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Attualità

Il film che racconta dall'interno la vita in una comunità rom italiana

Abbiamo parlato con Jonas Carpignano di come è nata la storia, del suo rapporto con i protagonisti e degli stereotipi sui rom.
Tutte le foto per gentile concessione di Academy Two.

Sono andata a vedere A Ciambra una domenica pomeriggio a Milano, e all'uscita non ho potuto fare a meno di fermarmi ad ascoltare le proteste di una signora. Si lamentava con il cassiere del volume "non tollerabile" del film, diceva che in vita sua non aveva "mai visto una cosa del genere".

A scanso di equivoci, non era il volume in sala ad essere troppo alto, è che molto probabilmente la signora non era mai stata a pranzo con una famiglia rom, e se mai ci andasse sono sicura ne uscirebbe con le stesse critiche. Per questo, ho letto quella frase come la dimostrazione della totale riuscita del film: A Ciambra ti immerge letteralmente in un'altra realtà.

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Il film racconta la vita della comunità rom di Gioia Tauro attraverso il personaggio di Pio Amato, un 14enne che si affaccia alla vita adulta. Pio cresce nella criminalità: ruba, trova i soldi per aiutare la famiglia, non sa leggere, fuma, abbraccia la nonna come un normale 14enne, ha paura e si scopre amico di Ayiva —un ragazzo del Burkina Faso parte della vicina comunità africana. Seguendo le vicende di Pio e della famiglia Amato, il film racconta le dinamiche di quel mondo e di cosa voglia dire farne parte.

Arrivato in Italia grazie ad Academy Two, il regista del film—prodotto dal fondo di Martin Scorsese—è Jonas Carpignano, un regista italo-americano che già aveva fatto parlare di sé con il precedente film Mediterranea. Ho contattato Jonas per parlare con lui di come è nata la storia e del suo rapporto con i protagonisti del film.

VICE: Come hai scoperto della comunità rom di Gioia Tauro e come ci sei entrato in contatto?
Jonas Carpignano: Ho scoperto Gioia Tauro nel 2010. Ero andato in Calabria a documentarmi sulla rivolta di Rosarno, la prima rivolta razziale d'Italia, con l'idea di farne un film. Sono nati quindi prima il mio primo cortometraggio, A Chjana, e poi il mio primo lungometraggio, Mediterranea [film del 2015 sul viaggio di due giovani migranti del Burkina Faso che si ritrovano a Rosarno, non distribuito in Italia]. Per me fare un film significa vivere nel luogo, conoscere la gente, sviluppare la storia con loro. Era naturale che Gioia diventasse la mia residenza, con tutto quello che questo implica: amicizie, conoscenze, piacere.

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Sono andato alla Ciambra, il quartiere rom di Gioia, nel 2011 dopo il furto di una FIAT Panda con l'attrezzatura tecnica della nostra troupe mentre stavamo girando A Chjana. Quando a Gioia una macchina sparisce, la prima cosa che fai è "andare dagli zingari" per poterla riscattare. Mi sono subito innamorato dell'energia che quel luogo emanava.

In alcuni casi sembra semplicemente che tu abbia acceso le telecamere e filmato le vite dei protagonisti. C'era una trama precisa alla base? Come si è evoluta?
Sono andato alla Ciambra con una vaga storia in mente e poi, una volta conosciuto Pio, ho adattato la sceneggiatura e ho inserito elementi biografici della famiglia Amato. In entrambi i casi, dopo aver incontrato i protagonisti, ho cercato di adattare i film il più possibile alla loro vita, mantenendo tuttavia la struttura drammatica del racconto. Il dialogo della sceneggiatura è quasi sempre quello che ho già sentito dire da loro in precedenza.

Non penso mai ai miei film come delle storie che rispecchiano il più possibile la realtà. Li penso invece come un intervento in una situazione che ha delle potenzialità drammatiche. Intervenendo in una situazione reale il film costruisce una narrazione che la esprime.

