Sono nata il 2 dicembre come Britney Spears e, ulteriore coincidenza vuole, a dicembre 2022 l’account Instagram di Britney non è stato l’unico a sparire misteriosamente. 48 ore prima del misfatto avevo chiesto ai miei contatti dei calzini in regalo—mi sono da poco trasferita a Milano e i miei calzini post-vaporwave di spugna bianca non sono più adatti, né al clima, né al momento storico.
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È finita l’era della nostalgia, del weird Facebook, di Listening to Drake and crying e di quel modo confuso di shitpostare e farsi autopromozione mentre le cose ancora accadono al di fuori dalla piattaforma—ormai sostituito da contenuti #foryoupage creati per la piattaforma, dritti, consistenti, funzionali.
Poche ore dopo aver pubblicato la mia richiesta, tra battute delle amiche sui “cum socks” e link di Etsy, ho ricevuto una notifica da Instagram. Il mio profilo era “under review” per aver infranto le Community Policy. Avrei dovuto inviare un selfie con il mio nome, email e un codice numerico di verifica, scritti su un foglio di carta. Non avevo mai ricevuto segnalazioni prima.Sono anni che vado in giro per l’Europa a fare talk sulle subculture online, le diaspore tra piattaforme, le battaglie memetiche; con Clusterduck, il collettivo che ho co-fondato, parliamo di queste cose dal 2016, abbiamo persino diverse chat su Telegram dove ci inviamo costantemente link sulle novità relative alle policy dei social, al design delle piattaforme, ai trend e ai saggi sull’argomento—eppure proprio io, sbadata di una millennial, non avevo mai fatto un backup del mio Instagram account. Quelle liste utilissime di persone, di cui ricordo il nome utente ma non il nome reale, sembravano lì da sempre e per sempre. Se non posto un nudo andrà tutto bene; se non mostro i capezzoli andrà tutto bene, pensavo.
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I SOCIAL MEDIA IMPLODONO, LE PERSONE SPARISCONO
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Eppure nel frattempo stava succedendo qualcos’altro, di cui mi sono potuta rendere conto con piena consapevolezza soltanto in quelle 48 ore e nei 20 giorni a seguire: gli umani erano scomparsi da Meta. Il mio account, insieme a innumerevoli altri ogni giorno—un numero che va crescendo dagli episodi del 31 ottobre 2022—era stato tritato e permanentemente disabilitato da un bot insensato qualsiasi, un ragnetto meccanico che prima mi aveva chiesto un selfie e poi aveva deciso che comunque la mia identità non era verificata. Io non dovevo esistere. Niente auguri e niente calzini quest’anno, Silvia. Ma come si chiamava quell’artista che faceva gli omini storti che sorridono in 3D? E quel VJ tedesco che mi aveva regalato un cioccolatino a Praga? E l’altra curatrice che mi aveva invitata ad andare a trovarla la settimana scorsa? Impossibile ricordarselo.
Così è iniziata la mia missione: trovare un umano. Qualcuno che mi aiutasse a recuperare i miei dati o che potesse almeno dare un senso a questa perdita. [Data la natura kafkiana di questa impresa, le persone coinvolte sono menzionate tutte per iniziale del loro nome.]La sera del mio compleanno apro Instagram per scoprire che il mio account è stato permanentemente disabilitato. Dopo aver seguito le istruzioni sullo schermo che mi portano a una pagina con un front end decisamente arrangiato, in cui è possibile inserire la carta d’identità e un testo di poche righe, sotto suggerimento di F., espertissima archiviatrice e veterana della Facebook jail, chiedo ai miei amici Facebook—che per il momento ancora permangono—di inviare una segnalazione a Instagram dal loro profilo, tramite l’opzione “report a problem.”
