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reportage

Siamo stati a Como, l’ultima frontiera della crisi dei migranti in Italia

Dopo la chiusura della frontiera svizzera, la stazione della città lombarda si è trasformata in un limbo in cui dove centinaia di donne, uomini, bambini e anziani aspettano di conoscere il loro destino.
[Foto di Luigi Mastrodonato/VICE News]

"Sono già stato respinto tre volte alla frontiera Svizzera. Io voglio solo andare in Germania, voglio quella libertà che mi è negata nel mio paese d'origine."

Mohammed, 24 anni, viene dalla Guinea Bissau. Da tre settimane, la sua "casa" è il piccolo parco di fronte alla Stazione San Giovanni di Como. Assieme a lui, centinaia di altri migranti provenienti dalle zone più disperate del mondo: Eritrea, Siria, Etiopia, Somalia.

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A Como è in atto una vera e propria emergenza-migranti. Se fino a qualche settimana fa i giornali raccontavano dei blocchi alle frontiere di Ventimiglia e del Brennero, oggi il confine italiano più caldo è quella con la Svizzera, tanto da portare la stampa estera a pubblicare articoli con toni di questo tenore:"Campo profughi vicino alla villa di Clooney" o "I vicini di Clooney sono furiosi perché i migranti si sono accampati vicino alle loro ville milionarie".

A Chiasso le frontiere sono state improvvisamente chiuse, e per i migranti che fino a poco tempo fa entravano in territorio elvetico con il treno da Milano non c'è più nulla da fare: arrivati alla stazione svizzera, vengono bloccati dalle autorità elvetiche, identificati e rispediti indietro. Prima le autorità locali permettevano l'ingresso di qualche centinaio di migranti al mese, che venivano smistati nei centri di accoglienza sparsi sul territorio elvetico in attesa di vagliare il permesso d'asilo. Oggi a Chiasso si è invece creato un tappo, e la situazione alla Stazione San Giovanni ne è la diretta conseguenza.

Como è diventata in pochi giorni un punto di interscambio nel lungo viaggio dei migranti verso il nord Europa. Persone che tentano in ogni modo di attraversare il confine, altre che restano in attesa di notizie da parte dei compagni andati in avanscoperta, altre ancora che vengono ricollocate con i pullman in altre località italiane, in primis Taranto.

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Il blocco non scoraggia tutti. C'è chi prova a nascondersi nei treni, chi percorre a piedi il tratto autostradale Como Monte Olimpino-Chiasso e chi, ancora, cerca di introdursi in Svizzera sfruttando i numerosi sentieri montani presenti nell'area. Proprio per sorvegliare questi ultimi spazi, le autorità elvetiche stanno continuando a utilizzare potenti droni a raggi infrarossi, in modo tale da mantenere un livello di vigilanza costante anche sulle zone più difficili da sorvegliare.

La frontiera è sigillata, e passare è praticamente impossibile. Tuttavia, anche a causa della questione Ventimiglia e della barriera del Brennero, completata nel weekend, per molti migranti quella comasca è la migliore delle soluzioni attualmente disponibili.

Intanto, però, la stazione si è trasformata in un limbo in cui dove centinaia di donne, uomini, bambini e anziani aspettano di conoscere il loro destino. Storie diverse, percorsi differenti, ma tutti accomunati da un elemento: l'attesa che qualcosa cambi alla frontiera.

VICE News è stata alla Stazione San Giovanni di Como per farsi raccontare la situazione da chi la sta vivendo sulla propria pelle.

La prima volta ci andiamo di sera. Sono le dieci passate, è ormai buio e da qualche ora si è concluso un violento temporale. Il giardino davanti alla stazione è affollato dai migranti che si stanno organizzando per trascorrere la notte in mezzo al fango causato dal diluvio.

