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Abbiamo cercato di capire se l'Italia può permettersi il reddito di cittadinanza

In Italia la povertà assoluta riguarda quattro milioni di persone. Ecco perché il reddito minimo potrebbe essere una parziale soluzione al problema, e perché invece potrebbe non funzionare mai.
Foto di Valerio Bassan/VICE News

Nella notte dei festeggiamenti per i risultati dei ballottaggi del 19 giugno, il deputato del Movimento 5 Stelle Alessandro Di Battista spronava il governo ad accogliere le proposte del gruppo. "Ora Renzi approvi subito il reddito di cittadinanza," scandiva Di Battista di fronte alla folla, mentre Virginia Raggi veniva incoronata sindaco di Roma.

Matteo Renzi non ha tardato a rispondere, ribadendo la propria contrarietà alla misura. Già in passato il presidente del Consiglio aveva espresso considerazioni non proprio lusinghiere sul reddito di cittadinanza, che aveva definito "Una cosa da furbi," ed "Elemosina di Stato".

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Prima di entrare nel merito del dibattito, è però necessario fare una premessa. L'espressione 'reddito di cittadinanza', usata dal Movimento 5 Stelle per descrivere il disegno di legge depositato in Senato nell'ottobre 2013 dai propri parlamentari, è errata. Ciò che propongono i 5 Stelle è invece una forma di reddito minimo garantito.

La differenza è sostanziale: mentre il reddito di cittadinanza viene erogato a tutti i cittadini di un determinato paese a prescindere dalla loro condizione economica e patrimoniale, il reddito minimo garantito è dedicato alla fetta più povera della popolazione.

Il reddito minimo è rivolto infatti ai cittadini che non raggiungono una determinata soglia di introiti o patrimonio. Non è necessariamente destinato solo ai disoccupati, ma anche a coloro che, pur avendo un lavoro e guadagnando un salario, vivono al di sotto della soglia di povertà o di una soglia di reddito prestabilita.

Il reddito minimo garantito si propone quindi come un sostegno economico di tipo assistenziale più che come diritto universale, cosa che è invece il reddito di cittadinanza.

La povertà in Italia e le proposte per combatterla

Come riportano i dati Istat che fanno riferimento al 2014, in Italia la povertà assoluta - in aumento di due punti percentuali rispetto al 2012 - riguarda oltre quattro milioni di persone, di cui poco meno della metà risiede al Sud. I cosiddetti poveri relativi sono invece circa otto milioni. Si capisce quindi perché una misura di reddito minimo nel nostro paese è più necessaria che mai.

Le principali proposte di legge al riguardo - che giacciono in Parlamento in attesa di essere calendarizzate - sono quattro, ossia il reddito minimo di cui parla il Movimento 5 Stelle, il reddito minimo garantito di Sinistra Ecologia e Libertà (Sel), il reddito minimo di cittadinanza attiva del Partito Democratico e il reddito d'inclusione sociale (REIS) dell'Alleanza contro la povertà in Italia.

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Lo scorso febbraio il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Giuliano Poletti ha annunciato che le famiglie più povere riceveranno un sussidio di 320 euro al mesesulla scia del Sostegno di inclusione attiva (Sia) approvato durante il governo Letta.

L'esperimento di Livorno

"Dovrebbe esistere un minimo sindacale di cui ogni individuo possa disporre per vivere - e non sopravvivere - senza dover elemosinare," dice a VICE News Filippo Nogarin, sindaco di Livorno del Movimento 5 Stelle, dove è in corso una sperimentazione di reddito minimo. "È un modo per permettere alle persone di compiere cose banali come fare la spesa, estinguere un debito, pagare una bolletta."

Un esperimento di sei mesi che possono richiedere disoccupati, italiani o stranieri, residente in città da almeno cinque anni. I beneficiari sono 100, a fronte di oltre 900 richieste ricevute. La graduatoria è stata pubblicata lo scorso marzo.

"Serve una misura universale, in grado di offrire alla gente un'esistenza dignitosa e di soccorrerla quando cade sotto la soglia di povertà," aggiunge Dora Gambardella, professoressa di sociologia all'Università degli Studi di Napoli e autrice di La valutazione del Reddito di Cittadinanza a Napoli.

