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Tra deliri e complotti, il dibattito italiano sul #FridaysForFuture è già spazzatura

Lo sciopero globale del 15 marzo sui cambiamenti climatici, partito dall'attivista svedese Greta Thunberg, ha tirato fuori il peggio.
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Greta Thunberg. Foto via Instagram.

E adesso, dopo la manifestazione globale di venerdì, la situazione climatica è cambiata? No, per nulla. E nessuno ha mai detto che sarebbe successo.

Nonostante questo, molta gente si è sentita in dover di farlo notare, e ne ha anche approfittato per denigrare quanti (giovani soprattutto) sono scesi in piazza in varie parti del mondo contro il lassismo dei governi nel far fronte al problema del surriscaldamento globale—problema da tempo riconosciuto dalla scienza e che, tra meno di vent’anni, dovrebbe diventare irreversibile.

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Le critiche sono state rivolte in primo luogo al simbolo che ha ispirato la manifestazione, la sedicenne svedese Greta Thunberg. “Un personaggio da film horror” secondo la fine analista Rita Pavone (che poi si è scusata dicendo “non sapevo avesse l’Asperger,” come se il problema fosse quello), riflessione confermata dall’economista e senatore della Lega Alberto Bagnai e ampliata dalla giornalista Maria Giovanna Maglie, che l'avrebbe addirittura "messa sotto con la macchina," se solo non avesse la sindrome di Asperger.

Al coro si è aggiunto il filosofo Diego Fusaro, che ha definito Thunberg “il nuovo programma dell’élite cosmopolita.” Da lì in avanti è partita l’ondata complottista: Greta Thunberg macchinazione per favorire la carriera della madre; trovata pubblicitaria per il lancio di un libro; burattino di Rothschild e Soros; o direttamente in combutta massonica con Jean-Claude Juncker (come ha scoperto il senatore leghista Pillon).

Ci troviamo di fronte al campionario completo della propaganda dell’estrema destra, che da sempre dipinge gli ambientalisti come marionette delle élite che spacciano la favola della crisi climatica per distruggere la nostra economia—magari a favore di quella cinese (non ridete: è la teoria di Donald Trump).

Da Thunberg, la diffamazione della protesta dei #FridaysforFuture si è poi estesa a tutti i ragazzi che vi hanno preso parte, con stupende trovate come la bufala delle strade lasciate sporche dopo la manifestazione o le interviste alla Milanese Imbruttito de Il Messaggero.

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Ma non sono mancate le critiche nemmeno da ambienti "liberali." Giuliano Ferrara, ad esempio, ha detto di aborrire "le treccine [di Thunberg] e il mondo falso e bugiardo che le si intreccia intorno”—parole non molto distanti da quelle di Rita Pavone. Del resto Il Foglio, giornale da lui fondato, proprio il 15 marzo se ne usciva con tre articoli straordinari: il primo si schierava contro le ragazze ecologiste, “nuovi volti dell’ambientalismo corretto, quello che nessuno si sognerebbe di attaccare,” manovrate da adulti che “tirano su generazioni di climaticamente corretti per sentirsi con la coscienza a posto”; il secondo spiegava che i giovani di FFF hanno manifestato “contro le generazioni precedenti, colpevoli di averli messi al mondo e fatti crescere con tutti i comfort,” quasi contraddicendo quello precedente; e il terzo vaneggiava di “gretismo,” “gretini” e “ambientalisti fricchettoni.”

Il vero punto, tuttavia, è che a molti di noi questa faccenda dell’ecologia ha sempre creato un grande fastidio—perché implica un ripensamento del nostro stile di vita e del nostro sistema produttivo. I ragazzi di #FridaysforFuture hanno avuto il grande merito di toccare un nervo scoperto della nostra società.

Quanti partiti, alle ultime elezioni italiane, hanno messo al centro del programma l’ecologia? Praticamente nessuno. Lo stesso lo si può notare in qualsiasi altro paese occidentale.

Non è dell’elettorato la colpa, o almeno non in primo luogo: la politica è vincente quando riesce a creare una narrazione, e nessun politico in questi anni ha mai provato a parlare seriamente di ecologia e del problema del surriscaldamento globale, costruendoci attorno una strategia comunicativa. È qui che tornano in scena le responsabilità del giornalismo, che in Italia non ha sinceramente mai capito nulla dell’argomento e, di conseguenza, lo ha sempre riportato in maniera superficiale ed errata.

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La dimostrazione la si ritrova in uno degli articoli più condivisi in queste ore, quello di Francesco Costa de Il Post, che inserisce la protesta della Thunberg nella dialettica popolo vs. élite, collocando stavolta la giovane attivista sul fronte del “popolo”, secondo Costa vero responsabile del problema climatico. Nel pezzo Costa giustifica le proprie teorie citando i dati dell’inquinamento dell’aria e non quelli delle emissioni pro-capite di CO2, semplificando inoltre nel contestualizzarli. Se torniamo al 2016 possiamo trovare addirittura un editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera in cui definisce “ignobile accodarsi al linciaggio di chi muove legittime obiezioni all’assunto che riconduce interamente all’uomo il surriscaldamento del pianeta,” descrivendo come dei fanatici coloro che sostengono che il problema climatico sia causato dagli esseri umani. Due anni più tardi, un nuovo pezzo firmato da Mauro Della Porta Raffo sosteneva che “l’inquinamento causato dall’uomo ha niente o pochissimo a che fare col riscaldamento globale.”

Può formarsi una seria coscienza ecologista in un paese con questo tipo di informazione? Difficile, visto che alla fine i principali quotidiani hanno quasi del tutto ignorato i contenuti della protesta del 15 marzo, preferendo raccontare ai lettori gli aspetti più banali: prima usando come figura catalizzatrice Greta Thunberg, con la sua storia famigliare e la sindrome di Asperger; poi raccontando dei giovani che si ribellano, indugiando in particolare sulla loro ingenuità e alimentando una confortante narrazione per gli adulti (poi lamentiamoci che i ragazzi non leggono i giornali, mi raccomando); e infine provando anche a identificare la “Greta italiana,” ovvero un nuovo simbolo della protesta, più prossimo a noi, facilmente identificabile e, nel caso, comodamente detestabile.

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La verità è che i critici di turno si sentono sempre infastiditi da chi dice “state sbagliando,” e lo sono ancora di più se la frase è pronunciata da adolescenti (pur con tutte le loro contraddizioni), come ha dimostrato il florido paternalismo di cui si è letto in questi giorni. Ciò che sorprende è la difficoltà che tante persone, e non solo i soliti ignoranti, hanno avuto nel decodificare un messaggio semplicissimo come quello su cui è incentrato #FridaysforFuture: “adulti, uomini di potere, fate qualcosa, perché noi siamo troppo giovani per agire e, quando potremo farlo, sarà già troppo tardi.”

A ben vedere, non c’è proprio nulla di cui indispettirsi: questi giovani, agli adulti e ai potenti di oggi, hanno riconosciuto la possibilità e la capacità di fare qualcosa di concreto, e li hanno esortati a farlo. Nessuna guerra generazionale, nessun populismo—solo la richiesta di agire, e di farlo ora. E forse sta lì il loro vero errore: quello di credere che chi si è sempre disinteressato del problema adesso possa cambiare radicalmente mentalità.

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