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Come le carceri private potrebbero diventare il nuovo business della sicurezza in Italia

Quello delle carceri private, negli Stati Uniti, è diventato un business che rischia di danneggiare sia lo stato che gli stessi detenuti — un modello che adesso rischia di essere importato anche in Italia.
Foto di Massimilianogalardi/Wikimedia Commons

Negli Stati Uniti esistono compagnie che fanno della detenzione in carcere un business. Sono i giganti delle carceri private, coinvolti in un giro di affari che porta nelle loro casse fino a 162 milioni di dollari all'anno — suddivisi tra contratti federali, rette per detenuto e rimborsi per i servizi di gestione interni. Un modello nato nel mondo anglosassone, ma ora in fase di sviluppo anche in Italia, con la costruzione del nuovo penitenziario di Bolzano.

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Il primo carcere a gestione privata è nato negli Stati Uniti negli anni Ottanta. Era il periodo delle grandi privatizzazioni del governo Reagan, ma anche quello della "war on drugs" che stava riempiendo sempre più le già sovraffollate carceri pubbliche del paese: da qui l'idea di ovviare a questo problema con il settore privato, convinti sarebbe stato in grado di gestire in modo più efficiente e meno oneroso le strutture.

Il meccanismo di funzionamento è semplice. Si indice una gara d'appalto, l'azienda che presenta il miglior progetto ottiene i permessi per la costruzione della struttura, e una volta che questa è ultimata si occupa della gestione dei servizi interni.

Lo Stato versa alla compagnia che gestisce il carcere un contributo per ogni detenuto, che si aggira intorno ai 1.500 dollari al mese e che in alcuni casi può sfiorare i 5.000. Vi sono poi versamenti di quote statali per l'erogazione di servizi interni, quali l'assistenza medica, i pasti o le telefonate, così come contratti spesso milionari derivanti dal fatto che la compagnia privata sta liberando lo Stato di un carico di lavoro importante.

È così che si sviluppa il business della carceri private, un sistema basato sull'equazione più detenuti = più guadagni. Le grandi compagnie americane spendono milioni di dollari a ogni tornata elettorale per fare attività di lobbying sui vari candidati presidenziali, affinché mantengano in piedi questo sistema.

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Come già segnalato di recente da un articolo di VICE News, "dal 2000 a oggi GEO, CCA e MTC hanno investito più di 32 milioni di dollari in attività di lobbying e in contributi alle campagne elettorali." Ancora a ottobre 2015, quasi 300mila dollari erano già stati investiti nella campagna presidenziale del 2016, suddivisi più o meno equamente tra la candidata democratica Hilary Clinton, e tra i repubblicani Marco Rubio e Jeb Bush.

Leggi anche: Dentro la radicalizzazione jihadista nelle carceri italiane

Ma se in America è una realtà da ormai più di venti anni, il business delle carceri private è oggi in fase di concretizzazione anche in Italia.

L'articolo 43 del Decreto Liberalizzazioni, stipulato nel 2012 dal governo Monti, introduce il cosiddetto "Project financing per la realizzazione di infrastrutture carcerarie."

Promossa dall'attuale candidato sindaco di Milano, Corrado Passera, la misura spiana la strada alla costruzione e alla manutenzione degli istituti detentivi da parte di soggetti privati, ai quali viene poi riconosciuta una quota statale annuale per la gestione dei servizi interni.

Come si legge nel decreto, la misura è stata introdotta per "fronteggiare la grave situazione di emergenza conseguente all'eccessivo affollamento delle carceri," riconosce "al concessionario, a titolo di prezzo, una tariffa per la gestione dell'infrastruttura e per i servizi connessi" e obbliga il concessionario a "prevedere che le fondazioni di origine bancaria contribuiscano alla realizzazione delle infrastrutture […], con il finanziamento di almeno il venti per cento del costo di investimento."

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Banche e privati potrebbero, in definitiva, ambire a diventare i nuovi protagonisti del sistema penitenziario italiano.

