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Cosa succede in Italia quando decidi di abortire con il metodo farmacologico

La legge del nostro paese consente l'aborto con la Ru486, ma ottenerlo non è così facile.
aborto farmacologico
Foto dell'utente Flickr Johannes Jander.

Aggiornamento del 14 agosto 2020: le linee guida per l’aborto farmacologico sono state aggiornate. Da ora la possibilità di assumere i farmaci è estesa alla nona settimana di gravidanza, e decade la raccomandazione di ricovero. I farmaci, inoltre, potranno essere assunti in ospedale, nei consultori e negli ambulatori con personale qualificato. L’articolo qui di seguito racconta la procedura prima di quest’ultimo aggiornamento.

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"Quando arrivai, alle 5.45 del mattino, c'erano già due persone in attesa. Restammo fino alle otto fuori al gelo," racconta Anna*.

È la fine di ottobre del 2013. Anna ha 29 anni e sta aspettando che aprano le porte del reparto di ginecologia di un ospedale di Roma. Allarmata da una decina di giorni di ritardo del ciclo, ha fatto un test e scoperto di essere incinta, e adesso spera di rientrare tra le dieci donne che in quell'ospedale ottengono quotidianamente il primo consulto necessario per accedere all'interruzione volontaria di gravidanza. "È angosciante doversi recare in ospedale prestissimo, con il terrore di non riuscire a rientrare nel numero stabilito di persone che possono usufruire del servizio," ricorda di quell'esperienza.

A questa angoscia si aggiunge, per molte donne, il dover viaggiare anche per centinaia di chilometri alla ricerca di un medico o struttura che pratichi una prestazione sanitaria che dovrebbe essere garantita a tutta la popolazione, ma che fa continuamente i conti con tassi di obiettori di coscienza che, in alcune zone, superano il 90 percento.

Sulla carta, la legge italiana permette di abortire volontariamente entro 90 giorni, esclusivamente in una struttura pubblica e soltanto dopo una settimana di riflessione dal primo colloquio medico—a meno di non ricevere un certificato d'urgenza. Quello che non tutte le donne in Italia sanno è che ci sono due metodi a disposizione di chi vuole farlo.

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"Non avevo mai sentito parlare della Ru486 finché la mia ginecologa, indicandomi le strutture in cui andare, mi anticipò che c'era la possibilità di effettuare il tutto con il metodo farmacologico, senza dover ricorrere [alla chirurgia]," racconta Anna.

In effetti, è dal 2009—con soli vent'anni di ritardo rispetto alla maggior parte degli altri paesi europei—che il mifepristone, la Ru486, è disponibile anche nel nostro paese. Ma la rivoluzione che la pillola abortiva doveva portare con sé sembra non essere mai davvero arrivata: secondo gli ultimi dati Istat, relativi al 2015, la percentuale nazionale di aborti farmacologici si attesta soltanto intorno al 12 percento, e persistono regioni, tra cui la Lombardia, in cui la procedura rimane inutilizzata all'interno di intere ASL. Giusto per fare un confronto, in Francia, dove la Ru486 è utilizzata dalla fine degli anni Ottanta, la percentuale di utilizzo rispetto all'aborto chirurgico si aggira oggi intorno al 50 percento.

Chiariamo subito che la Ru486 non ha niente a che vedere con la cosiddetta 'pillola del giorno dopo'—che è un anticoncezionale d'emergenza e non un farmaco abortivo; eppure anche questo è spesso, illegalmente, oggetto di obiezione nei pronto soccorso e in corsia. L'aborto medico—ovvero eseguito tramite la somministrazione di farmaci—si svolge in due fasi: in un primo momento la donna assume il mifepristone, che interrompe il sostegno ormonale alla gravidanza, provocandone l'interruzione. A circa 48 ore di distanza viene poi somministrato il misoprostolo, che ha la funzione di provocare contrazioni ed espulsione del contenuto dell'utero.

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"Credo che [tra chirurgico e farmacologico] non ci sia una metodica migliore dell'altra, quello che è giusto fare è dare alla paziente la libera scelta, perché i due metodi sono alternativi, sono disponibili nel nostro paese, e quindi alla donna va garantito il diritto di scegliere," sostiene Mirella Parachini, ginecologa e membro di direzione dell'associazione Luca Coscioni, che da anni si batte anche perché venga rispettato il diritto all'aborto.

Non è raro che le donne preferiscano evitare l'anestesia, o siano spaventate dall'idea di subire un intervento, come anche l'esperienza di Anna sembra confermare. "Chiesi [a un paio di donne] che metodo avrebbero scelto, e quale secondo loro fosse il meno invasivo. Entrambe mi risposero che qualsiasi cosa sarebbe stata migliore dell'entrare in sala operatoria sotto anestesia e risvegliarsi a operazione compiuta."

