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Il perfezionismo è una malattia e mi sta rovinando la vita

Ci sono due tipi di perfezionisti: quelli normali e quelli nevrotici. Io faccio parte della seconda categoria, e più mi guardo intorno più mi rendo conto che così facendo non ho ottenuto niente.

Illustrazione di Cei Willis

È la classica risposta da cazzone, quella che ai colloqui viene subito dopo il quesito sulle proprie debolezze. Un attimo di pausa, giusto per fingere che ci si stia pensando, e poi: "Sì, direi che il mio problema principale è che a volte tendo a essere un po' troppo perfezionista."

L'impressione che si intende trasmettere è chiara: a costo di essere percepito con una leggera negatività, quel perfezionismo emerge come semplice effetto collaterale di un lavoro più che eccellente; in altre parole, un pregio mascherato da difetto. Quello che il cazzone in questione non sa è che il perfezionismo è il male. Deve esserlo, altrimenti il candidato avrebbe di gran lunga preferito mostrare i genitali piuttosto che ammettere di soffrirne.

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Ventisette anni dopo che tutto è cominciato, guardo indietro e vedo che per colpa del perfezionismo non ho niente. Sono il guscio di un essere umano che ripercorre le rotte di un'esistenza che non mi appartiene più. E mi rivolgo a voi, con questo pezzo, per illustrarvi—e compensare—tutti questi anni sprecati.

Come descritto dallo psicologo Don Hamachek in uno studio del 1978, ci sono due tipologie di perfezionismo: normale e nevrotico. Il perfezionista regolare ambisce a standard piuttosto alti, ma non lascia che i suoi sforzi intacchino la sua serenità. L'atto stesso di perseguire la perfezione lo soddisfa. Quanto al perfezionista nevrotico, è un miserabile—la sua felicità dipende direttamente dal raggiungimento, o il mancato raggiungimento, di traguardi impossibili. E per questo motivo, spesso cade vittima di ripensamenti ossessivi.

Il perfezionismo è una condizione che potrebbe riguardare il 30 percento della popolazione. Tuttavia, come riporta uno [studio](http:// http://www.gifted.uconn.edu/nrcgt/reports/rm99140/rm99140.pdf) condotto nel 1999 negli Stati Uniti, tra le persone "dotate" la percentuale sale vertiginosamente, fino all'87. Di questo 87, solo il 30 percento è un perfezionista nevrotico.

Pur essendo annoverato tra i sintomi del disturbo ossessivo-compulsivo della personalità, il perfezionismo nevrotico si distingue dal disturbo in sé, poiché, anche se ha carattere compulsivo—e può essere usato per alleviare un'ossessione—chi soffre di DOC sa che il suo comportamento è "sbagliato", irrazionale. Il perfezionista nevrotico è convinto del contrario; ovvero del fatto che, nonostante le difficoltà, il suo perfezionismo lo sta aiutando a raggiungere livelli altrimenti irraggiungibili.

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Non c'è bisogno di dire che io faccio parte di quest'ultima categoria.

Di mestiere scrivo, e ultimamente il mio lavoro è rallentato al punto che trascorro intere giornate a scrivere e riscrivere la stessa frase. Sono convinto di poterla migliorare, ed è così, ma qual è il limite oltre il quale uno sforzo del genere diventa irragionevole? Trenta secondi, due minuti, un'ora? Di certo non due giorni.

Eppure, una volta che mi ci incastro quella frase non è più solo parole e messaggio—ma una massa informe che, sotto la minaccia dell'umiliazione, deve essere pungolata e incitata a raggiungere l'assoluta perfezione prima che io possa anche solo pensare di passare alla frase successiva.

A 27 anni non è automatico aspettarsi un successo nel campo della scrittura. Anche se Bret Easton Ellis è un buon esempio—Meno di zero è uscito quando aveva 21 anni—per uno scrittore della mia età è normale avere delle difficoltà. Non solo a livello economico, ma anche per quanto riguarda la possibilità di esprimersi artisticamente. È difficile perché deve esserlo. Perché quando si scrive dell'esperienza umana il dolore è molto spesso un ingrediente necessario. Ultimamente, però, ho iniziato a pensare che forse io mi sto barcamenando fin troppo, o quantomeno nel modo sbagliato. Passo giorni interi su una frase, nel tentativo di renderla più diretta, ma che dire della ricerca, della narrativa e di cose simili?

