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Il lavoro nei campi dell'Agro Pontino. Tutte le illustrazioni di Nicola Gobbi.
Attualità

'Per loro sono una preda': lo sfruttamento nascosto delle donne indiane in Italia

Nell’Agro Pontino ci sono gravi forme di sfruttamento e caporalato che colpiscono in particolar modo le donne lavoratrici di origine indiana.

Questa inchiesta è stata condotta nell’autunno del 2021 e l’inizio del 2022 tra l’India e l’Italia, grazie al supporto di Journalism Fund, un grant per il giornalismo investigativo della fondazione olandese Pascal Decroos.

La prima parte è stata pubblicata su VICE World News ed esplora il traffico di esseri umani dal Punjab (stato indiano al confine con il Pakistan) all’Europa. Questa parte invece si occupa delle condizioni lavorative e sociali delle donne indiane in Italia, più precisamente nell’Agro Pontino.

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Amrita* è una donna originaria dello stato del Punjab, in India, che vive e lavora in Italia da quindici anni. Da due anni è sola con suo figlio, in un paese straniero. Il marito è tornato in India perché non era riuscito a rinnovare il suo permesso di soggiorno, e da allora sono iniziati i problemi.

“Quando sei una donna, soprattutto immigrata, sola e con un figlio piccolo, gli uomini—sia italiani che indiani—si sentono più liberi di tormentarti,” racconta a VICE. “Ti vedono sola, anche per strada, e subito ti vengono dietro. Per loro sono una preda, non una persona. E meno disponibile sei, più vieni descritta come una una donna ‘facile’ e quindi sei emarginata.” 

La donna è seguita dall’associazione Tempi Moderni, che opera principalmente nell’Agro Pontino, una zona del basso Lazio a meno di cento chilometri da Roma. Il territorio in questione è un’area prevalentemente agricola che rifornisce di frutta, verdura e fiori aziende e supermercati in tutta Europa. 

Oltre a ciò, l’Agro Pontino è noto per le gravi forme di sfruttamento e caporalato che da parecchi anni colpiscono soprattutto le persone di origine indiana. I caporali riescono a gestire anche centinaia di lavoratori, che vengono reclutati per lavorare nelle aziende e cooperative agricole locali. 

“Questi ‘capi’,” spiega Amrita, “sono spesso indiani e purtroppo molestano le lavoratrici, dentro e fuori l'azienda. Finché fai la ‘carina’ con loro resti nel libro bianco, sennò entri nel libro nero.” Essere nel libro nero significa molte cose: l’isolamento, l’assegnazione del posto di lavoro peggiore (come impacchettare la verdura o lavorare nei campi), il mancato rinnovo del contratto e infine il licenziamento, che equivale anche alla fine del permesso di soggiorno.

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Non sono però solo i connazionali di Amrita ad approfittarsene. “Una volta ho fatto un colloquio in un centro estetico gestito da un italiano, che aveva cercato di farmi prostituire dicendomi che ci avrei guadagnato molti soldi,” ricorda. “Dopo aver rifiutato mi ha chiesto esplicitamente di avere una relazione con lui.” 

Quando sei una donna, soprattutto immigrata, sola e con un figlio piccolo, gli uomini si sentono più liberi di tormentarti.

A ogni modo, dice Amrita, “ho deciso di alzare la mia voce contro questi uomini, sto provando a combatterli. Ho presentato diverse denunce, ma le persecuzioni non sono ancora finite.” 

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Un sistema di sfruttamento, schiavitù e violenza

La comunità di lavoratori agricoli è formata in larghissima parte da indiani di religione sikh, che hanno iniziato a stabilirsi tra Aprilia, Latina, Sabaudia e Terracina alla fine degli anni Ottanta per lavorare nei campi e negli allevamenti pontini.

Il fenomeno non è solo ed esclusivamente migratorio, ma anche socio-economico. “Siamo di fronte a un sistema ben consolidato per importare manodopera a basso costo da una regione specifica dell’India, il Punjab,” spiega a VICE Giovanni Gioia, segretario della Cgil di Frosinone e Latina. 

Il paradosso, continua, è che i punjabi emigrano proprio per “non lavorare più la terra, e sperando di migliorare le proprie condizioni si indebitano con trafficanti sia in patria che in Italia.” Qui si trovano però in condizioni di sfruttamento che possono essere paragonate alla schiavitù, com’è emerso anche dalla relazione intermedia della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, presentata nell’aprile del 2022.

