Cibo

Stare al mondo senza disciplina: l'ubriachezza come minaccia al nostro sistema morale

L'ubriaco spesso è considerato il dannato, il reietto. Ma l’epoca in cui viviamo avrebbe bisogno di slegarsi dall'atavica fame di rettitudine.
ubriachezza nella storia
Illustrazione di Gianluca Cannizzo @mypostersucks per gentile concessione de L'Integrale

Questo testo è un estratto del saggio di Gabriele Rosso pubblicato su L’Integrale,rivista di pane e cultura. Il numero appena uscito, che si intitola Straniero, contiene anche contributi di Ferdinando Cotugno, Tommaso Melilli, Diletta Sereni, Nadeesha Uyangoda e altri.
I disegni sono di Gianluca Cannizzo @mypostersucks.

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Nel pensiero dominante la sobrietà e la lucidità rimangono la norma condivisa mentre l'ubriachezza e lo scollamento dal reale le colpe da stigmatizzare

Mentre mi preparavo a scrivere questo articolo mi chiedevo che differenza ci fosse, dal punto di vista linguistico ma anche di significato, tra l'ubriachezza e l'ebbrezza. Come spesso mi succede ci ha pensato santa Treccani a sciogliere ogni dubbio interiore, chiarendo come la radice etimologica dei due termini sia la stessa, e come anche il significato superficiale coincida perfettamente. L'ebbro è l'ubriaco, e l'ubriachezza è semplicemente ebbrezza: «ubrïaco: dal lat. tardo ebriacus, der. di ebrius “ebbro”».

Eppure a un certo punto l'ebbro e l'ubriaco hanno preso barcollando due strade diverse, seguendo connotazioni morali non coincidenti. Pare che sia una questione di misura: l'ebbro è appena brillo, diciamo allegro, qualcuno che ha sì ingerito un po' di liquidi alcolici, ma in fondo nemmeno così tanti in relazione alla sua capacità di sopportazione; l'ubriaco invece è un ebbro che si è spinto oltre, che ha ignorato i segnali di allerta che gli arrivavano dalla sua mente e dal suo corpo e ha continuato a bere, perdendo il senno, la misura, la capacità di controllare i suoi stessi movimenti. Questo scarto è sancito anche da altre angolazioni del linguaggio: l'ebbrezza a volte si colora di connotazioni chiaramente positive, vestendosi da «stato di esaltazione e di piacevole stordimento per una gioia intensa», come quella volta che Tizio ha provato l'ebbrezza del volo. All'ubriachezza, invece, spetta perlopiù lo stigma morale, con qualche rara eccezione: Caio era ubriaco di gioia, Sempronio era ubriaco di stanchezza.

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Partire dal piano linguistico mi serve per delimitare un primo perimetro di ciò che davvero mi interessa, ovvero riflettere su ciò che oggi noi (noi chi? propongo: noi italiani e italiane ultratrentenni) pensiamo dell'ubriachezza, sul piano della pratica e su quello del comportamento sociale. Il fatto che abbia in grandissima misura una connotazione negativa, come ci conferma la questione linguistica di cui sopra, potrebbe essere ascrivibile a diverse ragioni, tra cui figura il potere del pensiero dominante in questa nostra società contemporanea, dai lineamenti profondi di matrice catto-bigotta. Un pensiero che fa una fatica enorme ad accettare le deviazioni, di qualunque tipo esse siano e a prescindere dai passi avanti fatti qua e là nell'accettazione sociale dell'anticonformismo: la sobrietà e la lucidità rimangono la norma condivisa, l'ubriachezza, l’eccesso e lo scollamento dal reale le colpe da stigmatizzare.

