Le ultime enclavi dei merli

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A9N5: Sauna salvadoregna

Le ultime enclavi dei merli

Cosa succederà ai serbi in Kosovo quando ONU e NATO se ne andranno?

Un ragazzo piange durante una manifestazione stringendo la bandiera serba, alle spalle il monastero di Gracanica.

Quello di Slobodan Milošević era uno degli eserciti più forti d’Europa, così forte che la NATO decise di attaccare dall’alto, volando su Belgrado il 24 marzo 1999. Dopo 78 giorni di bombardamenti, la guerra si concluse ufficialmente il 10 giugno 1999. Bill Clinton, con il migliore sorriso che aveva allora, dichiarava alla stampa internazionale: “Siamo in Kosovo perché vogliamo sostituire la pulizia etnica con la tolleranza e il rispetto; l’umanità prevarrà, i profughi torneranno a casa,” senza specificare né come, né a che prezzo, né di quali profughi stesse parlando. Ciò che sappiamo è che da quella dichiarazione non c’è stato nemmeno un momento in cui le cose siano andate per il verso giusto in quella parte dell’ex Iugoslavia. Ora la statua di Clinton troneggia nella capitale Pristina, a pochi centinaia di metri dalla scritta “New Born” celebrata dai media internazionali. Questo è forse l’unico posto al mondo dove Bill Clinton è ancora considerato un eroe.

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Sono passati 14 anni da quando gli USA hanno costruito la loro più grande base militare europea, Camp Bondsteel, a Urosevak (zona sud-est del Kosovo), e ancora oggi hanno bisogno di cavalli di frisia, filo spinato, fucili e sorveglianza armata 24 ore su 24 per tenere la situazione sotto controllo. Secondo la risoluzione 1244 delle Nazioni Unite, il Kosovo è sotto controllo governativo “temporaneo” dell’UNMIK, ma l’odio etnico non è terminato, come gli omicidi a sfondo razziale.

Villaggio Italia, base militare della KFOR (Kosovo Force), Multinational Battle Group. 

La piramide politica si è allungata rendendo la punta irraggiungibile, ma nelle fondamenta si cela qualcosa che prima o poi verrà allo scoperto. In Kosovo oggi sono al potere uomini dell’UCK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës, Esercito di Liberazione del Kosovo), un’associazione terroristica accusata di crimini contro l’umanità, inizialmente finanziata da uomini come Osama Bin Laden e dal traffico internazionale di cocaina ed eroina, ma utilizzata dagli USA come interlocutore per ridefinire l’assetto politico kosovaro. Il primo ministro kosovaro Hashim Thaçi una volta era chiamato “il Serpente” e reclutava soldati per l’UCK in Albania. Il 17 febbraio 2008 fu lui a dichiarare l’indipendenza del Kosovo senza chiedere permesso a nessuno, e nonostante non sia ancora riconosciuto come Stato da molti membri dell’UE e da altre nazioni come Cina e Russia, oggi Angela Merkel lo usa come cavallo da muovere sulla scacchiera economica. Se la Serbia vuole e trare a far parte dell’Unione Europea, bisogna ufficialmente rinunciarci. E se i vertici slavi sono indecisi, il popolo serbo è convinto: no.

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Una conseguenza nota a pochi, tra le varie di quell’ennesima e già dimenticata guerra, è stata la sopravvivenza dei kosovari di etnia serba in quel territorio che i kosovari di etnia albanese reclamano e dichiarano tutto per sé. Oggi chiusi nelle enclavi-ghetto di Mitrovica, Pe’, Prizren o Gracanica, in comunità strette attorno ai luoghi di culto della chiesa ortodossa, i kosovari serbi non vogliono abbandonare quei microcosmi chiusi in una manciata di chilometri quadrati immersi in un oceano ormai monoetnico (albanese e musulmano), perché significherebbe davvero aver perso la guerra e il Kosovo per sempre. Ma in queste prigioni a forma di città si registrano più morti che nascite, mentre sono quasi due milioni i cittadini di etnia kosovara fuori di lì: il Kosovo vanta la popolazione più giovane d’Europa con la natalità più alta.