Ma il ragionamento di Andrea Fumagalli, professore di economia all'Università di Pavia e socio fondatore dell'associazione Basic Income Network, è ancora più categorico.

Secondo un sondaggio della società Dalia Research, il 69 per cento degli italiani sarebbe favorevole all'introduzione di un reddito minimo.

L'economista utilizza l'espressione 'reddito di base', che descrive come una forma di retribuzione versata attraverso la fiscalità generale a ogni individuo sotto la soglia di povertà relativa, residente in un determinato territorio.

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"Tutte le proposte in Europa e in Italia rientrano in una logica di tipo assistenziale, mentre io credo che il reddito di base debba rappresentare una remunerazione della ricchezza prodotta da ognuno," spiega Fumagalli.

"Oggi semplicemente vivendo e utilizzando le nostre facoltà - per esempio, quando usiamo i social network o attraverso la pubblicità - siamo inseriti in una catena che produce valore. Il reddito deve remunerare questo tipo di ricchezza elargita in modo gratuito."

La coda all'esterno di Pane Quotidiano, a Milano. [Foto di Valerio Bassan/VICE News]

Ma il reddito minimo è economicamente sostenibile?

Il principale tema di discussione è però se una misura del genere sarebbe economicamente sostenibile nel nostro paese.

La risposta data dal governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco all'ultimo Festival dell'Economia di Trento è stata un secco no. "Un reddito minimo universale di 500 euro a cittadino per 12 mesi vale il 20 per cento del Prodotto Interno Lordo (PIL): non è possibile da pensare," aveva affermato Visco.

Ma l'economista chiaramente si riferiva a una misura assimilabile al reddito di cittadinanza, rivolto a tutti gli italiani adulti a prescindere dalle loro condizioni economiche — 500 euro al mese per 50 milioni di persone maggiorenni equivalgono a 300 miliardi in un anno.

Leggi anche: Ecco perché sarebbe giusto regalare dei soldi a tutti i cittadini

Se si dà un'occhiata ai vari disegni di legge ci si accorge subito che le stime di spesa sono molto più basse.

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L'Istat ha calcolato che la proposta dei 5 Stelle, che prevede di dare un sussidio agli individui a basso reddito fino al raggiungimento della cosiddetta soglia di povertà relativa (pari a 780 euro, ossia il 60 per cento del reddito medio nazionale), costerebbe 15 miliardi di euro all'anno, vale a dire a un punto percentuale del PIL.

Per istituire il reddito minimo garantito di Sel - un'integrazione fissa di 600 euro mensili a chi ha un Isee inferiore a 8mila euro - servirebbero invece oltre 23 miliardi di euro.

I 500 euro del Pd per disoccupati, inoccupati e precari porterebbero a una spesa di due miliardi di euro all'anno (o di sette miliardi, secondo la più recente dichiarazione del deputato Pd Roberto Speranza), mentre il costo annuale del reddito di inclusione sociale, che propone un sussidio di 400 euro mensili alle persone in condizioni di povertà assoluta — con un allargamento progressivo della platea dei beneficiari - costerebbe a regime circa sette miliardi di euro.

Il problema è dove recuperare i soldi, soprattutto per quanto riguarda i due progetti più costosi. Se il Movimento 5 Stelle propone, fra le altre cose, di ridurre le pensioni d'oro, di aumentare la tassazione sul gioco d'azzardo e di tagliare il fondo per il finanziamento pubblico ai partiti, Sel invece non fa alcun riferimento alle coperture finanziarie della propria proposta.

In ogni caso, tutti gli schieramenti politici e non hanno sottolineato il notevole risparmio che deriverebbe dalla razionalizzazione del sistema degli ammortizzatori sociali, che nel 2014 hanno comportato una spesa di quasi 24 miliardi di euro per un totale di 3,9 milioni di cittadini.

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"Serve una revisione della nostra spesa sociale, troppo sbilanciata a favore delle pensioni e dei lavoratori regolari dipendenti," sostiene Dora Gambardella.

La gente smetterebbe davvero di lavorare?

Fumagalli si spinge ancora oltre, e afferma che il reddito di base non dovrebbe essere condizionato dall'obbligo di accettare qualsiasi genere di offerta di lavoro dei centri per l'impiego. "Ciò significherebbe dare la possibilità alle persone di rifiutare offerte di lavoro capestro."

