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100 giorni di prigione: il nostro collega Rasool è ancora in carcere in Turchia

Nei giorni scorsi, il nostro collega ha trascorso il suo centesimo giorno dietro le sbarre. La sua liberazione, o perlomeno un giusto processo, sembrano un'opzione remota tanto oggi quanto 89 giorni fa, il giorno in cui io e Phil fummo rilasciati.
Foto via VICE News

  • Il giornalista e fixer di VICE News Mohammed Rasool è detenuto da oltre 100 giorni in Turchia senza un regolare processo.

  • L'avvocato turco che difendeva gli interessi dei giornalisti di VICE News arrestati è stato ucciso una settimana fa, nel corso di una conferenza stampa. 

  • La detenzione immotivata di giornalisti continua senza sosta in Turchia: altri due reporter sono stati arrestati con la falsa accusa di favoreggiamento del terrorismo.

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La nostra prima impressione della prigione di Adana Kurkculer fu, come ci aspettavamo, terribile. A bordo di un veicolo militare, ammanettati e controllati a vista da guardie armate, fummo condotti attraverso numerosi cancelli di sicurezza. Ci puntarono addosso le mitragliette, spingendoci all'interno di una stanza. Fu un 'benvenuto' feroce. La parola "ISID" - l'acronimo turco che indica lo Stato Islamico - era scritta su tutti i muri, con il sangue.

Io, Phil e Rasool camminavamo avanti e indietro per la stanza, preoccupati di quello che ci sarebbe potuto succedere. Eravamo nelle loro mani da sei giorni, e il nostro arresto era basato su un'accusa insensata: supportare il terrorismo. Quella di Adana era già la terza prigione in cui venivamo trasferiti. Qui è dove, secondo le guardie, la Turchia rinchiude i "terroristi di IS." Guardando quelle scritte insanguinate sui muri, tutto tornava.

Quello che non aveva senso era il motivo per cui ci trovavamo lì. Stavamo svolgendo soltanto il nostro lavoro, raccontando il cruento conflitto nel sud-est del paese tra il governo turco e il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Il solo fatto di essere giornalisti ci aveva fatto finire dietro le sbarre.

Nel secondo giorno di prigionia ad Adana, un carcere di massima sicurezza, Rasool ci aiutò a non pensare allo scorrere del tempo, che pareva interminabile. Cominciò a pianificare la grande festa che avremmo fatto una volta liberati. In quella piccola, orribile cella immaginammo una settimana di "follie" da vivere tutti assieme appena rientrati nel mondo esterno, ignorando per un istante il fatto che nessuno di noi sapeva quando e se saremmo stati liberati.

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"Devo venire a Londra insieme a voi, ragazzi," rise, e la sua faccia si illuminò al solo pensiero di quel viaggio. Mohammed non è mai stato nel Regno Unito. "Hey, sarebbe fantastico. Non dormiremmo per giorni."

Leggi anche: La Turchia deve liberare immediatamente il nostro collega Mohammed Rasool

Discutemmo a lungo sulle "regole" di una notte di divertimenti in perfetto stile british. Rasool ascoltò con attenzione, ridendo alle nostre stupide osservazioni, paragonandole di tanto in tanto alle sue avventure a Istanbul, la città in cui vive. Fu un momento di relax e distrazione di cui avevamo un bisogno disperato, vista la paurosa incertezza che regnava sul nostro destino all'interno della prigione.

Quella festa, però, non arrivò mai. Non per Rasool. Nei giorni scorsi, il nostro collega ha trascorso il suo centesimo giorno dietro le sbarre. La sua liberazione, o perlomeno un giusto processo, sembrano un'opzione remota tanto oggi quanto 89 giorni fa, il giorno in cui io e Phil fummo rilasciati. Rasool è imprigionato in un limbo. Le autorità turche spiegano che stanno ancora investigando — ma l'indagine, negli ultimi cento giorni, non ha fatto progressi. E le cose stanno peggiorando.

Una settimana fa, il nostro avvocato Tahir Elci è stato ucciso a Diyarbakir, nel sud-est della Turchia. Stava tenendo una conferenza stampa in cui chiedeva una tregua tra il paese e il PKK. Le sue ultime parole, prima di essere colpito alla testa da una pallottola, furono: "Non vogliamo pistole, scontri o operazioni militari in questa regione."

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Tahir aveva 49 anni. Lascia una moglie e due figlie. Ho guardato il suo funerale in televisione. Una delle figlie, Nazenin, ha urlato "Bavo ez bimrim!" ("Lascia che io muoia, papà"), camminando di fianco alla bara. Migliaia di persone la seguivano, omaggiando la figura di Tahir e una vita spesa a combattere per difendere i diritti umani.

