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L’eroina, l’esercito e un delitto misterioso: in Afghanistan sulle tracce del caso Parolisi

Seguendo le tracce di uno dei casi di cronaca più spinosi degli ultimi anni, VICE News è andata in Medio Oriente per indagare sulle possibili connessioni tra l'omicidio di Melania Rea e i narcotraffici dei contingenti internazionali.
Militari italiani a Herat [Foto di Alessandro De Pascale/VICE News]

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Nell'aprile del 2011 il corpo di Melania Rea, 29enne in gita con la famiglia sulle colline del teramano, viene ritrovato senza vita e trafitto da decine di coltellate. Per l'omicidio viene accusato e condannato a 20 anni suo marito, il caporalmaggiore degli alpini Salvatore Parolisi.

Il caso, sin da subito, è stato trattato dai media come l'ennesima vicenda a metà tra cronaca nera e rosa da scrutare dal buco della serratura. A ben vedere, però, il caso Parolisi rischierà di rivelarsi tutt'altra faccenda.

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Sarà l'ordinanza del gip di Teramo, Giovanni Cirillo, a definire l'ipotesi di un delitto "passionale" come "non soddisfacente," sottolineando come il vero movente possa invece essere "qualcosa di inconfessabile" e quanto sia necessario approfondire i rapporti interni alla caserma e "l'eventuale esistenza di giri di droga" che coinvolgano potenzialmente anche l'Esercito italiano.

Inizio così a seguire la vicenda, per approfondire l'esistenza di un'eventuale connessione tra i soldati dei contingenti internazionali e le droghe, e cercare di capire quale sia il sottile filo rosso che lega il caso di Parolisi al presunto traffico di eroina da parte delle forze militari nella missione afghana.

Leggi anche: L'Esercito Italiano ha un problema col disturbo post-traumatico da stress

Una storia che in qualche modo mi porta a conoscere quanto la droga sia ormai legata indissolubilmente ai conflitti: fin dai tempi di Alessandro Magno, a ogni guerra è corrisposta la comparsa di una nuova sostanza, inizialmente usata dai combattenti e in seguito arrivata sul mercato. La storia di come la droga stessa serva anche a finanziare le guerre.

Così da Roma, nel 2012, viaggio per oltre 4.000 chilometri, destinazione Kabul.

Kabul, Afghanistan

Sono oltre 16 ore di tragitto. Scomodo, ma molto meno rispetto all'inizio del conflitto nel 2001, visto che oggi la nostra aviazione - dovendo fare continuamente avanti e indietro dall'Afghanistan - si è attrezzata.

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Per Kabul si vola sui nuovi, grandi, moderni e veloci Boeing da trasporto Kc-767, derivato militare della versione civile. A bordo, militari dell'aviazione che - come hostess, ma in divisa - ti portano il vassoio col cibo.

Già dall'aereo, la capitale afghana appare dal nulla per quella che è: un'enorme piana alta 1.765 metri, circondata da una cintura di aspre montagne. Secondo le stime, oggi ci vivrebbero circa 4 milioni di abitanti, rispetto al milione dell'era talebana.

La speculazione edilizia, di conseguenza, è stata ed è spaventosa: la periferia mangia continuamente nuove porzioni di territorio con palazzi in stile sovietico o ville kitsch, dalla facciata - ma solo quella - con finte colonne di cemento (il marmo non c'è) e stucchi colorati, spesso frutto dei narcodollari. L'idea di fondo è "ostento, dunque sono."

L'International Airport di Kabul sembra una vecchia stazione degli autobus di un qualsiasi paesotto di provincia. Il controllo passaporti dell'Ufficio Immigrazione è ospitato all'interno di vecchi box di legno, privi di aria condizionata. Già a primavera, la temperatura è come in Italia ad agosto.

I controlli sono asfissianti. Militari e polizia afghana sono ovunque, col loro tipico kalashnikov in spalla: un check point quasi a ogni angolo, con i mitra spianati.

Fuori dallo scalo, il traffico senza regole di Kabul. Guidare in città è come partecipare al Camel Trophy, e anche nel centro spesso le strade sono fangose e non asfaltate: così facendo - mi spiegano - cercano di evitare che le macchine dei kamikaze imbottite di esplosivo arrivino a tutta velocità per farsi saltare in aria.

