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Italia

Torino vuole svendere questo patrimonio Unesco occupato per pagarsi i debiti

Come un Patrimonio Unesco può diventare merce di scambio per ripianare il debito cittadino: una storia di abbandono, di occupazione e di strategie urbane - forse - sbagliate.
Foto via Assemblea Cavallerizza 14:45

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La Cavallerizza Reale di Torino è l'ex accademia di cavalleria del regno di Savoia, ventiduemila metri quadri di edifici seicenteschi, cortili, giardini e due teatri dichiarato dall'Unesco patrimonio mondiale dell'Umanità, assieme alle altre residenze sabaude. Oggi il comune di Torino vorrebbe venderla ai privati per circa 7 milioni di euro. Una cifra che – nelle intenzioni dell'assessore al bilancio torinese Gianguido Passoni – dovrebbe servire a ripianare una piccolissima parte del debito cittadino, di poco inferiore ai tre miliardi di euro.

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L'idea di vendere la Cavallerizza però non piace a tutti—anzi.

L'occupazione 

Dal maggio 2014, infatti, la Cavallerizza è occupata da un gruppo di cittadini – auto nominatosi "Assemblea Cavallerizza 14:45" - che si oppone alla vendita e chiede che lo spazio rimanga pubblico.

La Cavallerizza Reale è un austero complesso barocco di grande importanza storica e culturale; nonostante questo, la Cavallerizza è stata lasciata all'incuria per anni—per poi essere definitivamente abbandonata. "Fino al 2013 parte dell'edificio era occupata dal Teatro Stabile," spiega a VICE News Chiara, una delle occupanti dell'Assemblea. "Tanto che i primi a mobilitarsi contro la vendita sono stati i membri delle compagnie teatrali, che avevano lavorato fino a pochi mesi prima e si sono trovati senza la possibilità di portare avanti il loro percorso artistico."

Inizialmente legata al mondo dello spettacolo, la mobilitazione si è allargata anche ai semplici cittadini: "Dopo circa 4 mesi di assemblea, lo scorso 23 maggio 400 persone hanno deciso di aprire le porte della Cavallerizza," continua Chiara. "Vedere una mobilitazione del genere per il recupero dello spazio è stato un momento emotivamente molto forte."

In questi mesi gli occupanti hanno riaperto i teatri, rimesso a nuovo parte del complesso (in alcuni casi anche ricostruendo i pavimenti distrutti), creato una falegnameria interna e una biblioteca, e soprattutto riaperto l'enorme giardino, che non era più accessibile al pubblico.

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"Quando siamo entrati abbiamo risistemato tutta l'area; quasi tutto quello che c'è oggi lo abbiamo fatto noi: persino i cavi elettrici erano stati strappati dai muri," spiega Chiara. Gestire un area di 22mila metri quadrati però non è facile, specie se si fa il confronto con altre realtà simili.

"Esperienze come Macao a Milano o il Teatro Valle a Roma hanno impostato una linea precisa" dal punto di vista strategico e culturale, racconta Toni, un altro occupante, a VICE News. "Questo spazio però è davvero molto grande, e noi stiamo cercando di ricostruire un vero e proprio quartiere con una progettazione di ampio raggio. Siamo riusciti a ripristinare il primo piano per renderlo accessibile. Pochi mesi fa, era quasi impensabile che si riuscisse arrivare alla situazione attuale."

Oggi, specifica Chiara, "intorno allo spazio gravitano centinaia di persone. Solo il nostro corso di meditazione è frequentato da circa 90 alunni, ci sono circa 30 dj, il corso di capoeira ha almeno 25 allievi e il polo letterario altrettanti. Nella assemblee partecipano 60 persone. Senza contare che qui si riuniscono anche altri gruppi, come ad esempio gli insegnanti contro la riforma della Buona Scuola."

Le reazioni: tra supporto e incendi dolosi

L'occupazione ha raccolto la simpatia di molti torinesi. In diecimila hanno firmato un appello contro la vendita della Cavallerizza, ricevendo il sostegno di giuristi come Ugo Mattei e di storici dell'arte come Salvatore Settis e Tommaso Montanari.

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Di contro, la classe politica di centrosinistra – che dal 1993 governa ininterrottamente la città – non sembra apprezzare molto chi si oppone alla vendita della Cavallerizza. Tanto che il presidente della commissione cultura del comune di Torino, Luca Cassiani, ha sostenuto in un'intervista che "appena la Città ha iniziato a dibattere un progetto di riqualificazione e restauro così da evitare il rischio di disfacimento, ecco che una parte degli occupanti, veri professionisti dell'antagonismo, privatizzano gli spazi abitativi per impedirne la restituzione e la fruibilità ai cittadini."

