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Cosa può succedere a Cosa Nostra dopo la morte di Totò Riina

Salito al potere negli anni Ottanta con i corleonesi, il "capo dei capi" ha esercitato un potere mafioso assoluto. Ora che è morto, cosa cambierà?
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Totò Riina durante un processo nel 1993. Foto via Wikimedia Commons

Qualche mese fa si era sollevata una quantità incredibile di polemiche intorno a una sentenza della Corte di Cassazione sul “capo dei capi” di Cosa Nostra, Totò Riina. Se ricordate, i giornali avevano scritto che di lì a poco Riina—al 41-bis dal 1993, gravato da 26 ergastoli e diverse patologie incurabili—sarebbe stato scarcerato per “morire dignitosamente,” parlando addirittura di “resa” dello Stato e scatenando l’indignazione generalizzata.

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In realtà, come avevamo scritto, la Suprema Corte non aveva disposto nessuna liberazione anticipata né aperto a una possibilità in tal senso; aveva solo statuito un principio generale, chiedendo al tribunale di sorveglianza di Bologna di riscrivere meglio l’ordinanza con cui erano stati negati il differimento di pena e gli arresti domiciliari.

La nuova decisione dei giudici di Bologna è arrivata il 19 luglio del 2017, e ha statuito che Riina doveva rimanere detenuto nel reparto ospedaliero dell’ospedale di Parma. I legali avevano subito annunciato la volontà di impugnare il provvedimento, ma non ce n’è stato il tempo: il boss 87enne è morto alle 3.37 del mattino dello scorso venerdì, dopo cinque giorni di coma farmacologico.

Com’era scontato, la notizia della scomparsa di Riina ha suscitato svariate reazioni. Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso da Cosa Nostra, ha detto: “Non gioisco per la sua morte, ma non posso perdonarlo.” Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare antimafia, ha avvertito che “la fine di Riina non è la fine della mafia siciliana che resta un sistema criminale di altissima pericolosità.” Il procuratore nazionale antimafia uscente, Franco Roberti, ha ricordato che “fino alla fine non si è pentito” e ha posto l’accento sui possibili “riflessi che la sua scomparsa avrà su Cosa Nostra.”

Molto risalto è stato dato ad alcuni commenti apologetici apparsi sui social network—compreso un video su YouTube da quasi 100mila visualizzazioni—nonché ai post dei figli del boss. Maria Concetta Riina ha pubblicato l’immagine di una donna che porta il dito alla bocca per invitare al silenzio, mentre Salvo (che nel 2016 era stato ospitato da Bruno Vespa a Porta a Porta) ha scritto: “Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà. E in questo giorno per me triste ma importante ti auguro buon compleanno papà.”

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Al di là dei commenti a caldo, la morte di Riina è l’occasione per riflettere sulla sua scalata al potere mafioso, sulla sua eredità criminale e sul futuro di Cosa Nostra. E così, per cercare di fare un po’ di ordine, mi sono fatto aiutare da John Dickie—professore di Italian Studies allo University College London e autore di svariati libri sulla mafia in Sicilia e in Italia.

COME RIINA SI È PRESO COSA NOSTRA

Il punto di partenza non può che essere la sua ascesa criminale nei ranghi della “vecchia” Cosa Nostra siciliana—quella uscita dal dopoguerra, legata a doppio filo agli Stati Uniti, in procinto di dotarsi di una struttura più organizzata ma attraversata da forti tensioni interne.

A Corleone, luogo di nascita del boss, a capo della cosca locale c’è il dottor Michele Navarra (soprannominato “u patri nostru”): pur avendo forti agganci politici, Navarra deve guardarsi le spalle dai viddani (i “villani”) tra cui spiccano Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Totò Riina. Sono loro a sbarazzarsi di Navarra nell’agosto del 1958; e sempre loro che da lì in poi dichiarano guerra alle più importanti famiglie palermitane (e non solo) per prendersi il potere e—soprattutto—il canale di rifornimento dell’eroina con l’America.

Anche se rilevanti sullo scacchiere siciliano, infatti, Dickie mi spiega che i corleonesi erano “tagliati fuori dai narcodollari che arrivavano dagli USA in una quantità sbalorditiva.” Per metterci le mani sopra, Riina crea “un’alleanza traversale con gli elementi di moltissime famiglie mafiose in tutto il palermitano e oltre.”