VICE News ha parlato con Simone Santorso, professore di Sociologia della Devianza all'Università degli studi di Padova e membro di Antigone, associazione che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale, per capire meglio a cosa sta andando incontro l'Italia.

"Quello della privatizzazione delle carceri è un modello che importiamo dal mondo anglosassone e che all'estero è risultato molto dispendioso, poiché attiva dei meccanismi peculiari," spiega il professore. "Le lobby delle carceri iniziano a fare pressione sui sistemi legislativi in modo da avere leggi più severe che prevedano un uso più diffuso del carcere, in maniera da avere più 'clienti'. Questo porta al collasso del sistema carcerario."

Due esempi sono quelli della California o del Regno Unito, dove la privatizzazione delle carceri ha portato a un inasprimento delle pene detentive che a sua volta è degenerato in un insostenibile sovraffollamento degli istituti. "Si crea una forma di paradosso: prima si favorisce la detenzione e poi ci si trova in una situazione di emergenza nazionale," continua Santorso.

Le istituzioni italiane sembrano però aver ignorato i feedback negativi provenienti dall'estero, come dimostra l'approvazione dell'articolo 43 e l'imminente apertura del nuovo carcere privato di Bolzano.

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Nel 2013 la Provincia Autonoma ha pubblicato il bando di concessione dal valore di 72 milioni di euro, riguardante il finanziamento, la progettazione e la costruzione del nuovo istituto penitenziario altoatesino. Il vincitore dell'appalto viene indicato anche come gestore delle questioni interne, quali gli arredi, le apparecchiature e le attrezzature, così come responsabile della manutenzione dell'immobile e degli impianti, delle utenze, del servizio mensa e del bar interno, dei servizi lavanderia e pulizia, delle attività sportive, formative e ricreative.

Vincitore dell'appalto è Inso, controllata della società romana delle costruzioni civili Condotte spa. Una società leader nel mercato italiano, con un CV di tutto rispetto che include operazioni nell'ambito del tunnel del Monte Bianco, della metropolitana milanese e della Tav in Toscana — ma anche qualche ombra: nel 2012, per esempio, alcuni dirigenti dell'impresa vennero arrestati nell'operazione "Bellu lavuru" per infiltrazioni mafiose in alcuni appalti.

Nel 2014 iniziano i lavori di costruzione del nuovo carcere, che dovrebbero terminare nel corso del 2016.

"Quello di Bolzano sarà un esperimento e resterà per molti anni tale," precisa però Santorso a VICE News. "È un business che per il momento farà fatica ad attecchire in Italia, perché il tessuto socioeconomico risulta ancora abbastanza refrattario." E in effetti, il decreto per la privatizzazione delle carceri ha portato a una profonda mobilitazione da parte dei sindacati di categoria legati alle carceri.

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"Sindacato di polizia, sindacato degli educatori, direttori delle carceri pubbliche: indifferentemente dal colore politico, dal loro punto di vista quello delle privatizzazioni è un tema pericoloso e problematico."

Leggi anche: Le prigioni private americane guadagnano incarcerando sempre più immigrati

VICE News ha contattato il SAPPE, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, per capire quali sono le loro perplessità nei confronti del nuovo modello carcerario in fase di importazione in Italia.

"Privatizzare significa dare in mano a un imprenditore la gestione del carcere," afferma Donato Capece, Segretario Generale del SAPPE. "Sappiamo bene che questo gli permetterebbe di farci un business e di togliere ai detenuti i loro minimi diritti assistenziali."

Il sindacato lamenta il mancato coinvolgimento da parte istituzionale di tutte quelle categorie che, tra educazione e vigilanza, lavorano all'interno degli istituti penitenziari. La percezione del sindacato è insomma quella che il nuovo decreto sia stato calato dall'alto, senza effettivamente coinvolgere le parti interessate e più competenti, e garantirebbe agli enti privati delle entrate importanti. Capece parla di una "retta statale" di circa due milioni di euro all'anno, una cifra che VICE News non è riuscita a verificare.

