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I tre tipi di persone che tornano a casa dopo essersi unite allo Stato Islamico

Come dimostrano gli attacchi di Parigi, l'Occidente deve imparare a fare i conti con chi ritorna in Europa dopo essersi unito al jihad.
Foto di Yoan Valat/EPA

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"Se succede un miracolo, e mio figlio torna a casa, finirà in prigione—e a me sta anche bene."

Questo è quello che una donna britannica mi ha detto a settembre mentre ci prendevamo un caffè. Suo figlio combatteva con l'autoproclamato Stato Islamico (IS) da mesi, e lei ormai lo sentiva sempre più di rado. Il governo inglese è stato sincero con lei riguardo la possibilità che suo figlio non possa mai più fare ritorno—e il fatto che, se dovesse farlo, sarebbe destinato a essere perseguito penalmente.

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"Se torna a casa, almeno, sopravviverà e potrà avere una nuova chance qui nel Regno Unito, rispetto alla condanna a morte che gli ha dato IS," racconta la donna. "Al momento, la nostra famiglia aspetta solo quella chiamata, per informarci che lui se ne è andato."

Gli attentati di Parigi hanno dato vita a quella che era stata solo una paura ipotetica nel mondo occidentale: che gli estremisti che hanno abbandonato i propri paesi per unirsi a gruppi militanti come IS in Iraq e in Siria potrebbero fare ritorno sotto forma di combattenti addestrati e lanciare degli attacchi.

Il fatto che almeno sei degli attentatori di Parigi avessero abbandonato la propria vita in Francia e in Belgio, avessero probabilmente combattuto in Siria con IS, e poi fossero stati in grado di tornare liberamente in Europa - sebbene per la maggior parte di loro le forze di polizia e di intelligence sapevano essere degli estremisti che si erano recati in Medio Oriente - dovrebbe costringere queste agenzie a riflettere in modo più approfondito sulle proprie lacune.

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È da più di un anno che studio il fenomeno dei foreign fighter in Siria e in Iraq, cercando di capire le ragioni che spingono giovani musulmani a farsi carico di un impegno così radicale. Ho parlato con decine di jihadisti occidentali che al momento stanno lottando con una serie di movimenti estremisti, oltre che con i loro sostenitori, genitori, e amici più cari.

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Un aspetto è chiaro: Non esiste uno jihadista tipo.

Questi giovani hanno abbandonato le proprie abitazioni per motivi differenti, si sono recati in posti diversi, e hanno combattuto con un gran numero di gruppi militanti. I giovani differiscono per quanto riguarda età, genere, pensiero e origini etniche e religiose. Anche i motivi che li spingono a fare un eventuale ritorno nei paesi di origini sono assortiti.

Con IS, in particolare, non stiamo facendo i conti solo con gli jihadisti, ma anche non le ragazze, i bambini e le famiglie che sono partite per vivere nell'autoproclamato califfato. Anche se alcune di queste persone dovrebbero sicuramente essere perseguite penalmente, questo approccio potrebbe non funzionare con tutti.

Ho identificato tre gruppi distinti tra coloro che ritornano a casa dopo essersi uniti a IS o a altri gruppi militanti. I primi - di cui fanno parte anche gli attentatori di Parigi - possono essere descritti come reduci operativi. Questi combattenti se ne sono andati da casa per associarsi ai movimenti jihadisti in Siria e in Iraq e gli è stato affidato il compito di tornare in patria per compiere attentati. L'attentatori di Parigi Bilal Hadfi, per esempio, lasciò il Belgio per la Siria lo scorso Febbraio.

A detta di un amico di famiglia, Bilal aveva interrotto ogni comunicazione con sua madre a luglio. Successivamente ha visto la sua faccia solo al telegiornale; suo figlio si era appena fatto saltare in aria fuori da un McDonald's vicino allo Stade de France. Organizzati in piccole cellule attive nelle grandi città, questi reduci sono in grado di ispirare e coinvolgere gli estremisti locali in un attacco, con l'assenso esplicito o tacito della leadership del gruppo, che può essere al Qaeda o IS.

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Un altro gruppo sono i reduci disimpegnati. Questi soggetti provano ancora ammirazione e fedeltà nei confronti dello jihadismo globale, ma hanno abbandonato la battaglia per motivi che non sono riconducibili al movimento. Un reduce che ho intervistato in Belgio e che era stato condannato con la condizionale, esprime ancora il suo impegno per IS, ma ha ricominciato una vita normale a casa.

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Altri partono per la Siria con l'intenzione di combattere il regime di Bashar al-Assad, per poi rendersi conto che gran parte del loro tempo viene impiegato in altro modo, per esempio per lottare con i gruppi jihadisti rivali. Anche se possono aver revocato la propria fedeltà a un gruppo specifico, essi rimangono devoti alla causa dello jihadismo (anche se commettere degli attentati in Occidente potrebbe non essere il loro scopo principale).

Per esempio, ho parlato con alcune persone che hanno lasciato la Siria per sposarsi o perché avevano la madre malata nei paesi di origine, o più semplicemente perché erano sfiancati dalla fatica della guerra. Ci sono anche testimonianze di membri femminili di IS che volevano andarsene dopo aver visto il marito morire in battaglia.

L'ultimo gruppo è quello dei reduci disillusi. Sono partiti per il califfato alla ricerca di un'utopia e hanno trovato qualcosa di molto diverso. Ora stanno tornando a casa dalla proprie famiglie - o almeno ci stanno provando. Questi possono cercare aiuto dai propri genitori per fuggire dalla regione. O, diversamente, si mettono in contatto con i trafficanti e perfino con i membri di altri gruppi militanti attivi in Siria per ottenere assistenza.

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Come una madre canadese mi disse un mese fa, "ogni volta che parlo con mia figlia, ho la sensazione che lei voglia tornare a casa. Ma lei non può essere sincera con me perché suo marito le sta sempre intorno."

È fondamentale che anche all'indomani dei brutali attentati di Parigi, non applichiamo semplicemente una tolleranza zero nei confronti di tutti i reduci. Dobbiamo ricordarci che molti foreign fighter hanno già fatto ritorno nel proprio paese di origine, dopo aver partecipato a molti conflitti, e che la maggior parte di loro stanno vivendo in pace. Alcuni di loro se ne sono andati di casa da giovani, per poi accorgersi di aver fatto un errore.

Questo non significa che sono innocenti né che debbano essere esentati dal sospetto, dal controllo o da un'eventuale reclusione. La sfida che si pone di fronte alle forze di polizia è quella di sviluppare un modo per soppesare il livello di rischio che rappresentano i singoli reduci.

Non si tratta di un compito facile—la pratica della raccolta di dati sui reduci è ancora agli albori, e i programmi sperimentati in giro per il mondo per trattare i reduci hanno mostrato dei risultati assortiti finora.

Mentre finiamo i nostri caffe, metto la madre britannica di fronte a questo dilemma.

"Vorrei dire alle persone che vedono mio figlio come una minaccia," mi spiega, "che è troppo facile demonizzare questi ragazzi per distanziarsi dal problema. Anche questi ragazzi sono delle vittime."

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Di conseguenze, il nostro approccio nei confronti dei reduci può essere sì cauto, ma non deve escludere la possibilità di riformare e reintegrare queste persone.

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Amarnath Amarasingam è membro del  Social Sciences and Humanities Research Council of Canada, e condirettore dello studio "Western foreign fighters" della University of Waterloo, in Ontario.

Follow him on Twitter: @AmarAmarasingam Segui VICE News Italia su su Twitter e su Facebook