Ma la politica locale non è l'unica ad essere contrariata dall'occupazione della Cavallerizza Reale. Il 30 agosto dell'anno scorso ignoti hanno appiccato un incendio, che fortunatamente ha fatto danni limitati: "Come abbiamo visto divampare le fiamme abbiamo chiamato i vigili del fuoco," racconta Alessandro, un informatico arrivato qualche giorno dopo l'occupazione. "Grazie alla prontezza siamo riusciti a limitare i danni, che si sono rimasti circoscritti all'area dove è stato appiccato l'incendio e dove i vigili del fuoco hanno trovato cinque bottiglie di cherosene ancora inesplose. Se il cortile fosse stato vuoto, l'allarme sarebbe stato dato in maniera meno tempestiva."

Sebbene i colpevoli non siano mai stati trovati, non è difficile pensare che il movente abbia a che fare con la vendita della Cavallerizza. Più o meno un anno dopo, infatti, una scena simile si è ripetuta a Palazzo del Lavoro, un altro degli edifici che il comune di Torino ha messo sul mercato.

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Le molte vite di un patrimonio Unesco

Costruita nel 1668, la Cavallerizza Reale ha vissuto molte vite.

A volerla fu il duca Carlo Emanuele II, che aveva appena cacciato dal suo esercito le truppe mercenarie, tanto costose da provocare un buco nel bilancio. Nella Cavallerizza Reale, oltre agli spazi per addestrare i giovani cavalieri, il duca fece costruire anche alloggi per camerieri e paggi. Con la fine della monarchia, gli alloggi furono destinati agli ex dipendenti di casa Savoia o affittati a prezzi stracciati, a patto che gli inquilini si facessero carico dei lavori. Nessuno, infatti, volle vivere in un rudere, sia pure carico di Storia. E così, là dove si insegnava l'arte della guerra ai giovani nobili, nacque un complesso di edilizia popolare.

Nel 2001 la Cavallerizza Reale venne venduta dal Demanio al comune di Torino, che ne fece la sede di due sale del teatro Stabile e di diversi eventi culturali. Nel 2008, però, il comune decide di mettere in vendita il complesso e cacciare gli inquilini. Base d'asta: 20 milioni di euro, con il 50 per cento dello spazio che può essere destinato ad appartamenti e negozi di lusso. Nel 2013 anche il teatro Stabile abbandona l'area, e nel grande cortile della Cavallerizza Reale rimane solo un piccolo circolo dopolavoro degli ex lavoratori di casa Savoia e del Demanio, sotto sfratto ma con la possibilità di restare fino a che non arrivi un compratore.

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L'area della Cavallerizza dall'alto.

Per la Cavallerizza, a questo punto, sembrano esserci solo due possibilità: il frazionamento in appartamenti di lusso o la trasformazione in albergo a cinque stelle. La strada da seguire sembra essere quella percorsa da "Casa Gramsci," l'edificio dove ha vissuto nei suoi anni torinesi Antonio Gramsci e che poi è diventata un albergo di lusso dopo essere stata una casa popolare.

Tuttavia, in questo caso le cose vanno diversamente: il complesso rimane vuoto per quasi un anno, e questo spinge molti a chiedersi se non sia possibile immaginare una destinazione diversa rispetto a quella di edificio di lusso. Da qui nasce il movimento per l'occupazione della Cavallerizza Reale.

In un certo senso, gli occupanti hanno ottenuto una parziale vittoria, visto che hanno costretto il comune di Torino a smentire categoricamente la trasformazione della Cavallerizza Reale in albergo di lusso e a produrre una nuovo progetto. Quest'ultimo rischia però di essere pericolosamente simile al vecchio: il protocollo di intesa firmato fra il comune di Torino e la Compagnia di San Paolo per la vendita della Cavallerizza non esclude l'utilizzo da parte dei privati, pur ribadendo un generico interesse culturale, e le proposte per la nuova "Cavallerizza Reale" - più che immaginare un modello alternativo – sembrano voler solo dare un contentino a chi contesta la privatizzazione.

Fra le varie ipotesi che si sono affacciate ci sono un'accademia di danza fondata da Michele de Negri (proprietario del ristorante di lusso "Il Cambio" e membro della famiglia più ricca di Torino) e un non ben specificato ostello gestito da "grandi catene alberghiere per giovani." L'ipotesi di trasformare la Cavallerizza Reale in una residenza universitaria, invece, scompare molto in fretta.

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Attualmente, dice Chiara, "il problema più stringente è che il Comune deve rientrare del capitale e restituirlo alla banca. Non abbiamo paura che ci sgomberino domattina, ma non c'è un dialogo con le istituzioni che ci permetta di seguire da vicino il destino di questo spazio. Se si parlasse di come salvare un luogo di tale interesse storico dalla speculazione e dalla vendita, allora ci potrebbe essere un dialogo. Ma il Comune dice solo che bisogna vendere: come puoi dialogare se il tuo pilastro fondamentale, al contrario, è il no alla vendita? Viviamo in attesa degli eventi. Ma contiamo sul fatto che è difficile sgomberare uno spazio attraversato da migliaia di cittadini e che ha la forza di un'occupazione appoggiata anche da parti importanti della città."