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Grazie a questa alleanza di “esclusi” il livello dello scontro sale esponenzialmente: i morti riempiono le strade delle città siciliane, molti mafiosi potenti sono costretti all’esilio, famiglie importanti (come quella degli Inzerillo) sono eliminate, e i mandamenti passano sotto il controllo degli uomini di Riina.

Nel fare ciò, continua Dickie, i corleonesi ricorrono a una violenza inaudita, portata avanti da “gruppi di fuoco” e “killer altamente specializzati e spietati”—come Giovanni Brusca, che arriverà anche a sciogliere nell’acido il tredicenne Giuseppe Di Matteo.

All’inizio degli anni Ottanta, dopo l’eliminazione del boss di Villagrazia Stefano Bontate e la conclusione della “seconda guerra di mafia,” Riina “estende il suo controllo in maniera totale” su Palermo e sulle altre province. Secondo Dickie è corretto parlare di un “controllo dittatoriale, senza precedenti nella storia di Cosa Nostra.” E questo, per l’organizzazione mafiosa, rappresenta un’innovazione di non poco conto.

COM’È CAMBIATA COSA NOSTRA DOPO LA VITTORIA DEI CORLEONESI

Fino agli anni Cinquanta Cosa Nostra non aveva un centro di comando unitario in tutta la Sicilia, o almeno nella sua parte occidentale. La situazione sembra cambiare intorno alla metà degli anni Sessanta, quando il magistrato Cesare Terranova (ucciso nel 1979 dai corleonesi) parla nelle sue istruttorie di una “commissione” formata da almeno 15 capimafia—tra cui Gaetano Badalamenti di Cinisi, Salvaore La Barbera di Palermo e Luciano Liggio.

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Il predominio dei corleonesi, appunto, permette un’inedita “centralizzazione” di quella struttura. Riina si ritrova così tra le mani “un potere mafioso e militare” superiore a qualsiasi altro boss, e lo usa in maniera brutale e spietata. Non solo colpendo i nemici interni, ma anche politici, magistrati e membri delle forze dell’ordine.

I primi effetti collaterali non tardano a farsi sentire: in primis c’è una vera e proprio emorragia di collaboratori di giustizia (il più noto dei quali è Tommaso Buscetta, che per la prima volta rivela a Giovanni Falcone l’organigramma di Cosa Nostra); in secondo luogo arriva la reazione dello Stato, che dopo gli omicidi di Piersanti Matterella, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa approva la prima legge antimafia nel 1982, con cui si introduce l'articolo 416-bis nel codice penale.

Riina però non abbandona il ricorso alla violenza, e anzi lo porta all’estremo—soprattutto in vista del maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino. Come ricorda John Dickie, alla lunga questa strategia “ha reso politicamente orfana Cosa Nostra.” Non a caso, “il primo a venire assassinato dopo la conferma degli ergastoli al maxiprocesso non è un altro mafioso, ma Salvo Lima. Quel politico, cioè, che rappresentava la cerniera tra la mafia e la politica siciliana; e che era stato ucciso per non essere riuscito a ‘difendere’ Cosa Nostra.”

Sconfitti sonoramente sul piano giudiziario e politico, i corleonesi si danno al terrorismo con le stragi del 1992 e del 1993. “Per me si è trattato di un atto di disperazione,” spiega Dickie, “perché Cosa Nostra aveva poche alternative. Aveva promesso ai suoi che Falcone e Borsellino sarebbero stati bloccati a livello politico, e così non è stato. Dunque ha dovuto dimostrare di poter ancora comandare, di poter fare delle cose eclatanti.”

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Ed effettivamente di azioni eclatanti ne sono state fatte; ma si sono risolte in un disastro sia per Cosa Nostra sia per Totò Riina, che il 15 gennaio del 1993 viene arrestato a Palermo. “L’ironia del suo potere assoluto,” continua l’autore britannico, “ha fatto di Cosa Nostra un bersaglio facilmente identificabile e contrastabile dalle forze dell’ordine e dalla magistratura.”