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L’associazione Tempi Moderni, a partire dal 2010, è stata tra le prime a svelare il sistema di sfruttamento e traffico di esseri umani verso l’Agro Pontino. “Quando abbiamo iniziato a indagare con una ricerca sociologica all’interno della comunità,” dice a VICE la vicepresidente dell’associazione Pina Sodano, “abbiamo scoperto non solo che a volte venivano pagati meno di un euro all’ora, ma che erano disumanizzati.”

Ad esempio, ricorda sempre Sodano, “dovevano chiamare il datore di lavoro ‘padrone’, dovevano camminare un passo indietro a loro, a volte venivano picchiati, ed erano costretti a lavorare anche 12-14 ore al giorno in serra tutti i giorni del mese.”

A parte le denunce e le inchieste, Tempi Moderni ha contribuito a organizzare—insieme alla Cgil e alla cooperativa In Migrazione—il primo sciopero dei lavoratori sikh in Italia, avvenuto il 18 aprile del 2016. Quel giorno, ricorda Gioia, “siamo riusciti a portare oltre quattromila indiani sotto la prefettura per chiedere il rispetto dei diritti umani e del lavoro, sebbene molti di loro fossero senza contratto e quindi a rischio espulsione.” 

Dovevano chiamare il datore di lavoro ‘padrone’, dovevano camminare un passo indietro a loro, a volte venivano picchiati.

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Nonostante le lotte sindacali, la sensibilizzazione e la maggiore attenzione sul tema, negli ultimi tempi si è registrata una preoccupante escalation di violenza. Secondo fonti investigative consultate da VICE, all’interno della comunità indiana si è infatti scatenata una guerra tra i vari leader per controllare il territorio e garantire ai connazionali servizi vari—come alloggi, distribuzioni di generi alimentari, consulenze e protezione, il tutto ovviamente in cambio di soldi. 

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Nell’ottobre del 2021 il 29enne Singh Jaseer è stato ucciso nella sua abitazione a Borgo Montello (in provincia di Latina) da alcuni connazionali che avevano organizzato una spedizione punitiva. Il procuratore capo di Latina Giuseppe De Falco ha parlato a VICE di un fatto “molto grave,” perché dimostra “la volontà di alcuni appartenenti alla comunità indiana di agire con dei metodi intimidatori e vessatori tipici delle organizzazioni criminali, che noi purtroppo in Italia conosciamo bene.” Nell’aprile del 2022 sono state arrestate nove persone per quell’omicidio

Un episodio simile si è verificato il 20 maggio del 2022: due lavoratori indiani sono stati selvaggiamente picchiati nel comune di Pontinia perché non subordinati agli ordini e agli interessi dei capi della comunità indiana. Gli inquirenti ritengono che stia nascendo una sorta di “mafia indiana”, che collabora con le mafie autoctone e aspira a controllare una comunità molto numerosa e radicata—le rilevazioni ufficiali dell’Istat parlano di tredicimila residenti, mentre le cifre reali si aggirano sui trentamila.

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Le molestie e gli abusi nei confronti delle donne indiane

Le donne nell’Agro Pontino sono arrivate dopo gli uomini, intorno alla prima metà degli anni Duemila. Secondo una ricerca della ong WeWorld pubblicata nel 2021, le loro condizioni lavorative e sociali sono ancora più dure e proibitive di quelle dei maschi. 

La donna indiana viene infatti reclutata solo se c’è bisogno di manodopera extra, ha l’obbligo del silenzio e viene retribuita anche il trenta percento in meno rispetto agli uomini (che già sono sfruttati): se un lavoratore prende 4,50 euro all’ora, al posto dei 9 che gli spetterebbero per contratto, la donna si ferma a circa 3 euro l’ora. 

La debolezza è acuita anche dalla posizione della donna all’interno della famiglia tradizionale indiana. “Se l’uomo riesce a denunciare le sue condizioni di lavoro, i caporali o i datori di lavoro,” dice Pina Sodano di Tempi Moderni, “la donna prima di denunciare deve passare dal marito che spesso la induce a rinunciare, perché una donna che si espone può creare problemi familiari.” 