La Storia all'asta

Per quale motivo il comune vuole vendere un bene come Cavallerizza Reale?

La risposta è molto semplice: il debito. Torino infatti deve alle banche di 3 miliardi di euro, il 225 per cento delle entrate cittadine annuali. L'istituto Intesa San Paolo, ad esempio, possiede da sola un terzo del debito torinese.

"Torino è stretta in una morsa," dice a VICE News il giornalista Maurizio Pagliasotti, autore del libro Chi comanda Torino. "Da un lato c'è il patto di stabilità, dall'altro la creazione di un debito con istituti di credito privati che ha fagocitato risorse pubbliche. È come se stesse svendendo l'argenteria o addirittura le lenzuola per pagare i conti del lattaio."

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Negli ultimi vent'anni, la città si è indubbiamente trovata davanti a molte difficoltà. Una su tutte è stata la crisi della Fiat e la quasi dismissione della fabbrica di Mirafiori, che oggi impiega solo 5.400 operai.

Al contempo non si può dire che Torino sia stata abbandonata a se stessa, visto che dal 1998 al 2006 ha ricevuto circa quindici miliardi di euro, in parte arrivati dallo Stato a fondo perduto e in parte dalle banche—considerando anche che, a metà degli anni Novanta, la città era in attivo.

Foto di Giorgio Ghiglione/VICE News

Il problema principale sta nel modello di sviluppo che il capoluogo piemontese ha adottato per superare la crisi della Fiat. Un modello che non ha dato i risultati sperati: "Torino è una città che si è sviluppata sul debito e sul cemento. Il cemento è stato fatto a debito, i tondini e le colate di calcestruzzo che dovevano generare rendita fondiaria sono stata comprati a debito," ricostruisce Pagliasotti. "Gli eventi culturali sono stati il vero cuore retorico della grande trasformazione. La gravità è che tutto questo è stato sostenuto e incentivato dalle classi dirigenti torinesi che erano convinte che si potesse sostituire una fabbrica come Mirafiori con le sagre, le feste o i grandi eventi."

In compenso, il debito della città continua a crescere. Secondo i dati raccolti dall'associazione Pro Natura e riportati nel libro Torino oltre le apparenze, il deficit torinese nel 2003 era di 1 miliardo e 600 milioni, nel 2005 di 2 miliardi e oggi tocca quasi i 3 miliardi di euro—anche per colpa dei derivati comprati dal Comune di Torino per finanziare l'evento olimpico.

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I mutui accesi per le Olimpiadi invernali del 2006, ad esempio, costano al comune di Torino duecento milioni di euro di interessi ogni anno. In quella che l'ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino ha definito "l'ubriacatura olimpica," si sono verificate spese notevoli. Come i padiglioni olimpici "Atrium" - costati 7 milioni di euro e poi demoliti alla fine delle olimpiadi - o la nuova biblioteca pubblica, progettata al modico costo di 16 milioni e mezzo di euro all'archistar Mario Bellini per non essere poi mai costruita.

Foto di Giorgio Ghiglione/VICE News

Per ripianare il debito, quindi, si è pensato di vendere i "gioielli di famiglia." cioè gli edifici storici. Il problema è che vendere il patrimonio pubblico non sempre è una buona idea, specie nei momenti di difficoltà. Non fosse altro perché, così facendo, si rischia di svendere pezzi importanti della città.

"Anche se si vendesse tutto il patrimonio artistico torinese non si salderebbe il buco di bilancio," obbietta Andrea. Nel caso della Cavallerizza, spiega, "la base d'asta era 20 milioni e ora è a 7, e se nessuno si presenta dopo certo numero di volte si passerà alla citazione privata e si potrà presentare un offerta a busta chiusa a un prezzo più basso di quello di partenza."

Nell'attuale geografia italiana Torino è una città tutto sommato periferica, lontana dal centro economico milanese e da quello politico romano, senza nemmeno più lo status di città-fabbrica che le veniva conferito dalla Fiat.

La vicenda, pertanto, non è uscita dai confini cittadini e non ha ottenuto una rilevanza mediatica equiparabile a quella di movimenti e occupazioni culturali simili. Eppure, la storia della Cavallerizza Reale rischia di diventare emblematica di un modo di procedere: quello di svendere il patrimonio storico al miglior offerente per tappare i buchi di bilancio. Per certi versi, è quello che recentemente ha fatto il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, con la proposta di vendere i quadri di Klimt per aggiustare i conti della città lagunare.

In questo senso, gli occupanti della Cavallerizza stanno portando avanti una battaglia per far sì che il patrimonio pubblico rimanga a disposizione dei cittadini e che non sia messo all'asta. Altrimenti, il rischio è che un giorno un sindaco possa sbarazzarsi del Colosseo o della Torre di Pisa per ripagare il debito.


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Tutte le fotografie, tranne dove diversamente indicato, sono tratte dalla pagina Facebook di Assemblea Cavallerizza 14:45