Cappuccino Storia
Foto per gentile concessione di Mezzatazza Consulting.
Cibo

La storia del cappuccino, che non è solo italiana e ce ne faremo una ragione

Abbiamo parlato con due grandi esperti italiani di caffè per scoprire un po' della storia del cappuccino. E del perché la latte art è il male.
Giorgia Cannarella
Bologna, IT

“Pare che fu un soldato polacco, Franciszek Jerzy Kulczycki, a inventare la colazione all’italiana: cappuccino e croissant”

In questo trionfo social del campanilismo culinario noi italiani siamo sempre i migliori a fare pasta, vino, pane. E caffè. Ma dobbiamo accettare che spesso le nostre cosiddette “tradizioni” arrivano da fuori e si radicano nel nostro paese in modo assolutamente randomico.

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Il latte usato per correggere l’amarezza di un caffè a Vienna, o l’evoluzione di una bevanda austriaca a cui veniva aggiunta della panna? Come la metti la metti: il cappuccino, contrariamente a quello che pensiamo, non è nato in Italia. E se fino a qualche tempo fa potevamo parlare di un primato italiano nella caffetteria, adesso non è vero neanche più quello.

La storia del cappuccino

Ho contattato due dei massimi esperti italiani di caffetteria per parlare di cappuccino. Gianni Tratzi di Mezzatazza consulting e Manuel Terzi di Caffè Terzi. Entrambi concordano sul fatto che, quando si parla di origine del cappuccino, bisogna andare dalle parti di Vienna.

“Pare che il cappuccino, sia la parola che la bevanda, derivi da Kapuziner,” racconta Tratzi. “Nel 1700 nelle caffetterie di Vienna consisteva in un caffè — come lo si faceva dell’epoca, aveva la consistenza di un infuso nero e presumibilmente bollente, che si faceva decantare e non si filtrava —a cui venivano aggiunti zucchero, panna e spezie. Ora questa bevanda la si trova col nome di Wiener kaffee, mentre la parola cappuccino è internazionale, non si traduce e indica l’attuale bevanda col latte montato.”

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Foto per gentile concessione di Mezzatazza Consulting.

Ovviamente è impossibile rintracciare una data precisa di nascita del cappuccino e quindi si sono diffuse versioni spurie della sua origine: “Qualche libro entra nello specifico, attribuendo ‘l’invenzione’ al frate cappuccino Marco d’Aviano. A quanto pare a Vienna gli fu servito un caffè molto amaro, che lui ‘corresse’ con zucchero e panna, il cameriere riportò le informazioni e si cominciò a servire questa bevanda chiamandola proprio come l’ordine del nostro frate Marco.”

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Manuel Terzi, invece, mi racconta una storia ancora più affascinante: “Nel 1683 i turchi assediavano Vienna. Un soldato polacco, Franciszek Jerzy Kulczycki, attraversò gli accampamenti nemici fingendosi turco e andò a chiedere rinforzi. Per ricompensarlo gli regalarono sacchi di caffè abbandonati dai turchi e lui aprì la prima caffetteria di Vienna dove addolciva il caffè con latte e miele. Sempre a lui si attribuisce anche la creazione del croissant. Tornando a tempi più recenti — e più facilmente verificabili — dobbiamo passare al 1901, anno in cui Luigi Bezzera deposita il brevetto per la prima macchina del caffè.

Quando iniziamo a bere il cappuccino in Italia

“Dagli anni Quaranta-Cinquanta si comincia ad avere traccia di una bevanda più simile a quella attuale, con un espresso bello corposo a cui viene mescolato il latte”

La bevanda più o meno come la conosciamo oggi comincia a diffondersi parallelamente alla nascita dei primi bar con consumo in piedi — il primissimo, dice Tratzi, è il caffè dei Ritti a Firenze. Negli anni Trenta viene fondata la maggior parte delle case costruttrici di macchine da caffè: la Cimbali, La Marzocco, Vittoria Arduino, La Pavoni. “Questo anche se non si parla ancora di macchine espresso come attuali,” ride Tratzi. “Ma erano più come degli scaldabagni-pentole a pressione con una valvola per il vapore e una per l’acqua.”

