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Perché il referendum sull’autonomia in Veneto è da prendere sul serio

A votare Sì (che ha preso il 98 percento) sono andati più di due milioni di elettori.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Luca Zaia, governatore della regione Veneto, mentre vota al referendum sull'autonomia. Foto via Facebook

Anche se lo ricordano in pochi, nel marzo del 2014 un manipolo di indipendentisti aveva proclamato la nascita della "Repubblica Veneta" in piazza a Treviso. La manifestazione era il coronamento di una specie di "consultazione" referendaria che aveva attirato l'attenzione della stampa internazionale, ma che—tra valanghe di voti dal Cile e altre stranezze—non era né valida né affidabile.

Per quanto all'epoca la vulgata avesse derubricato il cosiddetto "plebiscito" a innocua-pagliacciata-di veneti-mattacchioni, qualcuno l'aveva preso sul serio. Su tutti, una persona: il leghista Luca Zaia.

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In un'intervista a Libero, il governatore della Regione aveva detto che "il Veneto è la regione più identitaria d'Italia"; poi, parlando di federalismo e indipendentismo, aveva rincarato la dose: "Abbiamo bussato alla porta con i fiori in mano, ci siamo puliti i piedi sullo zerbino, ma non ci hanno aperto. A 'sto punto, la porta noi la sfondiamo. […] Il Veneto può scappare, perché siamo incazzati."

Negli anni successivi, quell'avvertimento si è trasformato nel tentativo di indire un referendum consultivo—prima sull'indipendenza, poi sull'autonomia. Il percorso legislativo, come facilmente intuibile, è stato parecchio accidentato. Nel giugno del 2014, sull'onda del "plebiscito," il consiglio regionale del Veneto aveva proposto una consultazione composta da cinque quesiti. La legge era stata impugnata dal governo e successivamente rivista dalla Corte Costituzionale.

Dopo ulteriori negoziati, lo scorso aprile la Regione ha infine indetto il referendum (dal quesito molto semplice: "Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?") per il 22 ottobre 2017. La data scelta è estremamente simbolica, visto che si tratta del 151esimo anniversario dei plebisciti che nel 1866 portarono il Veneto nel Regno d'Italia.

Questo, in breve, è il preambolo di come si è arrivati a ieri. Perché ieri—nonostante la retorica sull'inutilità, la propaganda della Lega, lo spreco di risorse pubbliche—qualcosa di politicamente rilevante è successo per davvero. Ma andiamo per gradi.

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Per essere valido, il referendum in Veneto (a differenza di quello in Lombardia, su cui però non mi soffermo in questo pezzo) aveva un quorum fissato al 50 percento. Già alle 19 quella soglia era stata superata, e alla fine l'affluenza ha raggiunto il 57 percento. Quindi: a votare Sì (che ha preso il 98 percento) ci sono andati più di due milioni di elettori, un sacco di gente; ed è proprio in questo che Zaia e la Lega speravano, per avere più margini di trattativa con il governo.

Il governatore leghista vorrebbe estendere le competenze della Regione a ben 23 materie, tra cui ovviamente spiccano quelle fiscali; il ministro dell'agricoltura Maurizio Martina, tuttavia, ha subito messo le mani avanti: " Le materie fiscali non sono e non possono essere materia di trattativa né con il Veneto né con la Lombardia né con l'Emilia Romagna. Lo dice la Costituzione." Nell'immediato, insomma, non cambia nulla.

Se da questo lato, dunque, non si possono conoscere gli esiti tecnici e istituzionali, dal lato culturale e politico la faccenda si fa decisamente più intrigante. La mappa del voto restituisce un'immagine eloquente: a Venezia non si è superato il quorum, mentre in provincia la soglia del 60 percento è stata sfondata pressoché ovunque.

