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Abbiamo incontrato 'Popeye', il sicario di Pablo Escobar

Jhon Jairo Velásquez Vásquez, meglio noto come Popeye, è stato uno degli uomini di massima fiducia di Pablo Escobar.
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Photo par Ivan M. García

Aggiornamento del 7 febbraio 2020: Jhon Jairo Velásquez Vásquez è morto il 6 febbraio 2020 in un ospedale di Bogotà, dove si trovava da fine dicembre per un cancro allo stomaco. Per ripercorrere la storia di uno dei criminali più sanguinosi associati a Pablo Escobar, riproponiamo questa vecchia intervista—precedente al suo ultimo arresto, avvenuto nel maggio 2018.

Jhon Jairo Velásquez Vásquez è nato nel 1962 a Yarumal, in Colombia.

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Conosciuto con il soprannome di "Popeye", è stato il braccio destro di Pablo Escobar, a capo del cartello di Medellín. Rimase a fianco del "capo dei capi" fino al 1992, quando si consegnò alla giustizia colombiana.

Popeye ha confessato 250 assassini e svariati sequestri, tra cui quello dell'ex-presidente André Pastrana all'epoca in cui si era candidato come sindaco di Bogotà. Dopo 23 anni e tre mesi di carcere, oggi Popeye ha cambiato completamente vita, diventando uno youtuber. "I social network mi hanno salvato", spiega presentandoci il suo canale video, Popeye Arrepentido.

L'uomo, che sta realizzando diverse serie televisive e un lungometraggio, ha raccontato la propria storia nel libro "Sobreviviendo a Pablo Escobar", pubblicato da Cangrejo Editores. VICE lo ha incontrato in una piccola tavola calda del centro commerciale Drive Inn, nel quartiere benestante di El Poblado, a Medellín.

VICE: Sei entrato in carcere in un periodo in cui Medellín era immersa nella violenza. Adesso, due anni dopo la tua scarcerazione, la pace con le FARC è dietro l'angolo.
Popeye: Dev'esserci dietro un patto molto delicato. Credo che la pace sia sbagliata. La società non è pronta, c'è molto odio in giro. Álvaro Uribe non fa altro che criticarla. Quando le FARC inizieranno a fare politica, l'estrema destra colombiana rappresentata da Uribe li ammazzerà. Questo è uno stato di estrema destra.

Le cose sono davvero messe così male?
Hai sentito parlare della Unión Patriótica [partito politico fondato nel 1985 come alternativa a vari gruppi di guerriglieri, tra cui le FARC]? Era composta da 5.000 membri. Due candidati alla presidenza dalla repubblica, José Antequera e Pardo Leal, che sono stati ammazzati; con loro c'erano 17 senatori, 11 rappresentanti alla camera, 25 sindaci, 37 deputati. Faccia il calcolo e arriverà a 5.000. Non appena uccideranno un guerrigliero, in questo la pace Paese non tornerà più.

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Cosa bisogna fare per integrare le FARC come movimento politico?
Su questo punto c'è resistenza totale. Bisogna educare la gente su come si tratta con un soldato che è stato congedato. Non è necessario adularlo, ma le persone esultano quando gli viene detto che riceveranno un sussidio di 1.800.000 pesos [600 dollari], quando dare la caccia a un guerrigliero costa più di 50 milioni di pesos [16.700 dollari] al mese.

Andrà a finire che i congedati entreranno nelle Bacrim, le bande criminali emergenti?
Se non si sentiranno rispettati, entreranno nelle bacrim. Si immischiano in ogni cosa. Chi è un assassino, rimane un assassino. Per questo è importante che la società si occupi dei congedati. E il bandito si sensibilizza con piccole cose.

Per esempio?
Una partita di calcio. Se nel suo edificio vivono 17 congedati, allora mettiamo in piedi una partita di calcio. Questo tipo di cose.

Adesso il principale problema della Colombia sono queste bande?
Prima della tregua con le FARC, ogni mese morivano sette o otto soldati. E quattro o cinque contadini. Se somma otto e cinque, sono 13 morti. Ma non ne conti 13, ne conti 20 al mese. O 50. Beh, i micro-traffici uccidono ogni giorno 70 persone in Colombia. E dietro ai micro-traffici c'è l'estorsione nei confronti, tra gli altri, degli autisti di autobus e delle donne che vendono caffè nei chioschi. La situazione è molto grave.

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Com'è possibile sconfiggere le Bacrim se si sono già infiltrate nella procura e nella polizia, e controllano i quartieri più poveri?
La via d'uscita è l'educazione, non il carcere o una pallottola. Sa qual è la scuola dei sicari? La violenza in famiglia. Quando i genitori a casa non si rispettano, quando i bambini vedono il padre picchiare la madre… È il contesto a creare un bandito. Se una persona cresce con il padre sempre ubriaco è normale che diventi una persona cattiva.

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Che cosa proponi?
Bisogna lavorare con i genitori, parlare con loro. Spiegare che non devono fumare marijuana o sigarette, che devono smetterla con la cocaina. Che se vogliono discutere devono andare da un'altra parte. Che gli uomini non devono picchiare le proprie donne. Che non devono dire parolacce davanti ai figli. E che devono farsi vedere dai propri bambini mentre leggono.