Ci sono state nel resto del mondo epoche e culture in cui l'ubriachezza rappresentava un valore positivo, anche nelle sue declinazioni più estreme

C'è a tale proposito un'ampia letteratura controculturale a cui fare riferimento, ma che si è dedicata perlopiù a riflettere sul ruolo delle sostanze stupefacenti, e in modo particolare delle droghe psichedeliche. L'ubriachezza, invece, per come la intendiamo noi è figlia di una sostanza (l'alcol etilico) largamente sdoganata, anzi talmente parte integrante della nostra storia e della nostra identità da avere assunto a più riprese, e anche in culture umane tra loro molto distanti, dimensioni sacrali.

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A tale proposito può risultare utile la lettura di un libro agile e dal riuscito tono divulgativo come Breve storia dell'ubriachezza di Mark Forsyth, uscito in Italia per il Saggiatore nel 2018. Tra le sue pagine si può scoprire come per gli antichi Egizi sbronzarsi pesantemente non fosse motivo di vergogna, anzi.

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Questo per dire che non è così scontato, come invece il mondo occidentale sembra suggerire, pensare che l'ubriachezza si collochi inevitabilmente dalla parte dei cattivi. Checché ne dicano i nostri medici, psicologi, prelati, moralisti più o meno d'accatto, papà e mamme in vena di protezione filiale e cultori della sobrietà, ci sono state nel resto del mondo epoche e culture in cui l'ubriachezza rappresentava un valore positivo, anche nelle sue declinazioni più estreme. Perlopiù per ragioni mistico-religiose, certo, ma non solo.

L’ubriaco, e soprattutto l'ubriaco ricorrente, non è solo il pazzo: è straniero in casa propria, è l'individuo che non si piega al conformismo morale, è il trasgressore del patto sociale

Rimane come dato di fatto che l'ubriachezza mistica, l'interesse per gli stati spirituali di incoscienza, o anche solo la celebrazione dello sballo alcolico tout court non sono penetrati granché nel bagaglio culturale dominante dell'Occidente. Sono tutti elementi che sopravvivono e finanche fioriscono in ambiti molto ristretti e specifici, chiaramente controculturali o piuttosto goliardico-edonistici, di rovesciamento rigorosamente temporaneo della morale riconosciuta.

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Il cristianesimo, nonostante il vino sia elemento centrale nel rito e nella sua cosmogonia, e nonostante l'Antico Testamento non sia così “asciutto” e anti-ubriachezza (anzi...), ha infatti contribuito grandemente ad affermare alle nostre latitudini una morale similpuritana, in termini di costumi e di comportamenti sociali, aiutato qualche secolo più in là dal piccoloborghesismo, su cui forse non è il caso di aprire una corposa parentesi. Ma a modo suo ci aveva già pensato Seneca, che definì l'ubriachezza «una pazzia volontaria». E di lì in poi, come dimostrano anche i versi di un Charles Baudelaire o di un Charles Bukowski, i cantori dell'ubriachezza sono sempre stati considerati cantori della pazzia, se non della dannazione più torbida. Al punto che l'ubriaco, e soprattutto l'ubriaco ricorrente, non è solo il pazzo: è straniero in casa propria, è l'individuo che non si piega al conformismo morale, è il trasgressore del patto sociale.

Per capire quanto sia pervasiva questa gabbia basterebbe fare caso alle scelte verbali che farciscono le frasi di chi a diversi livelli si occupa della questione dell'ubriachezza. Laddove si ragiona, magari con approccio leggero, degli aspetti ricreativi e conviviali del consumo di alcol e/o di sostanze stupefacenti, quasi sempre incontreremo o un tono scherzoso, a suggerire che «vabbè mica mi prenderete sul serio?», mentre quando a parlarne sono degli studiosi subentra un registro più serioso, legato perlopiù a questioni di salute. Il tutto condito dal solito mantra conclusivo del «bevi responsabilmente», e senza il minimo cenno alla possibilità di concedere dignità allo sballo in sé e per sé, o alle infinite strade dell’alterazione dello stato mentale. Così l'ubriaco rimane un corpo estraneo, diventa l'individuo che si pone volontariamente al di fuori della comunità, che ne infrange i codici.

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La cover de L'Integrale numero 6 Straniero

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