COME RECUPERARE UN ACCOUNT INSTAGRAM DISABILITATO
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Dopo un paio di giorni mi rendo conto che queste due operazioni sono state inutili. Così apro il browser e inizio a esplorare. L’assistenza di Instagram è inesistente, la sezione help è un labirinto di hyperlink che portano ad altre pagine informative, fino a farti tornare al punto di partenza. Facebook mette a disposizione due numeri telefonici per l’assistenza, ma a rispondere è una voce registrata. Trovo però una lista di mail dove spedire i reclami e inizio a scrivere—ma non ricevo risposte.Gli utenti comuni non meritano alcun servizio, se non lo stretto necessario per mandare avanti le attività di raccolta dati. Questo è ovvio. Ma in caso di clienti paganti? Leggo che gli account business—cioè gli utenti che hanno collegato un metodo di pagamento al loro account e che hanno almeno sponsorizzato un post—hanno diritto a un livello ulteriore di assistenza. Per loro è possibile chattare con la pagina Meta for Business, dove c’è sempre un bot a rispondere. Collego la mia carta e faccio un piccolo investimento in una sponsorizzazione su Facebook, per attivare il mio account business. È così che sulla pagina del Meta Business help center compare un avviso aggiuntivo: “Trova risposte o contatta l’assistenza.”
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Non mi resta che cliccare il bottone “Get Started”, sperando di poter finalmente chattare con un essere umano. Purtroppo però il fatidico bottone è un falso bottone. Premendolo infatti non succede nulla. Chiedo di nuovo aiuto agli amici: G., marketing manager di una lussuosa catena di ristoranti, F., direttore di una rivista che sponsorizza periodicamente i contenuti della sua pagina Facebook, A., social media manager con clienti altissimi nel mondo della moda. Le prime due persone provano a premere il bottone. Anche il loro bottone è falso. La terza mi confessa che in situazioni particolari, se loggata con alcuni account molto facoltosi, ha il privilegio di premere il bottone e arrivare alla pagina successiva, ma che ora non può farlo.Nel frattempo, qualcosa deve aver fatto capire a Meta che sono un’utente inutile e insistente. L’accesso al mio Facebook Account Center infatti da qualche giorno è inspiegabilmente rotto. Al posto della pagina a cui avrei diritto ad accedere per, ad esempio, backuppare il mio profilo Facebook e reperire i miei sacrosanti e inalienabili dati, compare la figurina di una chiave inglese con sotto la frase (in inglese) “Questa pagina non è al momento disponibile. Potrebbe essere per un errore tecnico che stiamo cercando di risolvere.” Ma sappiamo bene ormai che il motivo è un altro. Come per il bottone falso, anche in questo caso i fili del front end sono stati tirati, portando il mio account a una classe ancora inferiore dell’assistenza clienti: quella in cui non si ha diritto neanche a parlare con i bot.
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ESISTONO PERSONE SPECIALIZZATE NEL RECUPERARE ACCOUNT SOCIAL ALTRUI
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La prima risposta che ricevo, dopo qualche giorno, sembra però purtroppo quella di un bot. O di un umano che ha ricevuto istruzioni da un bot. Decido di giocarmi un’altra carta, quella della minaccia, includendo frasi come “Prendo atto del fatto che i miei dati personali mi sono stati sottratti, mentre sto scrivendo un articolo su VICE Italia sull’argomento e su questa esperienza.” E infatti eccoci qui. Alla mia mail minacciosa però, come ormai abbiamo capito, non ricevo alcuna risposta.
Nel frattempo, nonostante le sue numerose story dove influencers di food svedesi, studenti di ingegneria toscani e proprietarie di negozi di scarpe spagnoli ringraziano lo Specialist perché il loro account è stato finalmente ripristinato, inizio a perdere speranze nel suo metodo.Nel frattempo, scopro che anche se il mio Meta Account Center risulta “rotto”, posso aprirne un altro, usando la mail, e successivamente provare a collegare i miei account. Una specie di fresh start. L’esperimento funziona solo in parte: i miei account non si collegano—ovviamente “Qualcosa è andato storto”—, ma adesso ho accesso a un altro tipo di assistenza per privilegiati, quella dei possessori di visore Oculus Rift, che dal 2021 ha cambiato nome in Meta Quest. Fingere di possedere un visore Meta Quest 2 mi darà finalmente la possibilità di parlare con un umano, devo solo trovare il codice seriale di un visore. Per fortuna da qualche mese ho iniziato a collaborare con P. nella costruzione di una nuova società dove si fanno anche i giochi in VR. P. in quel momento è a Panama, ma sono sicura di avere il suo benestare.