Ed è appunto nella provincia, e non nei capoluoghi, che si trova il vero Veneto. Quel territorio, cioè, sospeso tra villette e capannoni, senza centro e periferia, dove il richiamo all'autonomia non è la richiesta di attivare gli articoli 116 e 117 della Costituzione, ma un "sentimento di alterità e un desiderio di autogoverno" che si declina in varie sfumature—si va dal mito della Serenessima sventolato da formazioni come il Veneto Serenissimo Governo, si arriva alle istanze di quasi tutti i partiti politici locali, e si passa per i meme ironici di alcune pagine.

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Come scrive Giovanni Collot in un recente pezzo su Limes, questa alterità soffre di uno "strabismo evidente"; nel senso che è "tanto manifesto a chiunque abbia vissuto o trascorso lunghi periodi in Veneto, quanto sostanzialmente non capito o sottovalutato nella sua portata a livello nazionale." Ogni volta che c'è una fiammata visibile a livello nazionale, la tendenza è quella di riderci sopra, derubricando il tutto a folklore locale o—quando va bene—a stramba protesta fiscale.

In realtà, il "venetismo"—inteso come "tensione del Veneto e dei veneti al riconoscimento di una propria identità e autonomia"—non è una moda passeggera. Anzi, ricorda sempre Collot, ha "profonde ragioni storiche, geografiche e di pensiero" che sembrano immutabili e contrassegnate da un'ambiguità di fondo. Nel "venetismo", infatti, convivono "localismo estremo e apertura al mondo, innovazione spinta e tradizione, cattolicesimo e paganismo materialista, paura del diverso e tassi di integrazione per molti anni fra i più alti del paese."

È un mix che funziona, e che la Lega Nord si è messa a cavalcare senza alcun ritegno. Vent'anni fa, ai tempi dell'assalto dei Serenissimi a piazza San Marco, era l'opposto: Umberto Bossi arrivò addirittura a bollarlo come un'operazione "dei servizi segreti e della mafia" per screditare il partito. Ora, appunto, la Lega veneta ha fatto proprie queste rivendicazioni autonomiste e indipendentiste, le ha istituzionalizzate ed è diventata egemonica.

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È da qui che bisogna partire per capire la figura di Luca Zaia, che ha stravinto due elezioni e che dopo sette anni di governo ha un gradimento personale che si attesta al 60 percento. Il governatore, si legge su Limes, "incarna perfettamente l'idea che il Veneto ha di sé: lavoratore, con la testa sulle spalle, senza grilli per la testa." In tutto ciò è naturalmente un fervente sostenitore dell'autonomia del Veneto, che nella sua convinzione è una nazione pronta per "un nuovo ordine, più consono alle nostre aspettative."

Il risultato di ieri è soprattutto un suo successo, che ha diverse ricadute interne ed esterne. In primis Zaia ne esce rafforzato in regione, nella Lega Nord e anche all'interno del centrodestra (dove può godere di uno sponsor d'eccezione: il redivivo Berlusconi). In secondo luogo, il referendum può riportare al centro del dibattito politico il tema autonomista: e ciò da un lato confligge con la svolta nazionalista della Lega impressa da Matteo Salvini; e dall'altro capovolge il fronte rispetto al referendum costituzionale del dicembre 2016, che puntava invece sul centralismo (proprio in queste ore sta tornando a girare una vecchia proposta di legge per ridisegnare le regioni italiane, fatta nel 2012 dal deputato del Partito Democratico Roberto Morassut).

L'impatto generale va ben oltre i confini regionali, e idealmente aggiorna quanto Guido Piovene scriveva più di cinquant'anni nel suo Viaggio in Italia: "Esiste nel cuore dei veneti una persuasione fantastica che la loro terra sia un mondo, un sentimento ammirativo, e quasi un sogno di se stessi. […] Il venetismo è una potente realtà della fantasia, che non da noie al Parlamento".

Bene: nel 2017, il "venetismo" ha raggiunto quello stadio per cui può effettivamente "dare noie" a Roma.

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