, rilasciata su licenza Creative Commons