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Arrivando in prossimità dello scalo dei treni la situazione non cambia: decine di persone sdraiate per terra, ma anche numerosi volontari che offrono assistenza. Tra loro, anche normali cittadini che scaricano dalle loro macchine buste di vestiti ed altri beni di prima necessità — una risposta all'appello della Caritas e della Croce Rossa affinché tutti i cittadini possano dare una mano nella gestione dell'emergenza.

Mentre mi trovo qui, la Croce Rossa sta installando due grandi tende a poche centinaia di metri di distanza, nello spazio ex-Stecav. Una trentina di posti letto da riservare alle persone più in difficoltà: tra i migranti della stazione ci sono in effetti alcune donne incinte e numerosi bambini. Il paradosso è però che molti migranti preferiscono restare in stazione, forse per un senso di solidarietà e unione con i compagni di viaggio.

Decidiamo di tornare il giorno dopo, verso l'ora di cena. Diversi pullmini della Croce Rossa si fermano e scaricano decine di migranti sul piazzale davanti alla stazione. Come ci spiegano i ragazzi di WelCom, osservatorio cittadino che monitora la questione, i pullman portano i migranti alla mensa della parrocchia di Rebbio (periferia sud di Como), "ma massimo 50/60 persone, dando la precedenza a donne e famiglie. Gli altri raggiungono a piedi l'altra mensa - quella di via Tommaso Grossi - o aspettano la Croce Rossa che porta i sacchetti verso le 21."

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Una volontaria illustra ad alcuni di loro la situazione in corso. "La frontiera con la Svizzera è ancora chiusa" spiega, "ora, per chi di voi volesse, proveremo a mettervi in contatto con i vostri familiari in patria. Quanti di voi non hanno ancora potuto parlare con loro da quando siete in Italia?" Quasi tutte le mani si alzano.

Interviene un ragazzo che ci tiene a raccontare la sua storia. "Io in Svizzera ci sono arrivato, eravamo a Zurigo fino a ieri," spiega in un buon inglese. "Con noi c'era una donna incinta, ha partorito proprio tre giorni fa. Subito dopo il parto, la polizia svizzera ci ha preso e ci ha sbattuto in una cella. Anche la donna! Poi ieri ci hanno rispedito qui, in Italia" grida concitato, mostrando alla volontaria un pugno di documenti che testimoniano la veridicità del suo racconto.

Questo non è l'unico episodio di violenza che ci viene raccontato. Un volontario ci narra la vicenda di un ragazzo con le stampelle che passeggia a pochi metri da me: è partito dal Corno d'Africa, e durante il suo lungo tragitto è finito per un periodo in un carcere libico. Qui ha subito ogni tipo di violenza, è stato torturato, e questo lo ha costretto a proseguire il suo viaggio in condizioni fisiche precarie una volta ottenuta la scarcerazione.

Guarda il video: Un migrante ha oltrepassato il confine tra Italia e Svizzera dentro una valigia

Mentre i volontari continuano a parlare ai migranti, spiegando della presenza dei droni ad infrarossi sul confine, ci avviciniamo ad un gruppo di ragazzi dell'Etiopia che staziona all'ingresso dello scalo dei treni. Sono in tre, ma solo uno di loro parla inglese. Si chiama Abdullah, ha 20 anni ed è in viaggio da circa sei mesi. In Etiopia era uno studente di liceo, così come i suoi due compagni, e ha scelto di scappare dalla disperazione del suo Paese. Ha attraversato gran parte dell'Africa, ha percorso lo stretto di Sicilia in gommone ed è arrivato a Lampedusa. Non vuole dirci quanto gli è costato il viaggio però, così come preferisce non essere fotografato.

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"Qui a Como sono tutti molto gentili, sia i volontari sia i cittadini" ci spiega, "vorrei trovare la stessa forma di accoglienza alla frontiera svizzera."

In realtà, Abdullah ha avuto problemi anche con le autorità italiane durante il suo viaggio. "Quando siamo arrivati a Lampedusa la polizia ci chiedeva di porgere le dita per prenderci le impronte, e poi manganellavano le mani. Io mi sono rifiutato di farlo, ma altri miei compagni hanno subito questo tipo di violenza."