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Il traffico di Kabul. [Foto di Alessandro De Pascale]

Ogni volta che il mio autista vede un blindato Nato, un pickup dell'esercito o della polizia afghani, oppure quelli senza targa dei contractor e degli '007', li scarta con il volante e cerca di cambiare strada. Sono un bersaglio, e chiunque sia loro vicino rischia di finire, suo malgrado, vittima del 'danno collaterale'.

Anche davanti al luogo previsto per il pernottamento la strada non è asfaltata: all'ingresso, alte mura di cinta. Davanti, il gabbiotto della sicurezza con le guardie private armate di kalashnikov, protette da sacchi di sabbia.

Uno dei principali problemi di Kabul, per un occidentale, è proprio questo: i civili dell'Ovest restano prigionieri dei compound, delle stanze d'albergo, degli uffici o delle residenze blindate prese in affitto dalla comunità internazionale, costretti dal codice della sicurezza a rimanere loro interno, a non girovagare di notte, a non andare in giro da soli.

L'altro problema è la grande difficoltà nel capire con chi hai a che fare.

Oltre ai corpi dell'esercito regolare, devi poi fare i conti anche con soldati di origini e nazionalità diverse, uomini dei servizi segreti, mercenari, guardie armate la cui origine è tutto fuorché evidente, e che al primo sospetto ti mettono sotto tiro e poi ti chiedono chi sei, mentre tu - come loro, ma disarmato - non hai la più pallida idea di chi ti stia davanti.

Ovviamente, contravverrò alla maggior parte di queste norme di sicurezza.

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Le guerre e le droghe

Nella capitale irachena Baghdad, agli angoli delle strade, sui banchi dei mercati e persino nei bar, si trovavano tranquillamente farmaci contenenti anfetamina e codeina a prezzi bassissimi.

Riportavano scritte in inglese, con il marchio del ministero della Salute iracheno e la dicitura "not for sale" — non di rado si trattava infatti di aiuti esteri, provenienti dalle dotazioni delle ONG. Di confezioni e foglietto illustrativo nemmeno l'ombra, mentre sui banchi dei mercati le pillole si comprano direttamente sfuse.

Gli afghani, invece, sono forti su oppio ed eroina. All'epoca, tra l'altro, i conflitti in Medio Oriente stavano aumentando l'uso degli stupefacenti.

Sulla scena, però, da qualche tempo ha fatto irruzione l'autoproclamato Stato Islamico (IS), che usa le fabbriche farmaceutiche conquistate dal regime siriano per produrre il Captagon, un derivato dell'anfetamina diventato la razione base dei jihadisti e assunto, come rivelano le autopsie, anche da kamikaze e attentatori come quelli di Sousse o Parigi.

Del rapporto tra guerra e droga mi occupo dal 2007. Per il settimanale Left ho firmato una storia di copertina dal titolo "Guerre drogate," frutto del mio primo lavoro sul campo.

In quel servizio raccontavo come l'uso di anfetamine, ribattezzate in gergo go-pills, venisse incoraggiato dal Pentagono per i propri piloti dei caccia che dovevano andare a bombardare all'altro capo del mondo. Così facendo potevano impiegare le truppe per 72 ore (rispetto alle 12 della norma), bilanciandone poi gli effetti con dei sedativi - le no go-pills - che contribuiscono a far calare l'effetto degli eccitanti.

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Non meno rilevante, il fenomeno del disturbo da stress post-traumatico (DSPT), di cui soffrivano i reduci al ritorno dai teatri di guerra, in quanto sottoposti alla anormalità dei conflitti — militari ai quali i medici in divisa prescrivevano poi diversi psicofarmaci.

Tutto questo, sommato all'uso di droghe illegali, si trasformava in una miscela ancora più esplosiva, che avrebbe provocato tutta una serie di 'effetti collaterali'.

L'ingresso nella zona delle Ambasciate di Kabul. [Foto di Alessandro De Pascale]

I principali contingenti in campo - quello statunitense, quello britannico, quello canadese - ammettono effettivamente il problema. Del resto i casi di overdose, di dipendenza da eroina dopo il rientro in patri, di suicidi e di spaccio, sono talmente numerosi che sarebbe quasi impossibile nasconderli.