"Ci sono problemi di gestione, ma sopratutto vengono compressi i diritti dei detenuti perché l'imprenditore deve in qualche modo guadagnarci," accusa Capece. "Il modello di carcere privato non funziona, noi abbiamo incontrato i colleghi dei sindacati europei dell'Irlanda, del Regno Unito e del Galles, e tutti ne parlano in maniera negativa."

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Al di là del business, il modello detentivo privato sembra in effetti non aver portato buoni risultati nemmeno in termini di risparmio ed efficienza.

Secondo un report dell'University of Utah, "i risparmi derivanti dalle prigioni private non sono garantiti — o comunque appaiono minimi. La qualità della detenzione risulta essere simile nei sistemi gestiti privatamente e pubblicamente, con le prigioni pubbliche che riescono a erogare un servizio di formazione migliore e che subiscono meno rimostranze da parte dei detenuti."

Alle stesse conclusioni giungono decine di altri studi, tanto da portare alcuni organi internazionali, quali la Sottocommissione ONU per la lotta contro la discriminazione e per la protezione delle minoranze, a prendere pubblicamente posizione contro questo modello detentivo.

Simone Santorso solleva poi un altro problema relativo alla privatizzazione delle carceri: la maggiore difficoltà di vigilanza al loro interno. "Il monitoraggio sia delle condizioni di vita che degli spazi disponibili diventerebbe molto più difficoltoso, tant'è che i casi di abusi e violenza nelle carceri private americane ed anglosassoni sono frequenti e molto spesso difficili da provare," spiega a VICE News.

Quello che stupisce, oggi, è che se da una parte il modello carcerario privato è stato autorizzato per far fronte al problema del sovraffollamento dei penitenziari italiani – per cui l'Italia era stata condannata nel 2013 dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo – dall'altra parte lo stesso ministero della Giustizia ha di recente dichiarato di aver praticamente risolto il problema. Questo, senza che alcun carcere privato sia ancora stato aperto.

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Si creano insomma problemi di trasparenza: le carceri private diventano un mondo a sé, di difficile ispezione. Solo piccole ONG e associazioni legate alle stesse carceri riescono effettivamente a mettere il naso in queste strutture e a denunciare eventuali abusi.

Si vengono a sovrapporre diversi livelli di responsabilità pubblico-privata, e questo ostacola le possibilità di scardinare il meccanismo dei soprusi. "Se un ufficiale è pubblico deve rispondere a determinate regole. Se invece si parla di gestione privata e operatori privati le cose cambiano, e anche a livello di restituzione dei dati e di trasparenza è più facile che si crei una sorta di velo e che venga mostrata una realtà distorta."

Il rischio futuro è la possibilità di entrare nella spirale californiana, con un nuovo aumento dei reclusi sull'onda del business della detenzione, e un rinnovato sovraffollamento delle carceri. L'Italia per ora vuole tutelarsi da un'eventualità di questo tipo, come dimostra il fatto che l'introduzione del modello carcerario privato sia avvenuta in parallelo con la predisposizione di misure deflattive sotto forma di depenalizzazioni di vario titolo.

Se questo non sembra scongiurare la creazione di un vero e proprio business sulle pene detentive – con rischi di infiltrazioni criminali e appalti truccati come già accaduto con lo scandalo "carceri d'oro" negli anni Ottanta – rimane poi la delicata questione morale di una forma di detenzione di questo tipo.

"Il carcere rappresenta un modello attraverso cui lo Stato si arroga il diritto di infliggere una pena," conclude Santorso. "Il fatto che lo Stato italiano non infligga questa sofferenza di propria mano, ma la deleghi a dei privati, solleva molti dubbi."

Leggi anche: L'Italia continua a spendere una marea di soldi per tenere in carcere i tossicodipendenti


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Foto di Massimilianogalardi via Wikimedia Commons, rilasciata su licenza Creative Commons