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E anche i cappuccini “sono da considerarsi come dei caffè ancora distanti dall’espresso, ma molto simili al risultato di una moka bruciata, ai quali veniva aggiunto il latte scaldato, più che montato.” Dagli anni Quaranta-Cinquanta, mi spiega, con la comparsa della macchina a leva, si comincia ad avere traccia di una bevanda più simile a quella attuale, con un espresso bello corposo e la sua crema color nocciola a cui viene mescolato il latte.

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Manuel Terzi al Caffè Terzi.

Secondo Manuel Terzi per tanti anni noi italiani “abbiamo dormito sugli allori. Tanti locali campavano di espresso e cappuccino e su di essi c’era bisogno di fare marginalità. Lo davamo per scontato insomma. Nel frattempo all’estero c’erano persone competenti che puntavano a una qualità altissima.”

E quindi si può dire che ora “spesso nel mondo si beve un caffè migliore che qui. Anche per una gestione doganale: se ad esempio vivo a New York ho un canale preferenziale, per accesso a lotti e logistica, al caffè che viene dal Nicaragua. E poi hanno un modo di lavorare diverso da noi: noi facciamo 99 espressi e un caffè filtro, loro il contrario, quindi ad esempio possono permettersi di usare 22 g di caffè per ogni espresso mentre noi di media ne usiamo 7.” Terzi comunque è ottimista sulla crescita del comparto in Italia: “Quando ho cominciato io, una trentina di anni fa, mi dicevano che il mio caffè era andato a male perché non erano abituati all’acidità. Quante cose sono cambiate!”.

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Come si fa un grande cappuccino

“Più il disegno della latte art è complesso più il cappuccino è lontano da quello ‘tradizionale italiano’”

Gianni Tratzi mi fa notare come ormai anche il cappuccino classico italiano abbia un proprio disciplinare nei corsi della Specialty Coffee Association: una parte di caffè (ovvero un espresso intero), due parti di latte e una parte di crema di latte, “ovvero una emulsione molto sottile e setosa di latte e aria inglobata durante la fase di riscaldamento, spessa 1-1,5 cm”. 

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Il cappuccino del Caffè Terzi.

Va servito “tra i 65 e i 70 gradi, in una tazza da 150-170 ml che va riempita totalmente. Deve avere una corona di caffè con una palla bianca al centro. Questa estetica ti fa capire che il latte e il caffè hanno lo stesso sapore e la stessa texture dall’inizio alla fine.” Se invece “viene servita la tazza totalmente bianca, il caffè non si è mescolato totalmente al latte e i primi sorsi sapranno tanto di latte, mentre il caffelatte sotto sarà più forte.”

Terzi pone l’accento sulla texture: “Il cappuccino deve essere omogeneo, monofasico, a differenza ad esempio dei flat white, stratificati, e in generale di tutti i prodotti di latte art. Più il disegno è complesso più il cappuccino è lontano da quello ‘tradizionale italiano’. Deve esserci un unico versaggio dall’inizio alla fine. Il primo sorso deve trasmettere avvolgenza, dolcezza, cremosità.”

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Il cappuccino oggi

Caffè Terzi è uno dei bar più frequentati del centro storico bolognese. “L’ora del cappuccino si è abbastanza allargata. Lo prendono meno a colazione e più durante tutto il giorno. Ho fatto consulenza a un locale in Germania che faceva solo cappuccini. Sembrava una birreria, il proprietario se ne faceva 3-4 boccali di seguito.”

Viene quasi scontata una domanda: cosa ne pensano dell’abitudine di bere il cappuccino a fine pasto? Tratzi mi stupisce affermando che “come fine pasto può essere una bevanda molto figa in termini gustativi, ma forse la tazza da 150-170ml è un po’ troppo abbondante. Magari è più easy un cortado, 100-110ml con un espresso e il latte montato leggermente meno del cappuccino, che valorizza anche meglio il gusto del caffè.”

Terzi invece fa una doverosa nota a margine sull’utilizzo dei latti vegetali: “Il grande problema dei latti vegetali è che mancano le proteine che impediscono che venga ben montato. Il gentlemen agreement tra gusto e texture lo dà il latte di quinoa.”

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