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Traffico di droghe e viaggi della fede: la Svizzera ha un problema con la mafia italiana

Da anni la 'ndrangheta si è insediata tra i cantoni, ma la legislazione svizzera fatica ancora a riconoscere il problema—e ha bisogno dell'Italia per combatterlo.
Grab via YouTube

"Sono 37, 38 anni che c'è la società qua… mò quanti sono?"

"Quarant'anni."

Era il 2014. A parlare, in questo video intercettato dalla Procura Distrettuale Antimafia, sono alcuni 'ndranghetisti della cosiddetta 'Società di Frauenfeld'.

L'operazione si concluse con 18 arresti, per quella che è passata alla storia come una delle più importanti retate antimafia in Svizzera.

Si chiamava "Operazione Helvetica", ma non era finita lì: lo scorso marzo, nell'ambito della stessa indagine, sono stati fermati altri 15 sospetti tra i cantoni di Turgovia, Zurigo e Vallese.

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Anche qui, come si legge in un articolo del Corriere del Ticino, gran parte dei fermi riguardavano affiliati sospettati di appartenere alla stessa organizzazione. Ma cos'è, esattamente, la Società di Frauenfeld?

È difficile tracciarne un profilo chiaro, vista la fumosità del tema 'mafia' in Svizzera. Secondo le poche fonti disponibili, si tratterebbe di un'articolazione della 'ndrangheta attiva da oltre quarant'anni nell'area della cittadina di Frauenfeld, capoluogo del cantone Turgovia, e direttamente collegata alle cosche di Vibo Valentia e di Reggio Calabria.

Più che una cellula svizzera, sarebbe un organismo transnazionale che conta membri tanto in territorio elvetico quanto in quello calabrese. Nell'ultima retata di marzo, due dei 15 membri arrestati sono stati in effetti raggiunti a Vibo Valentia: è lì che erano operativi.

È difficile definire un quadro del funzionamento delle diverse affiliazioni della 'ndrangheta, tanto all'estero quanto nelle differenti regioni italiane.

Per quanto riguarda la Società di Frauenfeld, si tratterebbe di una costola del cosiddetto 'Crimine dei Polsi', considerato dagli investigatori come "un organo di governo che ha competenza sicuramente organizzativa," tanto da rilasciare "il nulla osta per l'apertura di nuove locali," e interessato all'attribuzione "di cariche e affiliazioni," determinando "annualmente le cariche del crimine, nominandone i vertici."

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Insomma, una vera e propria cupola a cui sarebbero affiliate un centinaio di cellule locali — tra cui appunto la Società di Frauenfeld.

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L'esistenza di questa cosca italo-svizzera è venuta alla luce solo di recente. Come spiegato in un articolo del Portale del Ticino a proposito dei nuovi arresti, si tratterebbe di "un gruppo di cittadini italiani emigrati negli anni Settanta nella località turgoviese, assolutamente insospettabili nella vita in Svizzera," ma "in realtà membri della 'ndrangheta": un'appartenenza documentata da intercettazioni di riunioni "nelle quali venivano distribuite le cariche all'interno della cosca, la cui attività era principalmente legata al traffico di droga."

Oltre al narcotraffico, però, il business della Società di Frauenfeld avrebbe avuto interessi anche in altri settori: nelle recenti indagini sarebbe in effetti emerso come "la cosca controllerebbe alcune agenzie di bus attive sulla tratta tra la Calabria e la Svizzera e specializzati anche in viaggi religiosi per Lourdes e Medjugorje."

La Società svizzera, insomma, si caratterizzava propriamente come una cellula strutturata e particolarmente attiva, che rivela come le mafie siano ben radicate sul territorio elvetico: dal 2010 a oggi, non a caso, ci sono state 14 operazioni della magistratura che hanno coinvolto in qualche modo la Svizzera — sono in totale 41 le persone che vivevano nei cantoni, e che nel periodo in questione sono state accusate o condannate per avere legami con la 'ndrangheta.

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La criminalità organizzata in Svizzera, dunque, esiste. Eppure la legislazione del paese sembra quasi coprirsi gli occhi davanti al problema: riuscire a ottenere una condanna per reati legati alla mafia è infatti un'impresa ardua, perché le leggi locali mantengono altissima l'asticella del reato, lasciando di conseguenza impunite le tante persone che a vario titolo risultano affiliate alla criminalità organizzata.

"Chiunque partecipa ad un'organizzazione che tiene segreti la struttura e i suoi componenti e che ha lo scopo di commettere atti di violenza criminali o di arricchirsi con mezzi criminali, chiunque sostiene una tale organizzazione nella sua attività criminale, è punito con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria."

Questo è tutto quello che si trova nella legislazione svizzera sul tema della criminalità organizzata: l'articolo 260 ter del codice penale. Troppo poco, troppo ampio, e indefinito il contenuto — tant'è che ogni anno sono numerosissime le assoluzioni di imputati accusati di appartenere a un'organizzazione mafiosa.

In più, nessun accenno all'associazionismo mafioso: perché si possa arrivare ad una condanna, bisogna quindi rientrare nella più illegale e complessa categoria di organizzazione criminale vera e propria.

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Se da un lato, quindi, la Svizzera è riconosciuta unanimemente come terra di conquista per le organizzazioni criminali, un paradiso in cui riciclare il proprio denaro, dall'altro è invece diverso il discorso relativo alla presenza sostanziale di cellule mafiose sul territorio: il problema in questo caso non è riconosciuto, ma rinnegato o addirittura nascosto. E sono in pochi a spendersi per far cambiare le cose.

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Uno di questi è l'avvocato Paolo Bernasconi, ex procuratore di Lugano e tra i massimi esperti elvetici di criminalità organizzata di stampo mafioso.