COS’È SUCCESSO DOPO IL SUO ARRESTO NEL 1993

Sulla cattura di Riina si sono formulate le più disparate ipotesi, sia dentro che le fuori le aule di tribunale. Secondo la versione ufficiale, a “consegnare” il “capo dei capi” sarebbe stato Baldassare Di Maggio—il pentito noto per aver raccontato del bacio tra Riina e Andreotti. Un’altra vesione sostiene che sia stato Bernando Provenzano a “venderlo,” perché contrario all’attacco frontale allo Stato.

Di certo, invece, Riina—pur sepolto al 41-bis, e quindi impossibilitato a comunicare con i suoi uomini—è rimasto formalmente a capo di Cosa Nostra. Come mai?

Dickie ritiene che c’entrino due fattori. Il primo è “l’autorevolezza di Riina: il suo potere è stato così totale che in qualche modo è resistito all’arresto.” Il secondo è “la debolezza” che emerge dalle “divisioni di Cosa Nostra.”

Il “capo dei capi,” infatti, è stato fermato dai carabinieri del Ros mentre si stava recando a una riunione della commissione palermitana. Da allora, sottolinea Dickie, quest’ultima non si è più riunita: “hanno provato a farlo due volte, e quindi hanno voluto aprire una nuova strada alla leadership; ma non ci sono mai riusciti.” Questa mancanza è causata da un lato dall’azione repressiva delle forze dell’ordine, e dall’altro da fattori interni che sono il retaggio dell’ascesa di Riina.

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Nel prendere il possesso del canale di rifornimento con gli Stati Uniti, Riina ha distrutto parecchie famiglie che—dopo la sua uscita di scena—hanno cercato di tornare in Sicilia. “I corleonesi sono terrorizzati dal ritorno di questi ‘scappati di casa’,” mi dice Dickie, “perché con ogni probabilità vorranno vendicarsi. Questo crea una situazione di stallo, un’ingovernabilità generalizzata. Provenzano non ha mai affrontato questo problema politico fondamentale di Cosa Nostra, non ha mai avuto il potere di affrontarlo. E nemmeno Matteo Messina Denaro [ considerato l’erede di Provenzano], che peraltro è della provincia di Trapani.”

E qui arriviamo all’ultimo punto cruciale, ossia:

QUALE PUÒ ESSERE IL FUTURO DI COSA NOSTRA DOPO RIINA

Gli osservatori più esperti sono sostanzialmente divisi tra chi—come il giornalista Attilio Bolzoniparla di una “cupola” pronta a riunirsi per eleggere un nuovo capo, e chi sostiene che Cosa Nostra non ha alcun bisogno di stabilire nuove leadership con passaggi ufficiali di testimoni.

Lo storico Salvatore Lupo, ad esempio, afferma che “la mafia è formata da una pluralità di bande affaristiche e politiche, e chiaramente criminali. Parliamo di un’organizzazione collettiva, con le famiglie che si autodeterminano guardando innanzitutto agli affari. […] Riina e i corleonesi riuscirono a imporre una centralizzazione, ma lo fecero mettendo sul campo un livello di terrorismo che oggi non c'è.”

Secondo l’ex generale del Ros Mario Mori—tra l’altro processato e assolto per il ritardo nella perquisizione del covo di Riina—Cosa Nostra sarà ancora "una grande e diffusa organizzazione, frammentata in cosche che avranno un radicamento territoriale ma che molto probabilmente non saranno più coordinate da una vera commissione provinciale, una cupola.”

Per ora, comunque, è difficile capire come Cosa Nostra possa uscire dallo stallo di cui si parlava poco sopra. La mafia siciliana, mi dice Dickie, “è sempre più sotto pressione da parte delle forze dell’ordine e della società civile. Inoltre è sempre più in difficoltà per la mancanza di risorse, anche per pagare i carcerati—che quindi hanno la tentazione di collaborare—e per rifornirsi di droga.” Non a caso, ora devono appoggiarsi alla ‘ndrangheta per accedere al lucroso mercato della cocaina.

La situazione, insomma, è per certi versi inedita. “Cosa Nostra, come ha sempre fatto, cercherà di coordinarsi, ma sarà molto difficile,” chiosa l’autore inglese. “Probabilmente non cambierà molto, lo scacco politico rimarrà. Riina non è stata una figura che ha unito, ma che ha diviso; e negli ultimi anni era in quella posizione per mancanza di alternative. Insomma: in queste circostanze vedo molto difficile stabilire una nuova egemonia.”

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