Abdullah vuole andare in nord Europa, per lui come per gli altri la Svizzera è solo terra di passaggio. Si trova a Como da tre giorni, ma non sa dirci quali sono i suoi piani per il futuro più prossimo.

In effetti, a parte i pochi che ancora tentano di attraversare il confine nonostante il blocco, per il resto la gran parte dei migranti presenti in stazione vive in una situazione di attesa, nella speranza che qualcosa possa cambiare. Altri invece rinunciano, e in effetti negli ultimi giorni il numero dei migranti sembra essersi dimezzato rispetto alla settimana scorsa. Questo non vuol dire però che nei prossimi giorni l'emergenza - quanto meno a Como - sia destinata a rientrare.

"Quando queste persone si spostano è un po' come un'onda di piena. I migranti tra di loro comunicano, se qualcuno dice che è aperta una via tutti arrivano lì, se poi la via si chiude ci vuole del tempo per invertire il flusso" spiega a VICE News Roberto Bernasconi, Presidente della Caritas di Como. "La situazione è imprevedibile."

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Chiediamo a Bernasconi di spiegarci da cosa nasce il problema alla frontiera svizzera. "Prima i migranti riuscivano a passare il confine e si fermavano in stazione a Chiasso. Quelli interessati a ricevere asilo politico in Svizzera venivano inseriti nel giro di accoglienza". Adesso la situazione è totalmente diversa e c'è una forte chiusura da parte delle autorità elvetiche: "Li fermano al di qua della linea gialla che segna il confine e li fanno tornare tutti indietro."

Ma tutto è ciò è legale? "I maggiorenni che rispondono che non vogliono asilo possono essere mandati indietro. I minorenni no, dovrebbero restare lì perché hanno diritto all'accoglienza nel Paese in cui arrivano," continua il Presidente della Caritas comasca.

In stazione a Como, tuttavia, di minorenni ce ne sono moltissimi. Secondo Bernasconi il problema è il sottile confine esistente tra legalità e illegalità, che permette di creare degli escamotage giuridici che giustifichino certe condotte. "Ad esempio, se non c'è un mediatore culturale che parli la loro lingua è ovvio che non ti rispondono alle domande sull'asilo politico, anche perché loro di base hanno l'idea di andare verso il nord Europa. Manca tutta una parte di mediazione culturale sul confine che possa permettere a queste persone di decidere autonomamente."

Davanti alla chiusura da parte delle autorità elvetiche, quanto meno a Como la macchina della solidarietà e dell'accoglienza sta funzionando bene. La Caritas e la Croce Rossa, assieme ad altre associazioni che normalmente si occupano di fornire assistenza ai senzatetto della zona, hanno dato vita ad un tavolo di coordinamento attraverso il quale si sta riuscendo ad offrire ai migranti i servizi essenziali per vivere.

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Importante è poi la risposta istituzionale, con il Comune di Como che sta gestendo direttamente la situazione attraverso l'assessorato alle politiche sociali.

"Il Comune ha preso in mano la regia di questi servizi e questa è una cosa importantissima, si è preso le sue responsabilità" sottolinea Bernasconi, che invece vede delle debolezze nel coordinamento tra gli altri attori in campo nella gestione dell'emergenza. "Prefettura, Questura, la parte politica… c'è un dialogo tra loro ma è difficoltoso perché ognuno vive la sua parte ma non riesce ad interagire con gli altri." Per il Presidente della Caritas, più che di mancanza di coordinamento, si tratta di un problema di burocrazia e ancor di più dell'inesistenza di un pensiero sociale più profondo che vada al di là della dimensione locale dell'accoglienza.

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Infine, forte è l'attivismo di attori sociali locali – ad esempio scuole e parrocchie, che stanno mettendo a disposizione spazi e servizi quali docce, mense e dormitori – e della popolazione.

