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crisi dei migranti

Anche l'ultimo summit sull'immigrazione nel Mediterraneo non ha concluso nulla

Siamo stati a Malta al Summit sull'immigrazione, che ha riunito 63 capi di Stato d'Europa e Africa, e dove sono emersi più paradossi che soluzioni.
Foto di Noborder Network/Flickr

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A La Valletta, Malta, l'11 e 12 novembre si è tenuto il Summit sull'immigrazione, il primo incontro di dialogo tra capi di Stato di Africa ed Europa per gestire il fenomeno dell'immigrazione, che ha riunito 63 capi di Stato—stipati su un'isola completamente militarizzata e invasa da funzionari, giornalisti, polizia, esercito, ministri.

Mentre nel mezzo del Mediterraneo si discuteva, in Europa si intensificavano i controlli alle frontiere per rimandare indietro i migranti. "In queste ultime ore ci sono sviluppi in Germania, Svezia, Slovenia e in altri Paesi che dimostrano quanto i paesi stiano affrontando una forte pressione [sulle frontiere]," ha spiegato Donald Tusk, il presidente del Consiglio europeo, alla conferenza di chiusura dell'evento.

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"Salvare Schengen è una corsa contro il tempo. Una corsa che dobbiamo vincere." Farlo, però, significa ristabilire le frontiere esterne, decidere o meno a chi spetta il diritto di sognare l'Europa e - come hanno spiegato dal summit - sradicare dalle fondamenta le ragioni per cui si scappa dai quei paesi. In un processo che dovrà coinvolgere anche i Paesi africani.

Perché ciò succeda, e affinché la partnership vada effettivamente in porto, l'Europa deve portare una "dote"—come dicono gli africani. Si tratta dell'Emergency Trust Fund Africa, un fondo destinato a 34 Paesi che fanno parte di piattaforme di dialogo con l'Europa attraverso cui potranno "garantire pace e stabilità al Paese" e gestire le frontiere.

Il fondo è costituito da 3,6 miliardi di euro: la metà messa dall'Europa; l'altra metà, dai paesi membri. I quali, però, per ora si sono limitati a meno di 100 milioni di euro.

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La fetta europea del fondo, invece, è composta da un miliardo preso dall'Edp, lo European development fund (fondi previsti e mai stanziati), mentre altri 800 milioni che saranno presi da programmi europei per la cooperazione in Africa.

Il risultato è che l'Europa ha dirottato i fondi per la cooperazione allo sviluppo nella lotta all'emergenza immigrazione. Ma se la cooperazione ha uno scopo, è proprio quello di ridurre le cause di povertà e i conflitti, che a loro volta spingono le persone a partire verso un futuro migliore.

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Secondo Sarah Tesorieri, responsabile delle politiche sull'immigrazione in Oxfam International, ci troveremmo davanti a una sorta di controsenso: "Si usano questi soldi come se fossero per un aiuto umanitario, quando invece la loro provenienza è altra. Non si conosce nemmeno quale rendicontazione verrà chiesta." Col rischio di mettere la pietra tombale sulla cooperazione europea.

Foto di European Commission Representation in Malta, via Facebook.

Non è neppure chiaro, in aggiunta, se questi fondi siano effettivamente sufficienti per i paesi africani: diviso in cinque anni per 34 Paesi, il totale fa poco più di 20 milioni di euro a testa. Difficile risollevare le sorti di un Paese: molto più facile che ci si limiti a potenziare i programmi di rimpatrio, come vuole l'Europa e come non vogliono i leader africani giunti a La Valletta.

Un'effettiva accelerazione nei rimpatri, peraltro, negli ultimi tempi appare fuori da ogni dubbio: in un documento della Commissione europea si spiega che dal primo ottobre sono stati decisi 20 mila rimpatri, di cui almeno 3mila effettuati da 15 Stati membri. L'Italia ha partecipato a cinque di queste operazioni, la Grecia a due.

L'Africa, poi, è in un certo senso "gelosa" per l'entità della dote assicurata a un altro partner dell'Europa: la Turchia. Se n'era parlato in ottobre, durante un incontro informale dei capi di Stato europei convocato da Juncker con urgenza a margine del summit, dove si è dato corpo al fondo per l'aiuto nella gestione dei profughi turchi: 3 miliardi di euro divisi in due anni.

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Anche qui siamo ancora lontani dal totalizzare la cifra che l'Europa si aspetta: finora c'è solo un monte di 500 milioni messo dall'Europa, mentre gli altri 2,5 miliardi verranno suddivisi secondo un rigido criterio, mutuato da quello per la formazione del budget annuale dell'Unione, dai Paesi membri.

Ma è anche la Siria a rientrare in questa "strategia della dote," nonostante non ci sia alcun modo di collaborare con il paese. Questo "matrimonio" è forse il più negletto: la sua dote vale un miliardo ed è ancora coperta solo dal budget europeo, mentre il contributo dei paesi membri è fermo a meno di 35 milioni di euro.

Intanto, il tempo per realizzare risultati concreti stringe: già a fine 2016 le istituzioni europee si aspettano qualche ritorno—e stando alle parole di Tusk hanno deciso di andare all in, proprio nell'isola del gioco d'azzardo.

Foto di European Commission Representation in Malta, via Facebook.

Data l'enfasi con cui si presenta l'evento, anche gli aspetti simbolici vanno presi in considerazione. Il primo è la scelta del Paese ospitante: agli inizi del secolo, negli anni successivi al 2000, Malta registrava in media tra i mille e i 2mila arrivi annuali. Nel 2015 sono stati 108, secondo i dati Unhcr.

La stampa locale e le ong ritengono che questo calo vertiginoso sia in virtù di un accordo con l'Italia, che si prende praticamente quasi tutti i migranti.

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"Mi risulta che gli unici sbarchi a Malta fossero persone arrivate entro le due miglia dalla costa del Paese," spiega Matteo de Bellis, ricercatore italiano che lavora ad Amnesty International Londra e che ha scritto diversi report sui meccanismi di salvataggio in Europa.

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"Certamente c'è qualcosa di anomalo," aggiunge Kathrine Camilleri, responsabile del Servizio rifugiati dei Gesuiti a Malta. "Non c'è la minima trasparenza da parte di entrambi i paesi su questo punto." Gli effetti per Malta, però, sono tangibili: arrivi vicini allo zero, lo stesso obiettivo dell'Europa.

Il secondo simbolo è la scelta della location: l'Auberge de Castille, la casa dei Cavalieri ospitalieri dell'Ordine di San Giovanni, fondatori di Gerusalemme. Sul suo lato orientale, si protende Sant'Elmo: una fortezza costruita per proteggersi dall'assedio degli Ottomani nel 1565. Non proprio l'emblema dell'accoglienza.


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Foto via Flickr