In questo caso la situazione reale attorno alla quale il film si sviluppa è la famiglia Amato.
Esatto, il film è tanto la storia di Pio quanto della famiglia Amato, la sua famiglia reale. Questa dinamica famigliare è il tessuto connettivo del film. La lunga scena della cena in casa Amato all'inizio del film è emblematica della forma che ho voluto il film avesse, una dinamica corale che circonda e accompagna l'azione del protagonista Pio. È questa dimensione di famiglia estesa che caratterizza gli Amato come tutta la Ciambra. Non si è mai trattato di scegliere un "attore" per recitare una "parte", ma su chi puntare la camera in una realtà collettiva già esistente.

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Cosa ti ha colpito di Pio?
A colpirmi fin dall'inizio sono state le espressioni visibili del suo carattere: un misto di tenerezza e determinazione, di timidità e di forza, mai un'ombra di spavalderia e di arroganza anche in situazioni che lo richiederebbero, nel film come nella sua vita. Il film come si può vedere è tutto giocato sulla sua faccia, le sue espressioni e reazioni. Le risate durante la cena di famiglia, il timore quando entra nella tendopoli dei migranti, il pianto nelle braccia di Ayiva. Il film si può leggere tutto sulla sua faccia. Questa capacità espressiva naturale è quello che lo rende diverso dagli altri bambini della Ciambra. Ed è per questo che l'ho scelto come protagonista e che ho costruito la storia intorno a lui.

Pio e Ayiva in una scena del film.

Della comunità si raccontano senza giudizio né filtri tutti gli aspetti, anche quelli più opachi. Non c'era la paura che in un certo senso il film finisse per legittimare certi pregiudizi una certa stigmatizzazione?
Chi ha quei pregiudizi ed ha stigmatizzato il "modo di vivere" dei rom non cambierà idea per un film come questo. Il problema sta a monte, quando si parla di "furto" e lo si usa come se fosse un attributo caratteriale di una intera comunità (che è poi il fondamento del razzismo). Perché invece non fare un'altra domanda? Proviamo a chiederci come si inseriscono certi comportamenti attribuiti ai rom in un sistema sociale ed economico fondato sull'appropriazione quale è quello in cui viviamo. L'interesse bancario, il profitto, la tassazione, le multe (dato che parliamo di automobili) sono spesso forme di appropriazione che redistribuiscono la ricchezza verso l'alto.

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Ecco, le attività di rom e immigrati africani a Gioia rientrano in parte nell'economia sotterranea della sopravvivenza—come dire, pratiche di distribuzione verso il basso La differenza è che quelle sono legali e sancite da istituzioni economiche e statali, le altre sono penalizzate come criminali. In ogni caso il film non cerca di dare un giudizio morale o di giustificare o criticare un sistema economico e sociale. Invece cerca di mostrare come anche in queste condizioni è possibile, ma anche estremamente difficile, stabilire delle forme di solidarietà e amicizia. Il rapport Pio - Ayiva è l'asse fondamentale di questa possibilità/impossibilità.

Com'è stato passare del tempo con la famiglia Amato?
È stata e continua a essere un'esperienza affascinante ed emotivamente intensa. Non voglio romanticizzare il mio rapporto con gli Amato e pretendere di essere stato accolto come un membro della famiglia, come si suol dire, ma il solo fatto di non essere considerato un intruso mi fa pensare che sono riuscito a generare una sorta di solidarietà con loro che spero sia visibile nel film.

Ma c'è un problema più generale di accoglienza oggi in tutto il sud d'Italia che non riguarda me ma le dinamiche sociali che stanno cambiando quella zona. Quando Mediterranea e A Ciambra sono stati proiettati in un affollatissimo cinema di Gioia c'è chi ha scritto che uno degli effetti più eclatanti dei film è stato quello di avere messo insieme nello stesso luogo per la prima volta gioiesi, immigrati africani e "zingari". Se i miei film riescono a far parlare di accoglienza invece che di emarginazione, lo considero un successo.

Che progetti hai per il futuro?
Voglio continuare a fare film. Sto già lavorando su un film che conclude la trilogia gioiese. Mediterranea era sui migranti africani, A Ciambra sui rom, A Chiara sarà su un'altra faccia della città. Questa volta la protagonista è una bambina che nel crescere scopre la forza dei rapporti famigliari . E così come alcuni dei personaggi di Mediterranea riappaiono in A Ciambra, in A Chiara rivedremo dei volti conosciuti. Chissà, forse anche Pio.

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