Se l'esercito britannico è costretto a congedare ogni anno - proprio per l'uso dilagante di stupefacenti - un numero di soldati pari a un battaglione, anche per il Pentagono questo rappresenta una piaga profonda — basti pensare al Vietnam, e alle cifre che raccontano come quasi nove soldati su dieci siano diventati eroinomani durante e dopo quel conflitto.

Tra le truppe italiane, invece, il problema "droga" sembra non esistere: nessun morto per overdose, nessuna denuncia di consumo o spaccio e problemi psicologici che sembrano esserci, ma di cui nessuno parla.

Come se i nostri organismi militari avessero degli anticorpi che ci rendono immuni da un problema invece endemico, che sta devastando da anni gli altri contingenti. O - semplicemente - come si volesse negare il problema, per qualche motivo.

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I militari italiani addestrano le forze afghane. [Foto di Alessandro De Pascale]

Eppure, in termini numerici, siamo stati il quarto contingente del Paese, dopo statunitensi, britannici e tedeschi. Tra il 2011 e il 2012, inoltre, la maggiore crescita delle aree coltivate a oppio, con punte del 195 per cento, si è registrata proprio nelle quattro province sotto il controllo italiano: Herat, Badghis, Ghor e Farah.

Solo il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Claudio Graziano, nel 2012, diffonde una lettera ai comandanti mettendo in guardia da quei "comportamenti negativi" che "denotano un inequivocabile ed intollerabile allentamento di quella tensione morale che deve essere il tratto distintivo di ogni militare." Ma il riferimento esplicito alle droghe, anche in questo caso, manca.

Sulle tracce del caporalmaggiore Parolisi

L'obiettivo di quel viaggio, nel 2012, era indagare su una pista in particolare legata all'omicidio di Melania Rea. Il mio interessamento per questo caso ha inizio quando un magistrato, mia fonte usuale per fatti di camorra, mi segnala l'arrivo in Italia di una partita di eroina purissima, su cui hanno messo gli occhi anche i Casalesi.

I Casalesi sono un clan anomalo per il territorio campano, di tipo quasi 'mafioso': gli altri gruppi criminali campani sono invece più simili alle gang sudamericane, lottano costantemente per il controllo di piazze di spaccio, fossero anche singoli vicoli.

I Casalesi, invece, no: hanno sempre puntato in alto, anche grazie ai presunti rapporti con la politica nazionale — l'ex coordinatore campano del Pdl Nicola Cosentino, nonché sottosegretario, anche all'economia, nei governi Berlusconi, da tempo è sotto processo con l'accusa di essere il loro "referente nazionale."

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Il clan - non a caso - ha lavorato in molti appalti pubblici, dal Tav Napoli-Roma alla terza corsia dell'autostrada A1, passando per la superstrada Asse Mediano e addirittura il carcere della loro zona, quello di Santa Maria Capua Vetere (CE).

La vendita della droga l'hanno invece quasi sempre appaltata, ricavandone laute provvigioni. Ma qualcosa in quel periodo stava cambiando. È così che scopro una serie di vicende inquietanti legate al caso di Salvatore Parolisi.

Leggi anche: Neomelodici e digitale terrestre: come la camorra ha occupato le tv napoletane

Il giudice per le indagini preliminari, Giovanni Cirillo - che poi convaliderà anche l'arresto di Parolisi - è l'unico a indicare fin dall'inizio al Pubblico Ministero, Umberto Gioele Monti, di seguire anche altre piste — compresa quella della droga.

Una settimana dopo, nel pieno delle indagini, il Consiglio Superiore della Magistratura nomina Cirillo procuratore capo di Giulianova (TE), con insediamento immediato, senza quindi dargli nemmeno il tempo di occuparsi dell'avvicendamento per l'inchiesta.

Si scopre inoltre che un magistrato di Roma sostiene di aver visto Melania Rea nella procura nella capitale - dove finiscono tutti i reati commessi dagli italiani all'estero - appena pochi giorni prima del delitto.

I reporter campani del periodico La Voce delle Voci, intanto, parlano di un certo Andrea Parolisi, meglio conosciuto come "zia chiattona" e diventato pentito di camorra, ipotizzando sia un lontano parente di Salvatore, residente a Grumo Nevano — paesone contiguo a Frattamaggiore, luogo di origine del militare italiano.