L'aborto medico permette di evitare tutti i rischi di un intervento chirurgico e dell'anestesia, ha complicanze gravi piuttosto rare, e può, in un certo senso, sembrare più "naturale", poiché riproduce le stesse dinamiche di un aborto spontaneo. "Le donne che vengono a fare il farmacologico a volte sono esterrefatte da come la procedura sia semplice," racconta la dottoressa Elisabetta Canitano, ginecologa e presidente della onlus Vita di Donna.

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Ma l'esperienza varia anche molto a seconda della persona, causando crampi e dolori anche fortissimi, nausea, vomito e diarrea. La durata e la quantità del sanguinamento è variabile, e le perdite possono persistere per diversi giorni dopo la conclusione della procedura. È quello che è successo ad Anna: i medici l'avevano rassicurata che la procedura farmacologica avrebbe causato qualcosa di simile a una mestruazione abbondante e dolorosa. "Pensai che potesse essere il male minore, in realtà non avevo ben realizzato quanto sarebbe stato orribile e duro dal punto di vista fisico e psicologico," commenta.

Per Anna il processo di espulsione si è infatti rivelato lungo, travagliato e doloroso, e si è concluso dopo una notte trascorsa in ospedale e una successiva visita al pronto soccorso ginecologico, in seguito a forti dolori addominali occorsi dopo la dimissione. Probabilmente, il fatto che fosse più vicina al limite delle sette settimane entro cui va eseguito l'aborto farmacologico in Italia aveva permesso all'embrione di saldarsi maggiormente (come indicato dall'Organizzazione Mondiale della
Sanità, l'aborto medico è registrato in tutta Europa (nei paesi dove l'aborto è legale per essere eseguito fino a nove settimane, in alcuni casi persino a domicilio. Nel nostro paese, invece, è previsto soltanto fino a sette settimane e deve essere effettuato obbligatoriamente in regime di
ricovero ospedaliero ordinario per tutti i giorni di durata della procedura).

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"Ho l'immagine disgustosa e orrenda di tutto il sangue che ho lasciato in quel bagno [d'ospedale]. Ecco, a quello non ero pronta: a sentire e assistere visivamente, sensorialmente, al disfacimento di me stessa," racconta Anna.

Oltretutto, l'intera procedura non le è stata sicuramente resa più sostenibile dall'assistenza meccanica e distaccata offerta da parte del personale di reparto, che sembra aver faticato a conciliare la routine lavorativa con l'attenzione e l'empatia di cui può avere bisogno una donna che vive quell'esperienza, seppure senza rimpianti.

Non è un segreto che i medici non obiettori lavorino in condizioni difficili, tanto che, proprio lo scorso anno, il Consiglio d'Europa ha accolto l'istanza della CGIL che evidenziava come questi subiscano discriminazioni e vengano sovraccaricati di lavoro. Ma sono le pazienti che finiscono per scontare le conseguenze di queste dinamiche professionali, proprio quando dovrebbero essere messe in condizioni di particolare comfort: "Credo che chi lavori in un reparto così delicato debba avere una sensibilità maggiore rispetto a quella che ho incontrato lungo il mio percorso," sottolinea Anna.

Guardandosi indietro, non sa se avrebbe scelto un metodo diverso: "Da un lato, non credo che [se l'avessi saputo] mi sarei sottoposta alla sofferenza fisica e psicologica dell'assistere lucidamente al processo di espulsione, e vedere tutto quel sangue ovunque, e i grumi di cellule staccarsi da me cascando come pezzi di carne." Allo stesso tempo, un intervento non sarebbe stato probabilmente più facile: "Entrare in una sala operatoria per permettere a un'estranea di anestetizzarti e strappartelo via come fosse l'estrazione ordinaria di un dente e poi uscire svuotata completamente. So che mi sentirei in trappola, con le spalle al muro."

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Secondo la ginecologa Parachini, l'importanza dell'interruzione farmacologica sta proprio nel fatto che sia la donna a gestirla attivamente e direttamente, in una specie di capovolgimento delle responsabilità che può favorire una maggiore consapevolezza. "Mentre nella procedura chirurgica la paziente subisce un intervento—che magari dura di meno, magari è anche meno traumatico in un certo senso—dall'altra parte c'è una procedura alternativa di pieno autocontrollo da parte della paziente," afferma.

A proposito del ricovero previsto per l'aborto farmacologico, poi, "La cosa paradossale è che l'aborto chirurgico lo facciamo in day hospital," fa notare la dottoressa Canitano. "Eppure il primo giorno, quando prende il mifepristone, la donna sta benissimo. Il secondo giorno anche, non le succede niente. Quello che succede è che si tiene una donna che sta bene chiusa in ospedale, una cosa insensata," lamenta.

Esistono comunque regioni, per esempio Emilia Romagna e Lazio, che hanno stabilito la possibilità per le donne di prendere il primo farmaco in ospedale e andare a casa. Torneranno dopo un paio di giorni per procedere all'espulsione, e per i controlli successivi. E nelle altre parti d'Italia si ricorre probabilmente all'escamotage delle dimissioni volontarie delle pazienti—in molte regioni, si registrano per oltre l'80 percento dei casi.