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Così mi ritrovo a chiedermi: sarei uno scrittore migliore, di maggiore successo, se non fossi più disposto a sbagliare?

Nel corso degli anni, varie ricerche—in particolare quelle degli psicologi Paul Hewitt e Gordon Flett—hanno individuato legami tra il perfezionismo e disturbi mentali come depressione, ansia, [dipendenza da droghe](http:// http://www.huffingtonpost.com/hillary-rettig/perfectionism-and-addictib396056.html) e maggiore [predisposizione al suicidio](http:// http://www.nytimes.com/1996/05/01/us/higher-suicide-risk-for-perfectionists.html). Altre ricerche tracciano un collegamento tra il perfezionismo e problemi fisici come asma, emicranie, fibromialgia e sindrome dell'intestino irritabile. E per questi motivi, i perfezionisti si assentano con più facilità dal lavoro e si sottopongono a un numero di visite mediche superiore alla media. E tutto ciò principalmente per via dello stress.

Il perfezionismo influisce su ogni aspetto della mia vita. Non riguarda solo la scrittura. Ma il cibo: da piccolo ero grasso, mentre ora mangio nello stesso modo in cui scrivo: lentamente, così da non dover affrontare il mio vero io impulsivo. Ogni mio errore va a sommarsi nella miseria e non mi insegna nulla, perché ho la convinzione che tornare indietro sia una perdita di tempo. Perché analizzare qualcosa che nel giro di dieci secondi non esisterà più?

Mi spiego: vado in bagno, e contando mi sforzo di smettere di pensare. Col crescere dei numeri, il respiro si fa più profondo e più pronunciato. È su quello che mi concentro almeno finché, arrivato a dieci, immagino che per pochi momenti di totale irrealtà tutto sia perfetto. Non ci sono frasi scritte male, né confezioni di patatine che giacciono sul mio letto. C'è solo spazio vuoto.

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Ma la vita deve inevitabilmente riempire questo spazio, e giunto a quella conclusione—per cui il passato che mi sono lasciato alle spalle continua a esistere—posso solo illudermi del fatto che la mia volontà lo sconfiggerà, che persino tra i cadaveri, io sono rinato. Ma la mia volontà traballerà, come fa ogni volta, e nel giro di minuti o addirittura secondi, alla vista di una minima imperfezione, riscoprirò quel fallimento che è la mia vita, che sono io, carne e ossa, mediocre sotto ogni punto di vista.

Anche le relazioni ne risentono—con [bambini, membri della famiglia e compagni](http:// http://www.psychologytoday.com/blog/the-joint-adventures-well-educated-couples/201209/how-perfectionism-hurts-relationships). Con la mia ragazza è così. Non deve soltanto gestire la rabbia frutto dei miei fallimenti, ma deve rispettare gli stessi standard che impongo a me stesso. E questo è ingiusto, dato che, a differenza del sottoscritto, lei è una persona di successo. Le dico che deve lavorare di più e che deve cambiare le sue abitudini alimentari perché tutto ciò che mi circonda deve essere perfetto così come voglio esserlo io. La critico, ma lei è fatta in un certo modo, e anche il mondo è fatto a suo modo, e solo un pazzo desidererebbe qualcosa che non c'è quando entrambe quelle realtà sono già meravigliose.

Ho perso anche degli amici. Negli ultimi anni ho interrotto i contatti con persone a cui ero legato da tempo per incongruenze che, per quanto reali e fastidiose, avevano assorbito tutte le mie attenzioni facendomi oltrepassare i limiti. Usavo le loro imperfezioni per assolvermi dalla mia responsabilità di amico, ovvero la responsabilità di aiutarli. Dando per certa la mia perfezione non riuscivo a tollerare la loro presenza piena di imperfezioni, quelle che inevitabilmente riflettevano anche le mie.

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Ho passato tutta la mia vita a scappare. Non ho mai preso in considerazione la possibilità di fermarmi e affrontare la persona che sono.