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Cosa che fa sorgere non pochi dubbi: era lui la persona che avrebbe accompagnato Melania Rea in procura a Roma? E soprattutto, era sua la testimonianza che sarebbe poi stata acquisita e secretata dalla procura militare sui traffici di eroina da parte dei militari italiani?

Ci sono poi gli strani segni lasciati sul corpo di Melania, a partire da una grata incisa sulla coscia destra, un laccio emostatico al braccio e una siringa con tracce di eroina conficcata nel petto. Per i nuovi titolari dell'inchiesta si sarebbe trattato di depistaggi, per altri una prova del fatto che c'entra la droga, e che quello sia un messaggio della criminalità organizzata per convincere a tacere quelli che sanno.

Ma gli episodi davvero poco chiari di quel periodo - legati a storie di militari e giustizia - non si fermano a Teramo: tutti casi di cui alla fine si è parlato poco o nulla.

Le droghe e l'Esercito Italiano

Sappiamo che il 18 aprile, in un luogo dove è in corso un'esercitazione militare nel teramano, viene uccisa Melania Rea e nessuno - nemmeno le vedette in divisa che controllano le uniche due strade di accesso - dirà poi di avere visto nulla.

Sappiamo un po' meno che il 27 marzo, nella caserma Manlio Feruglio di Venzone (UD) occupata dagli alpini della Julia - lo stesso corpo di Parolisi - un militare trova degli involucri pieni di eroina mentre sta pulendo le casse di armi appena tornate dall'Afghanistan, come mi venne confermato dal sostituto della Procura di Tolmezzo. Anche questa inchiesta viene "strappata" dalla procura militare, e non se ne saprà più niente.

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Il 3 giugno, ancora, il tenente colonnello Cristiano Congiu - un carabiniere di grande esperienza - viene assassinato nella valle del Panjshir, in Afghanistan. Il motivo della sua morte resta tuttora avvolto nel mistero.

Congiu era un agente antidroga sotto copertura che, stando alle mie fonti, stava indagando proprio sui presunti traffici di stupefacenti operati a bordo dei voli militari. Al momento del fatto si trovava con una donna statunitense poi sparita nel nulla, e di cui non sono mai state rese note le generalità.

Negli anni Novanta, Congiu comandava la compagnia dei carabinieri del Rione Traiano, a Napoli. Il suo nome finì però, senza essere mai indagato, nelle carte di un'inchiesta sui Casalesi — non per legami diretti con la criminalità organizzata, ma perché aveva stretto una relazione con una soldatessa statunitense di stanza nel capoluogo partenopeo che, a sua volta, frequentava Francesco Schiavone detto Sandokan, il capo dei capi della sanguinaria camorra di Casal di Principe.

Un checkpoint afghano nel centro di Kabul. [Foto di Alessandro De Pascale]

Ancora una volta, dunque, in questa storia tornano i Casalesi. E non è nemmeno l'ultima. Undici giorni dopo, il 14 giugno 2011, l'antimafia di Napoli bussa proprio alla porta della caserma di Parolisi per arrestare Laura Titta, militare nonché autista del boss Emilio Di Caterino - allora reggente dei Casalesi - ma anche di Giuseppe Setola, suo predecessore a capo dell'ala stragista del clan. Setola è stato autore, per esempio, della strage di Castel Volturno del settembre 2008: 7 morti e un ferito, tutti immigrati.

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La caserma di Parolisi, ad Ascoli Piceno, addestra tutte le reclute femminili d'Italia, e lui stesso è stato in missione in Afghanistan. Ma il nome "Titta" - afferma - non gli dice nulla. La giovane recluta nel 2009 si era trasferita a Napoli. Dopo il ritrovamento del cadavere della Rea, nonostante il congedo, chiede però di tornare ad Ascoli. Ad oggi non se ne conoscono le ragioni.

C'è infine quanto accade due mesi dopo, il 13 agosto del 2011, a Genova, quando i carabinieri arrestano Alessandra Gabrieli, caporalmaggiore dei parà, con 35 grammi di eroina purissima. Al processo sosterrà di essere diventata eroinomane in caserma, a causa del giro di droga dei soldati della Folgore di Livorno tornati dall'Afghanistan con quella sostanza.