E per quanto riguarda i giovani?
A tutti noi piace uccidere. Perché siamo cresciuti in famiglie violente, in quartieri agitati. È scontato diventare violenti quando si cresce in un quartiere violento. Per questo bisogna andare nei quartieri poveri. Diffondere informazioni sul carcere, spiegare ai ragazzi che è lì che potrebbero finire se li becca la polizia. Portarli a vedere com'è fatta una prigione.

Questo programma veniva messo in atto nel carcere di Cómbita. Ci portavano i bambini problematici delle scuole. Parlavano con i detenuti e andavano a vedere le celle. Lì c'è puzza di escrementi, è buio e i prigionieri infilano la testa nel foro attraverso cui passano loro il cibo e dicono alle bambine: "voglio leccartela, puttanella…". Così queste piccole delinquenti escono svuotate, in lacrime, e poi vanno a parlare con gli psicologi. Di 300 bambini che hanno portato al carcere, ne abbiamo salvati 30.

Come si può compensare l'adrenalina e il senso di appartenenza che provano i giovani che fanno parte di una banda?
Non puoi togliere a un giovane l'adrenalina del combattimenti. Vuole uccidere? Sì. Vuole sparare? Sì. Vuole buttarsi da un aeroplano? Sì. Vuole pilotare un elicottero? Sì. Bene, esistono la Marina, l'Infantería de Marina, l'aviazione, l'Esercito, la Polizia nazionale. Ci sono cinque forze professionali. Spara e uccidi, coglione. La legge dice che devi gridare tre volte prima di sparare? Grida due volte e se te lo chiedono dì che hai gridato tre. Bang! E una pallottola nella testa di quel figlio di puttana. Però con la Costituzione in mano. Così si risolve il problema del senso di appartenenza.

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Hai detto che in diverse occasioni il Governo ti ha lasciato solo, perché?
Il Governo dovrebbe dirmi: forza, lei sa parlare bene, conosce la violenza, venga con noi nei quartieri poveri a parlare con i giovani, a smontare il mito di Pablo Escobar. Mi potrebbero dare uno stipendio di tre milioni di pesos [circa 1.000 dollari], una scorta e un appartamento. E che lo Stato vigili pure su di me con un telefono sotto controllo.

Di che cosa vivi?
Vivo grazie al mio libro.

Non ti sono rimasti dei soldi?
Dell'epoca del cartello di Medellín? Si, ne ho. Ma durante i 23 anni in prigione ho speso molto denaro. Arrivai con cinque milioni di dollari, tre in contanti e due in beni e proprietà, e li ho già spesi tutti.

Ti è rimasta anche una fattoria?
Sì. E ho delle armi e alcune cose.

Armi?
Sì, le custodisco. Le ho offerte allo stato. Gliele avrei consegnate se mi avessero ridotto la pena. Però non hanno voluto. È che questo stato… Un giorno, se le cose evolvono, le consegnerò.

Ti manca il 'Patrón'?
Molto. Quando ero in prigione lo sognavo spesso. Sognavo che uscivo dal carcere e arrivavo in un nascondiglio dove c'era lui. Ma ogni volta mi faceva pagare il fatto che quando mi ero consegnato avevo fatto la spia. Quando mi hanno scarcerato non l'ho più sognato.

Rifaresti ciò che hai fatto con Escobar?
Dico sempre 50 e 50. Ma se mai lo rivedrò imbracceremo il fucile un'altra volta… (ride).

Al 'Patrón' piaceva il tango. Anche a te?
Sì, lo ascolto quando voglio ubriacarmi. Un tango non è una cosa da nulla. Se ascolti un tango e non soffri, sei un miserabile. Il tango è per quelli che hanno dovuto uccidere due o tre donne. Io ne ho ammazzate quattro [lo dice a bassa voce, con un mezzo sorriso e mostrando quattro dita, ndr]. Per chi ha dovuto scontare una ventina di anni di carcere o chi ha conosciuto la violenza. Il tango è sangue, è dolore. È meraviglioso ascoltare il tango con una birretta fredda.

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Qual è il tuo tango preferito?
"Volvamos a empezar". Non ricordo l'autore, però fa così [canta, ndr] "Oggi torno per te, un'altra volta al tuo fianco. Felice come non mai con l'ansia di affogare. I ragazzi sanno già quello che gli è successo…". Parla di un tempo in cui esce dal carcere e la sua donna ha un nuovo amore. Mi piace anche "Sangre maleva", che era il tango del Patrón.

Oltre a quelle quattro donne, ti attribuisci 250 omicidi. Erano necessari?
Quando si è in guerra bisogna pensare secondo le logiche della guerra. Una volta a Cartagine abbiamo affrontato la polizia. Ci colpirono la macchina e dovemmo andarcene in taxi. Poi il tassista si inginocchiò davanti a me, mi mostrò la foto della sua famiglia. Però era necessario ucciderlo perché ci aveva visti andarcene. Quindi gli dissi: "Le permetto di andarsene per i suoi figli". E gli diedi 500.000 pesos [167 dollari].

Otto ore dopo ero a terra colpito da un proiettile, mentre la polizia mi prendeva a calci. Ma chi mi dava più calci era il tassista. Da allora non ho mai più perdonato nessun figlio di puttana. "Che ho tre figli…". Pum, pum pum! Beccati una pallottola per ognuno dei tuoi figli.

Quando sei in guerra, sei in guerra.


Segui Ivan M. García su Twitter: @ivanmgarcia77