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Davvero le carceri minorili in Italia pullulano di potenziali terroristi?

Secondo il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, 500 minori nelle carceri italiane sono a "rischio Jihad". I dati e i rapporti dell'Associazione Antigone, tuttavia, sembrano ridimensionare l'allarme.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Giovani detenuti in un carcere. [Foto via Allan de Carvalho/AP]

Così com'era successo dopo Parigi, gli attentati a Bruxelles dello scorso 22 marzo hanno riportato l'attenzione delle autorità sulla radicalizzazione jihadista nelle carceri italiane.

In un'intervista al Corriere della Sera del 25 marzo 2016, il ministro della giustizia Andrea Orlando ha fatto sapere che "sono 34 le persone detenute per fatti in qualche modo legati al terrorismo di matrice jihadista," e "208 sono quelle monitorate."

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Orlando ha poi aggiunto che le persone "sottoposte a vari tipi di controllo sono circa 350. Ci sono 10.500 detenuti che provengono da Paesi di fede musulmana e 7.500 che la professano. In un ambiente come il carcere c'è il rischio di una zona grigia di proselitismo."

Negli ultimi giorni l'allerta si è spostata sulle carceri minorili. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, infatti, ha citato a Repubblica "un dato allarmante che mi è stato trasmesso pochi giorni fa: metà dei reclusi nei penitenziari minorili italiani sono musulmani."

Qui, ha continuato il procuratore, "ci sono circa cinquecento ragazzi, abituati a stare su Internet come tutti i loro coetanei. E per questo possono facilmente entrare in contatto con i siti che predicano la Jihad: sono a rischio altissimo di radicalizzazione."

Leggi anche: Dentro la radicalizzazione jihadista nelle carceri italiane

Insomma, anche gli istituti di pena minorili sarebbero una fucina di potenziali jihadisti. Il problema, però, è che i dati e le circostanze indicate da Roberti non sembrano corrispondere alla realtà.

Secondo le cifre fornite dal ministero della Giustizia - e raccolti nel rapporto Ragazzi fuori dell'Associazione Antigone - a oggi i detenuti negli IPM sono 449 (440 maschi e 39 femmine). Ma di questi, secondo quanto riportato dalla coordinatrice nazionale di Antigone Susanna Marietti, solo 174 sono effettivamente minorenni.

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Per quanto riguarda la nazionalità, invece, la maggior parte è italiana; mentre al 31 dicembre 2015 c'erano circa duecento stranieri, di cui 54 provenienti da "altri paesi UE a presenza musulmana residuale." Secondo il rapporto, negli IPM in pratica ci sono solo "stranieri, rom e i ragazzi provenienti dalle periferie degradate delle grandi città del sud."

Elaborazione di Antigone sui dati del Dipartimento Giustizia Minorile. Via

Inoltre, Marietti contesta anche l'affermazione di Roberti per cui si possa "facilmente entrare in contatto" con i siti jihadisti. I detenuti negli IPM, scrive sul Fatto Quotidiano, "non sono affatto abituati a stare su Internet e ad entrare in contatto con i siti jihadisti. In carcere il web non si usa affatto, se non per lodevoli eccezioni comunque sempre estremamente controllate e supervisionate."

Più in generale, le affermazioni del procuratore non tengono conto di quella che è la situazione attuale degli IPM. Nella prefazione al rapporto, il presidente di Antigone Patrizio Gonnella spiega che "le carceri minorili hanno ormai, fortunatamente, un uso davvero residuale all'interno del sistema della giustizia dei minori."

L'applicazione di misure alternative al carcere minorile, infatti, è in forte espansione. I collocamenti in comunità sono passati dai 1.339 del 2001 ai 1.987; e il ricorso alla "messa alla prova" è aumentato quasi di quattro volte – dai 7.688 del 1992 ai 3.261 del 2014.

Per decenni, la presenza all'interno degli IPM "si era attestata attorno alle 500 unità. A seguito dell'"ondata riformatrice" che ha interessato il sistema penitenziario generale, puntualizza Gonnella, "si era arrivati a meno di 350 presenze, oggi nuovamente aumentate dalla presenza dei giovani adulti negli istituti per minori."

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I numeri, pertanto, sono molto bassi – e lo stesso vale per la permanenza media di ciascun detenuto, che non supera le poche settimane. "Il problema sembra dunque gestibile," scrive il presidente di Antigone. E il "rischio" maggiore che corrono i detenuti negli IPM è semmai quello della stigmatizzazione o della mancata garanzia di certi diritti, piuttosto che quello della radicalizzazione jihadista.

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