Il narcotraffico militare

Un'indagine sul coinvolgimento di soldati britannici e canadesi nel traffico di eroina afghana era stata avviata più di cinque anni fa, nel 2010, nel Regno Unito. Il Ministero della Difesa britannico aveva aperto un'inchiesta per verificare se la base militare di Brize Norton, utilizzata dalla Royal Air Force, fosse lo snodo di carichi internazionali di stupefacenti.

I controlli vengono aumentati ma entrambe le inchieste militari, sia quella britannica sia quella canadese, vengono archiviate o secretate.

Tre anni dopo, nel 2013, il consigliere del Capo di Stato maggiore delle forze armate canadesi Sean Maloney parla del problema del narcotraffico tra le forze degli eserciti impegnati a Kabul e dintorni.

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"Non sono affatto sorpreso che soldati occidentali smercino eroina dalle basi aeree della NATO in Afghanistan, usate dai signori della droga locali per trafficare eroina direttamente in Occidente, tagliando fuori gli intermediari pachistani e realizzando così profitti molto più elevati," commenta Maloney.

un narcotrafficante afghano intervistato dal Sunday Times conferma questa ipotesi: "La maggior parte dei nostri clienti, esclusi quelli all'estero, sono i militari stranieri. A fine missione ce la ordinano, noi gliela vendiamo e loro se la portano a casa sugli aerei militari dove tanto nessuno li controlla. Ne comprano tanta."

Bambini che giocano per strada, a Kabul. [Foto di Alessandro De Pascale]

Un presunto giro di narcotraffico che ha un grave effetto collaterale: i casi di morte per fuoco amico. Nell'aprile del 2011 - il mese e l'anno dell'omicidio della Rea - un colonnello della neonata Air Force afghana uccide 8 ufficiali americani all'aeroporto di Kabul. Si scoprirà, poi, che il gruppo di marines stava indagando proprio sull'uso degli aerei dell'aviazione afghana per il trasporto illegale di sostanze stupefacenti e di armi in tutto il paese.

Nei presunti traffici di stupefacenti sarebbero coinvolte anche le compagnie private di contractor, quelle del ponte aereo, esenti dai controlli quando operano negli scali NATO.

Lo conferma l'ex direttore dell'Ufficio droga e crimine dell'ONU (UNODC), l'italiano Antonio Maria Costa: "Negli anni ho ricevuto dalle agenzie governative diversi rapporti riservati che contenevano accuse pesanti nei confronti di alcune di queste società, riguardo al loro coinvolgimento nel contrabbando di droga: ritengo non si tratti di accuse infondate," aveva spiegato Costa a Enrico Piovesana de Il Fatto Quotidiano.

All'alba del 25 luglio 2010, un carabiniere trova il corpo privo di vita di un militare italiano nel suo ufficio, all'aeroporto di Kabul. È il capitano dell'esercito Marco Callegaro, addetto proprio alla gestione finanziaria dei rifornimenti della missione.

Ufficialmente si parla di suicidio, ma anche su questo caso i dubbi sono tanti, a partire dalla presunta lettera d'addio mai stata consegnata ai familiari, che infatti non credono a questa versione — il padre sostiene, anzi, che pochi giorni prima il figlio gli avesse raccontato di aver fatto una scoperta sconvolgente.

Dopo queste dichiarazioni, i Radicali presentano un'interrogazione parlamentare a risposta scritta al ministro della Difesa, allora Ignazio La Russa, per chiedere tra l'altro "se esista e quale sia il contenuto del biglietto a cui fa riferimento il genitore del militare deceduto."

Verranno presentati ben 13 solleciti, l'ultimo dei quali risale al 6 dicembre 2012, due mesi prima che i Radicali - con la lista Lista Amnistia Giustizia Libertà - restino fuori dal Parlamento per non avere superato la soglia di sbarramento necessaria per entrare alle Camere.

Una risposta, alla fine, non arriverà mai.

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Alessandro De Pascale è un giornalista d'inchiesta. Ha scritto per Left, Terra, La Voce delle Voci. Tra i suoi libri "Telecamorra. Guerra tra clan per il controllo dell'etere" (Lantana Editore, 2012), "Il caso Parolisi. Sesso, droga e Afghanistan" (co-autore Antonio Parisi, Imprimatur, 2013) e "La compravendita dei parlamentari (Castelvecchi 2014).Il suo prossimo libro, dal titolo provvisorio "La guerra con la droga", è in uscita ad aprile.