ristorante afghano bologna kabulagna
Cibo

Questo ristorante afghano a Bologna, per me, fa una pasta ripiena più buona dei tortellini

Da Kabulagna, ristorante afghano a Bologna, si mangiano delizie tipo i mantu e si scopre la storia incredibile del proprietario Jan Nawazi.
Giorgia Cannarella
Bologna, IT

Gli ashak, ravioli di porro coperti di fagioli e yogurt, sono davvero buoni, ma ad essere proprio speciali sono i mantu, un po’ l’equivalente afgano dei tortellini: ravioli ripieni di macinato di manzo e ricoperti da una salsa di yogurt e pomodoro

A un certo punto della mia conversazione con Jan Nawazi mi scappa detto che la sua vita è stata “avventurosa”. Capisco immediatamente di aver scelto il termine sbagliato ma lui è così gentile da passarmela e rispondere “possiamo dire così.”

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Definire avventurosa la sua vita è decisamente improprio e anche irrispettoso. In circa — l’età precisa non la sa — trent’anni di vita ha attraversato continenti, vissuto per strada, si è reinventato decine di volte e alla fine è riuscito ad aprire un ristorante a Bologna dove propone ai locali la cucina del suo paese d’origine: l’Afghanistan.

Una cucina pressoché sconosciuta in Italia e, scoprirò tramite la nostra chiacchierata e grazie a un pranzo a dir poco superlativo da Kabulagna, parecchio interessante.

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Tutte le foto di Giulia D'Addato per Munchies

Originariamente il locale si trovava in via Guerrazzi, in piena zona universitaria. A fine 2019 si è spostato in via Saffi, poco fuori porta Lame, ma a pochi mesi dalla sua apertura si è trovato ad affrontare le chiusure dovute all’epidemia di Covid 19.

All’inizio ne avevo sentito parlare un po’ per l’azzeccatissimo nome — una crasi tra Kabul e la pronuncia dialettale di Bologna — un po’ per il menu in cui specialità afghane si mescolavano a pizza e tortellini. Ora il menu è tutto tradizionale e l’atmosfera, anche di giorno, calda e accogliente.

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Quando la fotografa gli chiede se c’è qualcosa che ci tiene venga fotografato lui risponde “il Buddha di Bamiyan.” Quella statua, ci dice, era il simbolo della sua etnia che dopo diverse vicissitudini è stato definitivamente bombardato dai talebani.

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“Sono nato nella regione di Ghazni, a un paio d’ore da Kabul,” racconta. “La mia famiglia fa parte della minoranza Hazara: ci siamo rifugiati in Pakistan quando avevo circa nove anni.  Lì ci sono centinaia di migliaia di rifugiati Hazara, che vengono perseguitati e uccisi dalla maggioranza sunnita. Facevo il calzolaio: avevo solo tredici anni ma gestivo un’azienda con 12 dipendenti. Però anche lì la vita era diventata un inferno a causa delle persecuzioni contro gli Hazara e ce ne siamo andati in Iran. Ma la situazione non era comunque sicura. Abbiamo attraversato il confine con la Turchia a piedi, da lì in Grecia in gommone, e da Patrasso dentro un tir: insieme ad altri ragazzi abbiamo aspettato che un camionista si ubriacasse e ci siamo infilati dentro.”

“I mantu sono un po’ l’equivalente afghano dei tortellini: ravioli ripieni di macinato di manzo e ricoperti da una salsa yogurt”

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Il suo scopo non era certo fermarsi in Italia: “Volevamo tutti andare da qualche altra parte più a Nord — io sognavo la Svezia o la Norvegia. Nessuno vorrebbe venire in Italia, ti capita se sei sfortunato. Tutti lo sanno che qui non è facile costruirsi una vita, un futuro, mentre in altri paesi insieme ai documenti ottieni anche un appoggio. Dopo 50 ore di viaggio dei ragazzi — eravamo una ventina — hanno iniziato a sentirsi male. Abbiamo fatto casino per far sapere al camionista della nostra presenza. Lui ha chiamato la polizia. Eravamo sulla tangenziale tra Bologna e Modena, ci hanno riportato a Bologna e preso le impronte digitali. E così sono stato costretto a chiedere asilo qui: all’inizio ho provato a trovare soluzioni alternative ma era inutile rischiare ancora i soldi e la vita.”