Tahir era un uomo buono. Ci venne ad aiutare quando avevamo bisogno. Eravamo stati portati in tribunale dopo avere trascorso i primi quattro giorni in custodia. Il procuratore stava ripercorrendo gli elementi del caso. Tahir entrò improvvisamente, ci strinse le mani e disse "Tutto questo è alquanto bizzarro." Spiegò chi era e disse che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarci. Combatté duramente per noi in tribunale, senza tuttavia riuscire a persuadere il procuratore a liberarci. Le ultime parole che mi disse furono: "Ora andrete in prigione. Ma non preoccupatevi."

Nessuno sa, a oggi, chi abbia ucciso Tahir Elci.

***

In questi ultimi cento giorni, io e Phil abbiamo cercato di sollevare l'attenzione internazionale sul caso di Rasool. Dobbiamo ringraziare decine di persone e organizzazioni che ci hanno dato una mano a spargere la voce: VICE, il Committee to Protect Journalists, PEN International, Amnesty International, Reporters Without Borders, il Rory Peck Trust, oltre a centinaia di altre donne e uomini in tutto il mondo.

Persone che non abbiamo mai incontrato prima ci contattano, ci chiedono come possono aiutarci. È stato straordinario, ci ha reso più umili. Le persone vogliono davvero darci una mano. E non importa a quante cerimonie di premiazione andiamo, quante mani stringiamo e quanti sorrisi incrociano — nessuno di essi conta davvero, perché Rasool non è qui con noi. È ancora in prigione.

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Il suo percorso scolastico si è interrotto; dietro le sbarre, Rasool non può finire il master che stava frequentando. Il suo intelletto e la sua esperienza professionale ci mancano, a noi e ai nostri colleghi. La sua assenza, cosa più tremenda, ha lasciato un buco incolmabile nella sua famiglia. Anche se me ne fosse data la possibilità, non credo che riuscirei a guardare sua madre negli occhi — una donna che lui ama così profondamente. Si sentirà distrutta in ogni momento.

E non posso nemmeno lontanamente immaginare come si senta Rasool. Quando ci vivevamo in tre, quella cella senz'aria sembrava uno dei posti più desolati al mondo. Ora si trova lì dentro da solo, o con persone che non conosce, ed è passata un'eternità. Ogni giorno siamo atterriti all'idea che possa trascorrere un altro compleanno in prigione.

Ma nonostante quest'attesa che pare infinita, la speranza non è perduta. Rasool è innocente. È una persona forte.

"Gli uomini veri vanno in prigione," disse a me e Phil una notte che fummo condotti a un vicino ospedale per dei check-up medici. Scoppiammo a ridere. Era una di quelle tipiche frasi di Rasool — sarcastica e divertente. Lui, tuttavia, precisò: "Le persone forti possono sopravvivere alla prigione." Io no, non ce la farei. Ma se c'è qualcuno che può, è proprio Rasool.

Al momento circa 30 giornalisti sono imprigionati in Turchia. Mohammed Ismael Rasool, Ali Konar, Erdal Susem, Erol Zavar, Ferhat Ciftci, Gurbet Cakar, Hamit Dilbahar, Hatice Dunman, Hidayet Karaca, Kamuran Sunbat, Kenan Karavil, Mikail Barut, Mikdat Algul, Mustafa Gok, Tahsin Sagaltici, Nuri Yesil, Sami Tunca, Sevcan Atak, Seyithan Akyuz, Sahabattin Demir, Yilmaz Kahraman, Mehmet Baransu, Ozgur Amed, Gultekin Avci, Cevheri Guven, Murat Capan, Idris Yilmaz, Vildan Atmaca, Erdem Gul e Can Dundar. Tutti sono stati incarcerati mentre svolgevano il proprio lavoro.

Da quando il presidente Recep Tayyip Erdogan ha vinto le ultime elezioni in Turchia, a novembre, molti giornalisti sono stati arrestati. Recentemente il direttore del giornale di opposizione Cumhuriyet, Erdem Gul, è stato incarcerato insieme al giornalista Can Dundar, che sulla stessa testata scrisse un articolo denunciando il traffico clandestino di armi dai servizi segreti turchi al gruppo jihadista siriano al Nusra. Anche loro, come Rasool, sono detenuti senza un regolare processo e accusati di terrorismo.

Io e Phil non possiamo comunicare direttamente con Rasool, ma abbiamo saputo che tutto sommato sta bene, considerata la situazione. Ma le cose non potranno mai andare veramente "bene" finché lui si troverà in cella. Non andranno bene finché non sarà qui con noi, a godersi quella festa lunga una settimana.


Stiamo ancora combattendo perché il nostro amico e collega Mohammed Rasool sia rilasciato. Puoi aiutarci firmando la petizione per la sua liberazione o utilizzando l'hashtag #FreeRasool su Facebook e Twitter. Visita la pagina #FreeRasool sulla versione internazionale di VICE News per avere più informazioni.