Giulio Regeni

Al governo gialloverde non interessa nulla di Regeni, e fa di tutto per mostrarlo

Mentre l'Egitto ostacola le indagini e intimidisce i legali della famiglia, la Lega rimuove gli striscioni di Amnesty International dalle città e il M5S si limita a frasi di circostanza.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
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Uno striscione per Giulio Regeni nel quartiere Garbatella a Roma, nel 2016. Foto via Wikimedia Commons.

Oltre a teorie del complotto sempre più improbabili e deliranti, sull’omicidio di Giulio Regeni fin da subito si è imposta l’assurda e odiosa equivalenza con il caso dei due marò.

Nel senso che la “destra” ha i marò, mentre la “sinistra” ha il ricercatore. Come se poi i due avvenimenti fossero solo lontanamente paragonabili: da un lato ci sono due militari in missione accusati di aver sparato e ucciso dei pescatori indiani; dall’altro c’è un giovane studioso torturato e barbaramente ucciso dall’apparato di sicurezza del regime militare egiziano.

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Col tempo questa narrazione ha scavato a fondo, e recentemente ha raggiunto l’apice con la copertura e la rimozione degli striscioni di Amnesty International in diverse città e località a guida leghista.

La prima celebrazione della vittoria della Lega a Ferrara, ad esempio, è consistita proprio nel ricoprire lo striscione giallo per Regeni sulla scalinata del municipio con il proprio simbolo di partito. Ma se questo episodio poteva pure essere “accidentale”—o almeno, così l’ha definito il neo-sindaco Alan Fabbri—quello che ha fatto il governatore del Friuli-Venezia Giulia non lo è affatto.

Il 20 giugno Massimiliano Fedriga ha tolto lo striscione di Amnesty dal palazzo della Regione a Trieste, città in cui il sindaco di destra Roberto Dipiazza—appena eletto nel 2016—aveva pensato bene di toglierlo dalla facciata del municipio perché per lui rappresentava un “dente cariato” da cavarsi al più presto. Al suo posto è stato messo un addobbo per l’europeo di calcio under 21.

Fedriga si è difeso dicendo di aver aspettato ben “un anno” perché non voleva “portare nell’agone politico la morte di un ragazzo,” aggiungendo comunque che “la politica degli striscioni e dei braccialetti” non lo convince un granché. Il governatore leghista si è poi rammaricato del fatto che la sua “attenzione per non urtare le sensibilità” non ha pagato, e ha parlato di “atteggiamenti prevaricatori” nei confronti della Regione.

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Dal che si dovrebbe dedurre che lasciare sul balcone della Regione—la stessa regione da cui proveniva Regeni e dove risiede la famiglia—lo striscione che chiede verità e giustizia per l’omicidio di un connazionale è un atto di prevaricazione.

Sabato 22 giugno il neo-sindaco leghista di Sassuolo, Gian Francesco Menani, ha rimosso lo striscione dal comune con una motivazione ancora più assurda di quella di Fedriga. “Resta ferma la nostra solidarietà alla famiglia Regeni, ma non aveva più senso tenere ancora lì lo striscione,” ha dichiarato. “È una vicenda non più di attualità e tra l’altro in centro storico stava anche male, tutto impolverato.”

A parte la risibile scusa della polvere e del “decoro,” non è affatto vero che la vicenda non è più d’attualità; lo è ancora, eccome.

Solo un giorno prima della decisione di Fedriga, infatti, la famiglia del ricercatore ucciso aveva denunciato le pressioni e le intimidazioni dei servizi egiziani all’Ecrf, la commissione egiziana per i diritti e le libertà che segue il caso al Cairo. A questo si deve poi aggiungere la provocazione del ministro del lavoro egiziano, Mohamed Saafan, che nel corso di una conferenza a Ginevra ha spiegato che quello di Giulio è stato un “omicidio ordinario che sarebbe potuto accadere in qualsiasi Stato, come gli omicidi di egiziani in Italia o quelli di qualsiasi altra persona di qualsiasi altra nazionalità.”

Di fronte a un comportamento oltremodo “oltraggioso e inquietante”—che si accompagna al muro giudiziario eretto dal regime egiziano—la famiglia Regeni ha detto che “l’unico passo possibile e non più prorogabile è il richiamo dell’ambasciatore.”

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Il presidente della Camera Roberto Fico aveva garantito che “non rimarranno soli,” ma la rimozione di questi striscioni va nella direzione opposta—ossia quella del menefreghismo esibito e orgogliosamente rivendicato da questo governo gialloverde.

Se si eccettuano le parole di circostanza di Fico, il “turbamento” di Conte e le promesse di Di Maio (non mantenute), la Lega non ha mai fatto mistero del fatto che Regeni non è un problema loro. Più o meno un anno fa, il ministro dell’interno Matteo Salvini aveva detto: “Comprendo bene la richiesta di giustizia della famiglia di Giulio Regeni, ma per noi, l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto.”

La rimozione degli striscioni, pertanto, rientra perfettamente in quell’atteggiamento di ipocrisia, fatalismo e infima realpolitik che ha da sempre contrassegnato la vicenda (e pure il precedente governo). Togliere quei simboli, come ha detto Amnesty in un comunicato, serve unicamente a “coloro che ritengono che la ricerca della verità sia un fatto temporaneo, legato a contingenze politiche e che dopo un po’ vada abbandonata.”

E il messaggio lanciato da coloro che si definiscono “sovranisti” è che Regeni era un italiano, d’accordo; però, suvvia, ora possiamo pure dircelo: alla fine non era uno dei nostri.

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