COME CONVINCERE IL META ACCOUNT CENTER A RISPONDERTI
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Così mi dirigo in studio alla ricerca di un seriale. Una volta là, con l’aiuto di G., game developer e simpatico collega, faccio una bella foto da mettere in allegato alla mail, facendo attenzione a tenere sullo sfondo il tappeto di visori Meta Quest 2 che si dipana sul tavolo dove solitamente lavoriamo. Sono ben cinque, mi crederanno ora? Sono degna di ricevere la risposta di un umano? Ricevo immediatamente l’avviso in mail, la mia richiesta è stata aggiornata. Il servizio è decisamente su un altro livello, ora non mi resta che aspettare le 24-48 ore di rigore.
COME CONTROLLARE SE IL TUO PROFILO INSTAGRAM ‘RISPETTA’ LE REGOLE
L’INDIRIZZO DI POSTA A CUI SPEDIRE LETTERE CARTACEE A META
Forse una mano umana vedrà questa lettera in raffinatissima carta Fiorentina, e per amore di un Rinascimento e di uno spazio online a misura d’uomo che ci è ormai del tutto precluso deciderà di pescarla dal mazzo. Forse mi arriverà una lettera di risposta. “L’imperatore—così si dice—ha inviato a te, proprio a te individuo singolo, miserrimo tra i sudditi, a te che davanti al sole imperiale sei fuggito come futile ombra nella più remota lontananza, un messaggio dal suo letto di morte,” scriveva Kafka. Forse la lucertola, l’alieno, il bevitore di bicchieri d’acqua, dal suo letto di morte, o uno dei suoi poveri servi sfruttati, traumatizzati, arrabbiati, forse un giorno mi risponderanno.Dopo un paio di giorni la risposta arriva, oscura e profetica. È Ezequiel che mi scrive dal supporto di Meta Store, a quanto pare il tappeto di Meta Quest 2 ha funzionato. Mi ringrazia per la mia infinita pazienza, dice che è felice di parlare “con una persona così gentile e straordinaria” e mi preannuncia che tra sette giorni l’assistenza di Facebook sarà lieta di rispondermi e di risolvere tutti i miei problemi. Sarà umano? Sarà vero tutto ciò? O quello che ho davanti è forse l’ennesimo copypasta, rinvio a giudizio, la versione più sofisticata del solito scaricabarile? Ad oggi sto ancora aspettando. In futuro, per sapere se la profezia di Ezechiele si è avverata, potrai cliccare su questo link, dove un tempo giaceva il mio account Instagram, @hawaidolphino.———
Silvia Dal Dosso è una creativa multidisciplinare e una ricercatrice in nuove tecnologie digitali e subculture del web. Nel 2016 ha co-fondato Clusterduck, un collettivo che lavora all’incrocio tra ricerca, design e transmedia, con cui ha creato e curato design performativi, workshop collettivi e mostre interattive, come #MEMEPROPAGANDA e Meme Manifesto. Come regista ha scritto e diretto The 1Up Fever, un documentario su Bitcoin e Augmented Reality. Attualmente vive e lavora spostandosi per l’Europa, come direttrice creativa e consulente in ricerca e sviluppo per le nuove tecnologie.
Silvia Dal Dosso è una creativa multidisciplinare e una ricercatrice in nuove tecnologie digitali e subculture del web. Nel 2016 ha co-fondato Clusterduck, un collettivo che lavora all’incrocio tra ricerca, design e transmedia, con cui ha creato e curato design performativi, workshop collettivi e mostre interattive, come #MEMEPROPAGANDA e Meme Manifesto. Come regista ha scritto e diretto The 1Up Fever, un documentario su Bitcoin e Augmented Reality. Attualmente vive e lavora spostandosi per l’Europa, come direttrice creativa e consulente in ricerca e sviluppo per le nuove tecnologie.