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Gli antipasti misti. Tutte le foto di Giulia D'Addato.

Mentre parla a tavola arrivano gli antipasti dentro tante ciotoline colorate. Ovviamente il concetto stesso di ‘antipasti’ in Afghanistan non esiste, lì viene servito tutto insieme sulla tavola, ma qui il piatto misto con cui le persone amano cominciare il pranzo o la cena è composto di bulani, un panzerotto ripieno di spinaci e patate, nakhudi, una crema di ceci con menta fresca e coriandolo, baba ganoush, falafel, yalangi — involtini di riso e foglie di vite con succo di melograno, un ingrediente che ritorna in molti piatti.

Sono ingredienti e preparazioni che si possono ritrovare in diverse cucine mediorientali, dalla turca alla siriana alla palestinese, ma qui ci trovo una particolare freschezza e vivacità: il ripieno di spinaci del bulani è arricchito dall’uvetta ed è semplicemente delizioso.

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Una foto con Gino Strada

Torniamo all’arrivo di Jan in Italia: “Avevo 17 anni. Erano tempi difficili: il 2007, la crisi economica, il governo Berlusconi e la legge Bossi-Fini. Sono entrato in un progetto di accoglienza Sprar ma è durata pochissimo. Ho anche dormito per strada, in un sacco a pelo. Poi mi hanno dato il contatto di una pizzeria e il proprietario mi ha subito dato responsabilità. Nel 2011 ho iniziato una mia attività d’asporto in centro. All’inizio non c’era niente di afghano — facevo pizza e kebab.”

Prima ancora del ristorante arriva il nome: “Nel 2008 sono andato a una conferenza dell’Università di Ravenna per la Giornata mondiale del Rifugiato. Rilasciando un’intervista avevo fatto una battuta: chissà se Bologna avrà una pizzeria Kabul. Di ritorno in treno il giornalista che mi aveva intervistato, un bolognese DOC, ha fatto un disegno di me che guardo fuori dal finestrino una fermata del treno: Kabulagna. Il nome l’ha inventato lui. Io me lo sono tatuato sul polpaccio. Poi ho trovato il socio giusto e abbiamo aperto il locale.”

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Mantu. Tutte le foto di Giulia D'Addato.

È il momento della pasta ripiena su cui, lo ammetto, nutro grandi aspettative. E non vengono deluse. Gli ashak, ravioli di porro con sopra fagioli e yogurt, sono davvero buoni, ma ad essere proprio speciali sono i mantu, che sono un po’ l’equivalente afghano dei tortellini: ravioli ripieni di macinato di manzo e ricoperti da una salsa di yogurt e pomodoro. L’abbinamento funziona? Se lo chiedete a me, decisamente sì. In cucina c’è la moglie di Jan, Farzana Ibirahimi, anche lei afghana (e preferisce non farsi fotografare), con altre quattro persone, tre dell’Afghanistan e uno del Pakistan.

“Da kabulagnese sono fiero che mi sia capitata questa città: a Bologna si sta benissimo e la amo”

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Halawet Heljibn. Tutte le foto di Giulia D'Addato.

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L'autrice mentre pranza

Chiedo a Jan come definirebbe la cucina afghana: “È una cucina speziata sì, ma non esageratamente, una via di mezzo tra l’indiana e la persiana. Descriverla è difficile. Suggerirei di venirla direttamente a provare.” Dopo le kofte, polpette di manzo in un sugo di pomodoro servite con il riso, concludiamo il pranzo con gli halawet eljibn: involtini di semola e mozzarella con ripieno di ricotta e mascarpone. Una sua rivisitazione di un dessert tipico afghano.

La conversazione con Jan è cominciata mesi fa, poco dopo lo scoppio della conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani. Quando ci rivediamo, a marzo, la situazione afghana non è più al centro della cronaca purtroppo: “Ora è stata sostituita da un’altra guerra. Eppure lì la situazione è terribile, specialmente per le donne e le ragazze: lo sapevi che alle ragazze è stato ufficialmente vietato di andare a scuola dopo i 12 anni? Io continuo a organizzare qualche evento di sensibilizzazione e raccolta fondi. E i bolognesi rispondono. Da kabulagnese sono fiero che mi sia capitata questa città: a Bologna si sta benissimo e la amo.”

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