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Per quanto riguarda il limite stabilito a sette settimane, inoltre, questo richiede una rapidità d'intervento che può andare a discapito di molte donne. Facendo due calcoli: le settimane di gestazione vengono contate dall'ultima mestruazione, quindi includono tutto il mese di attesa del ciclo e i giorni di ritardo accumulati prima di rendersi conto di essere incinta. "Se lei ha cinque giorni di ritardo, poi fa il test, poi prende appuntamento in consultorio dopo quattro giorni, poi si fa il certificato, poi deve aspettare una settimana [di riflessione]… è chiaro che andiamo fuori tempo massimo," fa notare Canitano.

E al contrario uno dei grandi vantaggi dell'aborto farmacologico, sottolinea, dovrebbe essere proprio quello di poterlo fare presto. "Ci sono donne sicure che la gravidanza sia indesiderata che vogliono soltanto che questa cosa finisca il prima possibile. Poi ci sono donne che, al contrario, possono essere in qualche modo confortate dall'avere un periodo in cui ci pensano, ne parlano, in maniera che sentano di aver preso una decisione secondo dei tempi," spiega Canitano. E avverte: "Le donne che hanno voglia di pensarci non dovrebbero fare il farmacologico immediatamente, le donne che hanno fretta non dovrebbero aspettare due settimane per il chirurgico."

Perché in Italia il limite per l'aborto farmacologico sia a sette settimane, non si sa. "Il farmaco è stato introdotto nel nostro paese attraverso la procedura di 'mutuo riconoscimento', sulla base del riconoscimento che c'è stato in altri paesi europei," spiega Parachini. "Gli altri paesi europei l'hanno prevista fino a 63 giorni, quindi la procedura di 'mutuo riconoscimento' in Italia per la Ru486 non è stata applicata correttamente."

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L'applicazione difettosa di questa possibilità di trattamento potrebbe derivare dal fatto che—nonostante la legge 194 sull'aborto preveda che le regioni, in accordo con gli enti ospedalieri, debbano promuovere aggiornamenti che accolgano le tecniche migliori per tutelare la salute della donna—chi offre un servizio difficilmente ha voglia di recepire un cambiamento. Parachini e Canitano concordano; nelle parole di Canitano: "I medici sono una popolazione conservativa. È difficile introdurre nuove pratiche, soprattutto quando il servizio pubblico non le difende e non se ne fa carico."

La resistenza e la diffidenza nei confronti della Ru486 nel nostro paese hanno, ovviamente, anche una matrice culturale, ovverosia cattolica: il mondo cattolico l'ha da sempre demonizzata come uno strumento per la 'banalizzazione' dell'aborto, scagliandosi anche recentemente contro la decisione della regione Lazio e della regione Toscana di permettere alle donne di accedere alla pillola abortiva attraverso i consultori familiari e senza ricovero ospedaliero.

"Le donne che hanno chiarissimo che quella gravidanza non la vogliono devono avere accesso a un aborto meno pericoloso, più sicuro, meno traumatico," sostiene Canitano. "Ma [i detrattori] si basano proprio contro questo: non deve essere banalizzato, devi soffrire! Come può essere che una donna rimane incinta, viene aiutata, non è più incinta dopo cinque giorni e non è nemmeno stata male? Eppure succede."

Ed è proprio qui la risposta alla domanda, perché la pillola abortiva in Italia è così poco diffusa? "Le percentuali rimangono così basse perché ogni volta che ci alziamo la mattina e pensiamo che l'aborto è un dramma, noi aggiungiamo un mattoncino al problema delle donne," sostiene Canitano, spiegando che l'accesso alla Ru486 è ancora limitato perché limitato è il sostegno offerto alle donne, alla loro vita e alle loro scelte. "L'aborto è una scelta, c'è una legge che lo consente e non c'è nessun motivo di non seguirla."

Anche Parachini si schiera a favore delle recenti proposte regionali. "Lo stesso Ministero della Salute raccomanda di de-ospedalizzare molte pratiche che sono suscettibili di de-ospedalizzazione, quindi da un punto di visto medico non ci sono motivi che legittimino una resistenza all'applicazione di questo metodo alternativo."

E ricorda: "Semplificare non significa banalizzare. Non è vero che una semplificazione dal punto di vista clinico rappresenti necessariamente una banalizzazione." E infatti le conseguenze fisiche e psicologiche che vive la donna che decide di abortire non sono banali; e quindi forse i detrattori dovrebbero smettere di cercare di deligittimarle pensando che vengano prese, o vissute, a cuor leggero.

* Il nome è stato cambiato per proteggere la privacy dell'intervistata.

Thumbnail via Flickr. Segui Cristiana su Twitter.