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Tecnologia

TechFugees, l'hackaton per i rifugiati

Il 5 e 6 novembre la H-Farm di Treviso ospiterà la seconda edizione di TechFugees, un evento che vuole convogliare le energie dell’industria digitale verso l’attuale emergenza migrazione.
Giulia Trincardi
Milan, IT

Nei prossimi due giorni—il 5 e il 6 novembre—la H-Farm di Treviso ospiterà la seconda edizione di TechFugees, un evento che vuole convogliare le energie di creativi e tecnici dell'industria digitale verso l'attuale emergenza rifugiati.

TechFugees è, precisamente, un hackaton: 48 ore di conferenze, brainstorming, prototipi, gomiti contro gomiti e litri di caffé, mirate alla risoluzione di un problema, o all'elaborazione di un tema, a cui partecipano programmatori, creativi, tecnici e teorici del settore tech.

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La prima edizione di TechFugees si è svolta in Inghilterra a ottobre ed è stata una sorta di esperienza senza precedenti: si sono interessate oltre 700 persone—un chiaro segnale, riporta il sito "del desiderio da parte della comunità tech di essere coinvolta" nella situazione.

La domanda che sorge spontanea è: come può il settore tech, che sviluppa app per smartphone (passatemi l'approssimazione) ed è considerato emblema del cosiddetto first world, risolvere l'emergenza rifugiati? I concetti chiave su cui riflettere, in questo discorso, sono due. Il primo riguarda la differenza tra risolvere e contribuire, il secondo la diffusione della tecnologia.

Come ha ribadito Mike Butcher—ideatore dell'evento—in un'intervista su Sky News, gli intenti del gruppo di volontari che ha organizzato l'hackaton e di chi partecipa allo stesso sono ben lontani dal trovare una soluzione ultima all'emergenza; fondamentalmente perché non basterebbe tutto l'entusiasmo verso la tecnologia di questo mondo per farlo—nessun fanatico di app e smart-device è tanto illuso da credere che un'emergenza umanitaria come questa possa risolversi in altro modo che non sia la fine del conflitto stesso che la sta causando. E fermare le guerre non è roba da app. Contribuire, invece, significa capire le micro-esigenze generate dalla complessa macro-situazione e trovare un modo per semplificarle e gestire.

Il primo passaggio dell'hackaton di ottobre è stato, dunque, porre moltissime domande: quali sono le esigenze quotidiane delle persone che si trovano a scappare da una situazione di gravissimo pericolo e a farlo senza praticamente mezzi, se non—e su questo dettaglio importante ci arriviamo tra poco—uno smartphone? Beni di prima necessità, rifugi, informazioni geografiche e politiche: quali sono i passaggi più sicuri per arrivare a destinazione, quali sono le destinazioni che possono offrire una salvezza e non una—quasi più atroce—situazione di stallo eterno nelle braccia della burocrazia?

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Il secondo concetto da analizzare, abbiamo detto, è la diffusione della tecnologia: gli smartphone non sono affatto prerogativa esclusiva del mondo occidentale, e quello che—per una serie di fenomeni della critica sterile—è stato visto come un segno di "lusso" incompatibile con lo stato di disagio estremo che comporta una guerra, è in realtà segno dei tempi, e di un'evoluzione sociale dirompente. Si evolve la vita quotidiana, si evolve la guerra, si evolve il modo in cui cerchiamo di salvarci dalla guerra—con gli strumenti che conosciamo. Tralasciando il fatto che, se scoppiasse oggi un conflitto dove siamo, la prima cosa che faremmo sarebbe assolutamente afferrare il telefono e correre, il fatto che, per la prima volta nella storia, l'esodo di una—anzi, di più—nazioni sotto assedio sia così organizzato, fa pensare che il contributo che possono dare i membri della comunità tech internazionale sia tutt'altro che labile e meno first world di quanto si possa pensare.

A questo punto, insomma, la stessa tecnologia che usiamo per trovare un appartamento a Lisbona per le vacanze può diventare uno strumento per collegare i rifugiati con chi è disposto a offrire loro un riparo temporaneo. Come si può sfruttare e implementare la tecnologia degli smartphone per offrire, il più in fretta possibile, un'intervento utile ai diversi aspetti della vita quotidiana di un gruppo di rifugiati? Le domande di TechFugees sono spaziate da quelle basilari su come connettersi e come ricaricare un telefono a quelle legate ai bisogni umani immediati: come mettiamo in contatto chi può offrire riparo e cibo e chi ne ha bisogno? Come si possono proteggere le donne dalle violenze che rischiano di subire? Come si mettono in contatto i civili con le NGO a cui fornire il proprio aiuto? Come cercare e trovare lavoro una volta raggiunta una destinazione sicura? Come districarsi dai rovi burocratici, come comunicare tra persone che non parlano—naturalmente—la stessa lingua?

TechFugees, nella sua prima edizione, si è dimostrata umile negli intenti ed estremamente dinamica nella pratica: ci sono gruppi Slack di discussione, pagine e pagine su Hackpad dove vengono inquadrate le esigenze e elencati i concept di risposta a queste esigenze, con attenzione a una serie di punti fondamentali ed estremamente critici: pensate a cosa significa affidarsi alla tecnologia quando si rischia la vita—a qual è, in questo caso, il valore dell'anonimato. Pensate a come far sapere di questa tecnologia—magari utilissima—ai rifugiati. Guardate cos'altro è stato proposto, evitate i doppioni, collaborate.

La seconda edizione di TechFugees sta dunque per realizzarsi qui in Italia, all' H-Farm di Treviso. Non con la pretesa di risolvere un'emergenza umanitaria di proporzioni bibliche, ma con quella di creare un luogo dove l'attitudine al problem-solving del techman odierno possa entrare in gioco, in una situazione storica senza precedenti. Potete partecipare. Basta andare qui.