"Il diritto penale svizzero è in continua evoluzione, allo scopo di adattarsi alle forme sempre nuove utilizzate dalle organizzazioni criminose," spiega a VICE News. "Dove l'adattamento è ancora carente è a livello di prevenzione. Ciò vale specialmente nel settore della cosiddetta 'economia grigia', laddove operano persone radicate nel territorio che hanno facilità ad avere accesso al sistema bancario e finanziario svizzero e che, per denaro, talvolta consapevolmente, talvolta meno consapevolmente, si rendono disponibili a fungere da intermediari."

Poiché le organizzazioni mafiose di origine italiana sono interessate al territorio svizzero essenzialmente per infiltrarsi nel sistema bancario e finanziario, per l'avvocato l'unica vera prevenzione anti-mafia è quella contro il sottobosco finanziario.

Da questo punto di vista, "in Ticino siamo ancora all'anno zero. Nei Grigioni siamo addirittura sotto-zero," spiega Bernasconi, che cita esempi di cascine dove hanno sede società che effettuano attività fiduciarie e finanziarie senza alcuna forma di controllo cantonale.

Il problema svizzero nel far fronte alle organizzazioni mafiose del territorio starebbe quindi innanzitutto nell'incapacità di fare prevenzione.

Altre difficoltà derivano poi dal livello di formazione locale nella lotta alla mafia. Come sottolinea Bernasconi, in Svizzera "manca una scuola di formazione di magistrati e dei loro assistenti che alleni alle tecniche di interrogatorio. Mancano nuclei specializzati per l'interrogatorio di persone legate alle organizzazioni mafiose."

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Infine vi è, appunto, il problema legislativo. Come aveva dichiarato Bernasconi subito dopo gli arresti del marzo scorso, l'assenza del reato di associazione mafiosa in Svizzera fa sì che "le condizioni per applicare la norma e punire il crimine organizzato siano troppo rigorose. Il Consiglio federale ha detto più volte che non c'è motivo di rivedere l'articolo, ma queste dichiarazioni non sono più comprensibili se vogliamo combattere il terrorismo e la mafia, che mette in pericolo anche il Ticino."

Ancora oggi, parlando con VICE News, l'avvocato sottolinea come da un punto di vista legislativo "ci sia ancora molto da fare sul tema."

In una situazione di questo tipo, non è un caso che il ruolo dell'Italia sia fondamentale nell'ambito delle operazioni antimafia in terra svizzera.

La più dettagliata legislazione italiana, e la maggiore esperienza delle forze di polizia e della magistratura sul tema, fanno sì che la cooperazione tra le autorità di Roma e quelle svizzere sia una costante necessaria di tutte le operazioni antimafia degli ultimi anni.

"Da decenni - e ancora attualmente - i successi di numerose inchieste sono dovuti all'ottima collaborazione internazionale nell'intera Svizzera, specialmente con la Polizia e i Pubblici Ministeri," continua Bernasconi, che sottolinea come sia meglio che le persone indagate vengano processate in Italia, dove se condannate rischiano sanzioni molto più pesanti rispetto a quanto potrebbe avvenire con la legge penale svizzera.

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Due mesi fa il dibattito sul radicamento della mafia nel paese ha trovato un palcoscenico importante. L'European Journalism Observatory dell'Università della Svizzera Italiana di Lugano ha organizzato una grande conferenza dal titolo "Svizzera e Ticino disarmati di fronte alla Mafia? Un dialogo tra magistrati e giornalisti".

Sempre negli ultimi tempi poi, sono aumentate le richieste da parte di magistrati e politici locali per avviare una piccola rivoluzione nel diritto penale svizzero in tema di associazione a delinquere di stampo mafioso.

Al momento, però, nulla sembra cambiare. Il sistema resta sempre lo stesso: da una parte affiliati alla criminalità organizzata che sfruttano le debolezze legislative, dall'altra le autorità svizzere che riescono a combattere queste cellule sul territorio grazie al supporto esterno, ma che non sembrano intenzionate a risolvere le falle legislative sul tema.

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La storia del boss Antonio Nucera riassume meglio di ogni altra cosa il funzionamento della lotta alla criminalità organizzata in Svizzera.

Arrestato lo scorso marzo nell'ambito dell'Operazione Helvetica grazie ad un'operazione coordinata tra la Polizia Federale Svizzera e quella italiana, è stato rispedito in Italia a fine giugno per essere sottoposto a processo.

"Un'altra brillante operazione resa possibile dalla capacità delle forze dell'ordine e dall'esistenza di norme giuste che consentono la collaborazione tra paesi diversi," affermava subito dopo l'estradizione Davide Mattiello, deputato del PD. Una collaborazione, però, che funziona solo in alcuni casi.

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Senza forme di cooperazione brillanti come quella Svizzero-Italiana, le cose andrebbero diversamente. "Siccome la criminalità organizzata più pericolosa lavora internazionalmente, la sua prevenzione e repressione può farsi soltanto internazionalmente. Con l'Italia la cooperazione ha fatto passi da gigante, anche se ancora molto rimane da fare," conclude Paolo Bernasconi.

"Dove la collaborazione è più difficile è con l'Inghilterra e con paesi in cui sono radicate organizzazioni criminali molto efficienti, ma dove l'amministrazione giudiziaria, doganale e di polizia sono carenti e spesso corrotte, come in numerosi paesi balcanici, dell'Europa centrale e orientale."

In questi casi, in mancanza di una seria volontà straniera di cooperazione giudiziaria da includere nell'equazione, la sola legislazione svizzera non può nulla di fronte alla criminalità organizzata.


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Foto in apertura: grab via YouTube