Non c'è esempio migliore di quanto accaduto quando, a 15 anni, ho lasciato la scuola. Venivo bullizzato, ma non è quello il motivo. Ero un ragazzo sensibile, non solo per questioni legate al mio peso, ma anche per la consapevolezza che stavo diventato uno studente nella media, mentre fino ai 13 anni ero stato il primo della classe. Avevo bisogno di aiuto, tanto dai miei genitori quanto dalla scuola, ma non lo ricevetti.

Specialmente dai miei genitori avevo bisogno che affrontassero il fatto che i difetti sui quali mi avevano cresciuto—il loro senso di inferiorità, la paura delle emozioni—avevano avuto delle ripercussioni. Ero depresso e loro non fecero nulla, perché i loro fallimenti li spaventavano più che vedere un figlio perso.

Così sono scappato, via dai miei compagni, via dagli insegnanti che mi facevano "vergognare", via dal vero me stesso: uno studente normalissimo che vomitava durante le lezioni di educazione fisica; che, anche se non era proprio il ragazzino più preso in giro di tutti, non era più la figura rispettata di prima; qualcuno che, attraverso l'eccellenza, stava scappando dall'esistenza del cazzo che doveva affrontare.

È ovvio che buona parte del mio essere un perfezionista, uno scrittore, esiste in reazione al passato, all'idea dei miei genitori per cui nessuno di noi, né io né loro, valessimo qualcosa. Ogni giorno mi dico di provarci, di sfidare quel poco di pazzia dentro me che riesce (anche se dolorosamente) a proiettarmi oltre il futuro che loro si aspettavano da me.

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Ma, mi chiedo, scriverei tutto ciò se lo credessi ancora possibile? Mi sentirei così a pezzi e senza speranza se, qui e ora, ammettessi di fronte a voi che quello che ho più bisogno di raggiungere—così che ogni futuro sia possibile—non è la perfezione, ma un qualche senso di felicità?

Il solo pronunciarla mi mette a disagio. "Felicità" è una parola per la gente col cervello debole, per i guru dell'auto-aiuto e per i post "Fate girare" su Facebook. Di conseguenza, è una parola che non ho mai pronunciato molto spesso, tranne per dire che sarò felice quando sarò perfetto. Ma se continuo così, in fondo in fondo so che le cose non faranno che peggiorare. Diventerò ancora più lento, ancora più arrabbiato. Se per tutta la vita non ho fatto che fuggire da quello che sono, forse è finalmente arrivato il momento di fermarmi e affrontare me stesso, a prescindere dalle conseguenze.

Quel che scriverò sarà imperfetto, e allora? Le mie frasi saranno meno acute, meno dirette, e sembrerò più ridicolo e vulnerabile di quello che vorrei, ma chi se ne importa? Mangerò, prenderò peso e forse ingrasserò ancora, ma da tutto ciò forse può emergere un uomo più clemente verso le proprie imperfezioni, qualcuno capace di imparare dai propri errori—così che il vero progresso verso il successo e (cosa più importante) verso la felicità possa diventare una realtà, finalmente.

Il perfezionismo viene curato con la [terapia](http:// https://www.stpatricks.ie/blog/how-cbt-can-help-improve-perfectionism) cognitivo-comportamentale, un metodo che consiste nell'individuare i pensieri e le azioni che provocano problemi, e sradicarli. Per fare ciò, il paziente deve superare l'ansia di confrontarsi con i propri difetti per poi imparare, col tempo, ad accettarli e a trovare soddisfazione nella propria crescita. Suppongo quindi che questo articolo sia proprio il mio tentativo: un primo passo verso un lungo e doloroso processo dopo il quale, una volta trovato il coraggio, potrò andare in terapia.

Comunque, anche se spero che questo pezzo sia l'inizio di un nuovo modo di vivere e lavorare che mi renda felice, chi ha detto che la mia volontà di essere imperfetto sarà più forte del suo opposto? Anche se ho quasi finito di scrivere, ho ancora paura di andare fuori di testa e editare l'articolo finché non rimarrà niente. Solo il tempo lo potrà dire, e anche se può sembrare un cliché, forse se riesco ad accettare questo, ovvero il fatto che alcune cose della vita non possono essere previste, alla fine di questa frase troverò la forza di inviare questo articolo nella speranza che a qualcuno piaccia.

Segui James su Twitter: @0jnolan

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