A questo si aggiunge anche quello che Sodano chiama uno “sfruttamento specifico” fatto di “ricatti sessuali, violenza ed emarginazione.” In alcune aziende sono stati scoperti capannoni e magazzini in cui padroni e caporali violentavano le braccianti. In altri casi, documentati dalla CGIL locale e da Tempi Moderni, i caporali hanno preteso rapporti sessuali per rinnovare i contratti o saldare le retribuzioni arretrate.

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Tuttavia, le donne indiane non ne parlano tra loro per paura di diventare obiettivo di maldicenze e violenze anche in famiglia. Quando abbiamo visitato il tempio sikh di Sabaudia per fare alcune domande sul tema, la risposta più comune che abbiamo ricevuto è la seguente: “A me non è mai successo, ma ne conosco tante a cui è capitato.” 

Lila*, una donna indiana che ha denunciato i datori di lavoro italiani grazie all’assistenza legale di Tempi Moderni e dell’associazione Progetto Diritti, racconta a VICE che “nella nostra cultura se una donna riceve proposte sessuali dagli uomini è ritenuta lei stessa colpevole di quel comportamento: quindi è lei che deve modificare il suo atteggiamento, smettere di truccarsi o di vestirsi bene.”

La donna è arrivata in provincia di Latina nel 2007 insieme alla madre, che stava fuggendo da un matrimonio violento. Quest’ultima ha dovuto subire gravi molestie, perché considerata attraente da padroni italiani e caporali indiani. 

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Anche Lila racconta di essere stata colpita in prima persona da molestie, e di conoscere alcune “aziende agricole dove i proprietari hanno provato a sfruttare sessualmente le lavoratrici.” Non si tratta di aziende piccole, ma di realtà produttive che fatturano milioni di euro e impiegano centinaia di braccianti. 

Il sistema, prosegue la donna, si regge su perverso intreccio di brutalità, sfruttamento e omertà: “Le donne che si lamentano del lavoro, per le ore eccessive, i salari bassi o le molestie, potrebbero essere licenziate. Lo stesso vale se si lamentano con il marito.” 

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Abbiamo visto una violenza inaudita che rimane impressa nei corpi delle donne. Si può parlare di vera e propria tortura in alcuni casi.

La violenza domestica è un’altra componente comune di queste storie, che è molto complicato far emergere. Come spiegano a VICE le operatrici del Centro Donna Lilith di Latina, le donne indiane che riescono a prendere in carico sono pochissime—e nei pochi casi in cui intervengono, ciò avviene perché i vicini hanno chiamato la polizia a seguito di episodi di violenza eclatante. 

“Nei casi che abbiamo incrociato,” racconta l’operatrice Francesca Innocenti, “abbiamo visto una violenza inaudita che rimane impressa nei corpi delle donne: bruciature di sigarette, sfregi. Si può parlare di vera e propria tortura in alcuni casi”. Ma anche in questi casi, continua, “è difficilissimo convincerle a iniziare un percorso con noi, dato che la pressione familiare è troppo forte.”

In una delle case rifugio del Centro Lilith risiede Sara*, anche lei originaria del Punjab. A VICE racconta di essersi dovuta sposare a 25 anni attraverso un matrimonio combinato con un indiano residente in Italia, su pressione della famiglia.

Quando è rimasta incinta, l’uomo ha iniziato a picchiarla. Sara dice di aver provato a lasciarlo più volte, ma le famiglie di entrambi l’hanno pregata di non fare nulla perché l’arresto del marito sarebbe stata una vergogna per tutti. Dopo l’ennesimo pestaggio, però, Sara ha chiamato le forze dell’ordine e iniziato un percorso di autonomia insieme al Centro Lilith, iniziando anche a lavorare in una cooperativa. 

Pur di fronte a tutte queste difficoltà, sottolinea Pina Sodano di Tempi Moderni, “registriamo un aumento del numero di donne indiane che ci confidano maltrattamenti e violenza, sia domestiche che sul posto di lavoro, e questo è estremamente positivo.” 

Denunciare rimane tutt’altro che facile, perché spesso e volentieri costa l’emarginazione e lo stigma. Amrita, ad esempio, non si è vista rinnovare il contratto e non si fida più della sua comunità; eppure, non ha alcuna intenzione di tornare in India. 

“Le donne single come me non le lasciano vivere,” conclude. “Qui è difficile, ma almeno io e mio figlio abbiamo una possibilità.”

* Alcuni nomi sono stati cambiati su richiesta delle intervistate per riservatezza.