La situazione nelle enclavi-ghetto è peggiorata dopo le cosiddette marce del 2004, quando i radicali albanesi hanno dato fuoco a case, negozi e monasteri in più di 33 villaggi serbi contemporaneamente. Anche se la guerra era finita da anni, in quell’occasione altri 250 mila slavi hanno abbandonato le loro terre, cambiando solo il luogo del loro stato di rifugiati e raggiungendo alloggi temporanei nella periferia di Belgrado.

Ormai prigionieri in quella che una volta era parte della loro terra serba ortodossa, alcuni hanno deciso di restare, anche se chiamano casa un campo di container donati dalla Russia quasi 20 anni fa, senza acqua o elettricità, a Gracanica, alle porte della scintillante e artificiale capitale Pristina. In assenza di dati certi a causa del boicottaggio del censimento governativo, si stima che ancora 150 mila serbi siano presenti nelle enclavi, nei villaggi o nelle zone rurali del Kosovo.

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Queste comunità, situate attorno ai luoghi sacri della chiesa ortodossa, esistono dall’Undicesimo secolo. Nel monastero di Prizren, Padre Andrej vive insieme a dodici allievi slavi, che passano la loro adolescenza segregati in un cortile chiedendosi per quanto ancora pagheranno per gli errori di criminali di guerra come Ratko Mladic. Ma si interrogano anche sul perché la maggior parte dei criminali kosovari albanesi non siano stati dichiarati colpevoli dall’Aia: uno su tutti, Ramush Haradinaj, detto “comandante Rambo”, ex leader dell’UCK, giudicato non colpevole di nessun crimine contro l’umanità. Durante il processo, i testimoni per i suoi capi d’accusa, tra cui persecuzione, omicidio, distruzione immotivata, stupro, sodomia, rapimento, deportazione forzata e azioni inumane, sono tutti morti in circostanze poco chiare.

Si chiedono lo stesso al monastero di De’ani, sorvegliato da due truppe italiane per evitare quanto accaduto nel 2000, nel 2004 e nel 2008, ovvero tentativi di incendio e di decapitazione, spari, RPG puntati contro il crocefisso. Oggi i 30 monaci di De’ani, vittime elette dei radicali albanesi, difendono il monastero a Pe’, sede del Patriarcato del Regno di Serbia, una sorta di Vaticano della chiesa serba. Nella loro chiesa si trova il candelabro di ferro forgiato dalle spade dei serbi morti nella battaglia del 1389 a Kosovo Polje, “la piana del merlo”. La parola che dà nome a questa terra è slava: questa, dicono, è la terra dei merli. La leggenda vuole che questi uccelli, avendo beccato i cadaveri dei guerrieri uccisi, li facciano rivivere ogni volta che sorvolano il Kosovo, per ricordare a tutti l’eroica resistenza serba contro gli ottomani.

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La torre dei teschi, in serbo Cele Kula, in turco Kelle Kulesi, nella città di Nis. Il monumento fu eretto con i teschi dei guerrieri serbi uccisi per ordine del sultano ottomano Mahmud II, dopo la battaglia di Cegar nel 1809. Degli oltre mille teschi, ne rimangono oggi 58. 

Cosa succederà quando NATO e ONU lasceranno il territorio senza protezione armata nel 2015 è domanda a cui molti danno risposte diverse: si arriva a questa scadenza nelle peggiori condizioni possibili, a errori, limiti e nervi scoperti.

Nemmeno i dati riescono a sabotare una realtà che ogni giorno di più parla da sola, con una lista dolorosa di morti e scomparsi che continua ad allungarsi. Le ragioni sono etniche, prima che politiche.

A Mitrovica, attuale epicentro della protesta slava, c’è un’enclave di circa 60 mila persone, mai veramente controllata negli anni dalle forze militari. Qui rispondo agli attacchi con barricate di fortuna, resistenza attiva e passiva. A sud della città l’alfabeto è latino, la lingua albanese, la religione musulmana e la bandiera americana; a nord l’alfabeto è cirillico, la bandiera serba, la religione ortodossa, e la slavofilia è estrema.

A dividere questi due mondi solo cinquanta metri di cemento, un ponte simbolo per eccellenza dell’unione, che qui in Kosovo diventa la sua metafora opposta, di antinomia e discordia. Il ponte è chiamato Austerliz dai Kosovari albanesi. Ma il suo nome è Glavnij Most, dicono i serbi in giuramenti fatti bevendo rakia in cui continuano a ripetere che non andranno via da qui.

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