La presenza costante di un blindato dei carabinieri, che incrociamo costantemente davanti alla stazione di San Giovanni, ci ricorda però che nonostante la grande rete di solidarietà esiste un problema di ordine pubblico.

Come infatti denuncia una nota di Como Senza Frontiere, associazione che sta seguendo da vicino la situazione della stazione ferroviaria di Como, "Nella notte tra venerdì 15 e sabato 16 luglio, presso la stazione ferroviaria di Como S. Giovanni, alcune persone presenti si sono viste intimidire da individui che brandivano oggetti contundenti che potrebbero esser state spranghe o bastoni. Ciò accade dopo ripetuti passaggi, nelle sere scorse, di auto con a bordo personaggi che esibivano saluti romani e frasi di stampo fascista".

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Camminando per la stazione ci imbattiamo in effetti in una serie di volantini che denunciano episodi di xenofobia di questo tipo, e che condannano inoltre l'atteggiamento delle autorità svizzere.

Il terzo giorno facciamo un ultimo giro per la stazione. La situazione è surreale: valigie, coperte, tende, tricicli e culle sparse per il parco, a creare un vero e proprio cimitero di effetti personali. La stessa scena si ripete facendo lo slalom tra i bagagli, i vestiti e i sacchetti sparsi all'ingresso della stazione. In giro però non c'è praticamente nessuno, mentre numerosi turisti aspettano il treno dopo aver trascorso una giornata sul lago.

Essendo ora di cena, è probabile che i migranti siano nelle diverse mense allestite dalle associazioni locali. Come detto, i migranti per mangiare hanno due possibilità: le mensa sparse per il territorio, oppure i pasti distribuiti in loco da alcune realtà locali.

Una di esse è Firdaus: si tratta di un'associazione che ha come scopo raccogliere fondi da destinarsi all'aiuto di migranti in stato di necessità. Negli scorsi mesi è stata anche ad Idomeni, in quello che è stato il baricentro dell'emergenza migranti dell'Europa del 2016.

La particolarità di Firdaus è che per venire ad aiutare i migranti che stazionano nello scalo ferroviario di Como, compie il percorso inverso rispetto a quello che questi stessi migranti vorrebbero fare. Firdaus è infatti un'associazione svizzera, e ogni sera viene a fornire assistenza e supporto a quelle stesse persone rifiutate dal suo stato di appartenenza.

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Mentre camminano incrociamo due ragazzi smarriti, vengono dall'Eritrea e ci chiedono dove siano finiti tutti gli altri migranti. Ne approfittiamo per chiedergli la loro storia. Ahmed, che dice di avere 20 anni ma che non ne ha più di 16, ci racconta che si trova nel parco da qualche giorno e che aspetta solo di poter attraversare il confine.

Mentre stiamo parlando, iniziano ad arrivare altri migranti e il parco inizia a ripopolarsi. Ci avvinciamo ad uno di loro. È Mohammed, in Guinea Bissau faceva il tassista ma poi è dovuto scappare perché la vita nel suo paese stava diventando insostenibile tra violazioni ripetute dei diritti umani e una soglia di povertà sempre più alta.

"Sono qui da quasi tre settimane, è lì che dormo" racconta indicando una coperta posizionata sotto un albero, al riparo. Inizialmente è diffidente, ma quando gli diciamo di essere giornalisti è felice di poter avere un megafono attraverso cui raccontare la sua storia. "È dura qui, i giorni passano ma nulla cambia e oltrepassare il confine resta impossibile" ci racconta. "Io ci ho provato tre volte, ma ogni volta sono stato bloccato e rispedito indietro".

Gli chiediamo perché dopo tutto questo tempo è ancora qui, perché ancora non ha rinunciato ad attraversare un confine da più parti definito come chiuso ermeticamente. "Oggi tre miei amici si sono nascosti in un treno e sono riusciti ad entrare in Svizzera" ci spiega con entusiasmo.

"La speranza di riuscire a passare è ancora viva."

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