"Ci sarebbero lavori che nessuno vorrebbe più fare: bisognerebbe quindi pagarli meglio o farli svolgere a delle macchine," spiega a VICE News l'economista, che evidenza la necessità di introdurre, insieme al reddito di base, anche un salario minimo.

"Le persone avrebbero più libertà di scelta e maggiori soddisfazioni," prosegue Fumagalli. "Potrebbero seguire le proprie inclinazioni, e così sarebbero anche più produttive."

Uomini e donne in coda a Pane Quotidiano, una mensa per poveri di Milano. [Foto di Valerio Bassan/VICE News]

Il professore cita un sondaggio realizzato in Svizzera - dove a inizio giugno è stato bocciato il referendum sull'istituzione di un vero e proprio reddito di cittadinanza - secondo cui, a fronte di un reddito garantito, solo il due per cento degli intervistati smetterebbe di lavorare.

Tutti i disegni di legge italiani prevedono invece che i beneficiari della misura non possano rifiutare oltre un certo numero di proposte lavorative, anche se M5S e Sel introducono il concetto di congruità dell'offerta, che deve avere un minimo di attinenza con le competenze della persona.

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"Le misure di reddito tendono a creare la cosiddetta 'trappola della povertà', ossia rischiano di disincentivare gli individui con un basso reddito a cercare lavoro", spiega a VICE News Paola Monti, coordinatrice della ricerca presso la Fondazione Debenedetti.

"Per questo servono misure correttive: il sostegno economico non dev'essere troppo elevato, e i programmi di inserimento lavorativo e sociale sono fondamentali."

D'altro canto, secondo Monti, "tutto dipende dal tipo di beneficiario che si ha di fronte: è impensabile porre il vincolo dell'offerta di lavoro a una donna con famiglia monoparentale e molti figli piccoli, o a un anziano."

Leggi anche: Quanto sono messe male le pensioni dei giovani italiani rispetto a quelle degli altri paesi?

"Bisogna tenere conto del contesto," afferma Dora Gambardella. "In ogni caso, dubito che qualcuno in condizioni di povertà rifiuterebbe un impiego. Il rischio semmai è che, senza un controllo istituzionale a monte, si crei un mercato di Serie C, in cui le persone sono costrette ad accettare lavori sottopagati o non adeguati alle loro caratteristiche."

Un controllo a livello centrale - insieme ai programmi di accompagnamento al reddito minimo e ai centri per l'impiego, che in Italia funzionano piuttosto male - appare determinante affinché l'iniziativa funzioni davvero.

"Dev'essere responsabilità dello stato centrale creare le condizioni infrastrutturali affinché i welfare locali operino al meglio, assicurarsi che i governi regionali seguano poche regole comuni per garantire parità dei diritti sul territorio nazionale, e, in ultima istanza, intervenire al posto di istituzioni inadempienti," dice Gambardella a VICE News.

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A detta di Gambardella, si tratta in ultima analisi di un investimento sociale di medio-lungo periodo. Allora perché in Italia non si è ancora riusciti a introdurre una misura strutturale di reddito minimo?

I motivi dietro al ritardo italiano

La Commissione Europea già nel 1992 invitava gli stati membri a muoversi in questa direzione, e quasi tutti i paesi nell'Unione Europea lo hanno fatto — ad eccezione di Italia e Grecia.

Il reddito minimo di inserimento voluto da Romano Prodi nel 1998, che rappresenta il primo tentativo italiano in tal senso, è stato soppresso da Silvio Berlusconi nel 2004 e non è mai più resuscitato, mentre le vari sperimentazioni a livello regionale non sembrano rappresentare una risposta reale al problema.

"Questo ritardo è dovuto soprattutto a un'opposizione politica: l'Italia è basata sui privilegi, sulle contrattazioni informali," afferma Andrea Fumagalli. "Ma a opporsi sono anche i sindacati tradizionali, che vedono il reddito minimo come un indebolimento della loro rappresentatività."

Inoltre, come spiega Paola Monti, "la maggior parte delle risorse sarebbe destinata al Sud, dove risiede circa la metà dei poveri. Per rendere la misura più equa, servirebbero soglie di accesso proporzionate al costo della vita di ogni area." E l'inefficienza dell'amministrazione italiana certo non aiuta.


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